Prefazioine
Quando decisi
di scrivere qualcosa in onore di Benedetto Radice, in occasione del 150°
anniversario della Sua nascita, pensai ad un articolo da pubblicare su “La
Forbice“ di Castellana-Grotte per i miei quattro o cinque lettori che, da
tempo, si interessano alle cose di Bronte, mia città natale.
Ma allorché iniziai una più attenta rilettura delle “Memorie storiche di
Bronte“ si aprì l’orizzonte delle mie ricerche su altri storici che hanno
scritto sullo stesso argomento, in generale come P. Gesualdo De Luca, con la sua
“ Storia della città di Bronte”, o in particolare come
Antonino Cimbali,
con i suoi “Ricordi e lettere ai figli”,
Biagio Saitta, con il saggio
“Per una storia di Bronte”, (introduttivo a “Il Real Collegio Capizzi”
di Antonio Corsaro,) Antonino Radice, con “Risorgimento Perduto” e
Pasquale Spanò, con “C’era una volta il Rizzonito (Bronte nella storia
d’Europa).
Ho avuto anche il piacere e l’onore di conoscere per posta e per telefono la
nipote del Radice, prof. Giuseppina Radice, la quale gentilmente mi ha fornito
notizie sia sul nonno che sul padre, nonché sulla loro biblioteca che sarà
argomento di un’appendice.
Per quanto detto, il panorama dell’argomento da trattare si è dilatato oltre le
mie previsioni iniziali e quindi si trattava di scegliere il metodo di lavoro e
di esposizione. Quindi, per dare agli eventuali lettori, la possibilità
di conoscere il Radice direttamente e non per interposta persona, decisi di fare
delle “Memorie…” un florilegio, riportato tutto in corsivo, dal
quale si potesse apprezzare dell’Autore lo stile, la sintassi, la punteggiatura
nonché le osservazioni che andava facendo su quanto esponeva e sulle sue fonti,
documenti o opere altrui, più la critica e l’ironia con cui trattava i suoi
interlocutori, passati e presenti, rispetto al suo raccontare.
Infatti il Radice, che ha scritto tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, usa
una scrittura che differisce molto non solo da quella odierna, ma anche da
quella sua iniziale rispetto a quella degli ultimi anni della sua laboriosa
vita.
Passando, quindi, ad esporre ed analizzare le Sue monografie, si può notare che
il suo stile è quasi sempre aulico, ricercato, curatissimo; la sua sintassi è
semplice, con periodi, per lo più, brevi e senza congiunzioni, spesso con un
costrutto latineggiante, (come per esempio col complemento oggetto all’inizio e
il soggetto alla fine della frase), a volte con termini o frasi toscane,
testimonianza della sua permanenza in quella regione, di cui assorbì non solo la
lingua, ma anche il gusto e la sensibilità artistica. Anche l’uso della
punteggiatura nel Radice differisce dal nostro: infatti egli a tratti ne usa in
abbondanza, altre volte, invece, ne fa a meno, creando nel lettore una certa
difficoltà ad afferrare subito il senso della frase(1).
Il suo vocabolario risente della Sua preparazione classica, peculiarità della
scuola di Bronte, perciò le molte citazioni latine e qualcuna greca, anche se
con frequenti refusi tipografici, come detto a proposito delle osservazioni
sulla edizione del 1984 delle “Memorie…”.(pag. 155)
L’influsso della classicità è frammista a quello della civiltà araba
che, com’ è noto, influì molto nella vita della Sicilia medievale, unitamente a
quella bizantina. Esempio: non solo i ritrovamenti di monete greco-romane, ma
anche l’arte bizantina che si può ammirare a Santa Maria di Maniace.
Se poi si passa dalla scrittura, che sarebbe la forma, all’argomento storia,
che sarebbe il contenuto (Croce, a proposito, dice che le due cose: contenuto e
forma, sono le due facce della stessa medaglia, che sarebbe in definitiva
l’opera d’ arte), l’eventuale lettore di questa antologia si troverà a
constatare che il Radice è scrupoloso e preciso nel riferire le diverse notizie
solo dopo averne trovati i necessari riscontri in documenti, che cita e spesso
riporta, e testimonianze o reperti, che le rendono vere storicamente e
inattaccabili da qualsiasi critica.
Critica che egli esercita severamente verso quegli storici che, spesso,
prescindono da questo metodo di ricerca e di controllo, come egli fa sovente nei
confronti del Suo predecessore P. Gesualdo De Luca, che definisce storico
fantasioso, dicendo:
“Il P. Gesualdo De Luca, nel suo caotico tentativo della
storia di Bronte, di che gli va pur data lode, riferendosi col Narbone e altri
antichi scrittori ai giganti biblici Enacini, Elimi, ne afferma l’esistenza e in
modo dommatico sostiene che Giove, Bronte, Sterope e tutte le divinità erano
persone reali; che Bronte fu re e fondatore della città omonima; […] “Per
il nostro (De Luca) non esistono miti. Tutto è storia vera.” (pag.
15); “Rinunzio a parlare del trittico, come esso è confusamente descritto nel
memoriale dell’abate Gregorio Sanfilippo, presentato al regio visitatore De
Ciocchis e annesso ai documenti 1741-42: Confusione accresciuta dal De Luca,
nella sua storia di Bronte. Mi contento di scrivere le cose come sono al
presente” (pag. 55); altra critica il Radice muove al De Luca, testimone e
narratore della rivoluzione di Bronte dell’agosto 1860, con il seguente periodo:
“[…] Il terrore e lo strazio era indescrivibile. […] un intrepido beccaio,
Nunzio Capizzi, soprannominato “occhio d’ovo“, […] strappato dal seno del Leotta
il piccolo Guglielmo […] fuggendo lo portò in salvo. Il Padre Gesualdo De Luca,
che disordinatamente scrisse di questi avvenimenti, tacque il nome del generoso
salvatore, io sono lieto di poterlo rivelare onorandolo, come esempio ammirabile
di bontà e di coraggio. I buoni plaudirono. (pag. 108)
Altra critica muove al De Luca, ma non come storico, ma come prete cappuccino:
infatti parla diffusamente nella nota (214) della “lotta che il clero,
capitanato dal P. Gesualdo De Luca cappuccino, fece al 12° Arciprete e Parroco
Sac. D. Salvatore Politi 1859 - sospeso dalla dignità e ufficio arcipretale e
parrocchiale il 19 marzo 1866 - morto in età di 46 anni il 6 aprile 1877; è
sepolto nella chiesa di S. Vito, per competenza di elezione tra il Comune di
Bronte, patrocinato dal Cardinale De Luca, e il Vescovo Rigano il quale, dopo 12
anni di contesa, nominò il sac. Politi. Morto Mons. Rigano, il clero si
scatenò contro il Politi. Dirigeva la lotta il P. Gesualdo De Luca cappuccino,
che non risparmiò mezzi perché fosse annullata l’elezione. […] Troppe ire
di sacerdoti e di cittadini per ragioni di parte si erano accese contro il
Politi il quale continuò scrivendo al Sommo Pontefice e al Cardinale De Luca per
difendersi, ma alla fine, nel 1877, uscì di senno e di vita.” (pag. 71)
A proposito di Antonino Cimbali, il Radice, pur riconoscendogli molti
meriti civici e politici sia nella rivoluzione del ‘48/’49 che in quella del
’60, gli contesta il comportamento tenuto prima che scoppiassero i moti del 2/5
agosto 1860: “Era la politica tradizionale del 1820: temporeggiare. Il
comitato teneva le sue segrete adunanze nella casa ducale e ne faceva parte il
dottor Antonino Cimbali […] Eran venuti a Bronte per smuoverlo Giuseppe Arculia,
il cav. Ciancio d’Adernò, il barone Tommaso Romeo da Randazzo e altri da
Catania. - Era il mese di maggio - scrive il Cimbali - ed io coi miei ero alla
Piana, quando un giorno, venuti degli emissari da Catania e da Adernò, si riunì
il comitato nella casa Nelson. Io dovetti mostrarmi indifferente, per i molti
nemici. Raccomandai però di tenere fermo col popolo che da un momento all’altro
potevano ridestarsi i vecchi umori. - Nocque questa astensione del Cimbali.
Egli, di molto credito nel popolo e conoscitore dell’indole della moltitudine,
avrebbe potuto frenarne gl’impeti e scongiurare il pericolo che prevedeva.”
(pagg. 94/95)
E ancora: “Il dottor Antonino Cimbali, vista l’imminenza del pericolo e
l’inabilità del barone Meli, voltosi ai civili radunati, disse: - che fare di
questo pupattolo? Pensiamo ai fatti nostri. - […] e vista l’ incoscienza
e la paura dei minacciati, mandò a dire le parole di salvezza: - Si salvi chi
può .- Fatale egoismo e dissensione che travolse la maggior parte nella
universale ruina! (pag. 103).
Le sue critiche muovono anche nei riguardi di alcuni memorialisti
risorgimentali che hanno travisato certi fatti od omesso e trascurato alcuni
documenti. Si noterà che, pur rispettando la tradizione risorgimentale e la
spedizione dei Mille, non si perita di correggere, forte di documenti
incontrovertibili, alcune asserzioni o comportamenti di Nino Bixio in
occasione degli sciagurati avvenimenti di Bronte dei primi giorni dell’agosto
1860; vediamone i passi relativi:
“Giunto a questo punto, conviene che, io da
narratore e da giudicatore imparziale, deplori come scrittori borbonici e
liberali abbiano in parte alterata la verità dei fatti; quelli esagerando,
questi attenuando e giustificando la violenza bixiana: gli uni e gli altri, per
ignoranza, accrescendo di delitti maggiori e non commessi le colpe del popolo
(pag. 117 ) brontese, confondendo le notizie e attribuendo perciò a
Bronte fatti più atroci di quelli da lui commessi in realtà, e consumati invece
da altri nei paesi sollevati; […] sulla memoria del Bixio, il cui nome è
gloriosamente legato con la storia del nostro Risorgimento, gravano non pochi di
simili atti di violenza; ed è vano che i suoi biografi si studino di
dissimularli. Quello era l’ uomo, che la natura, la quasi nessuna educazione di
famiglia, come dice il Guerzoni, […] avevano formato.
La rivoluzione gli fu
propizia per salvarlo forse da una vita ignobile, e ne fece un bronzeo tipo di
eroe […] Egli era lampo e fulmine, dovunque capitava apparizione terribile. La
qualità dominante in lui era l’ impeto, che lo faceva mirabile ed eroico nelle
battaglie; ma spesso per eccessivo amore di disciplina, giustiziere irremovibile
e tremendo.[…] tutto per la patria ei si credeva lecito di fare: Salus
reipubblicae suprema lex!
“Egli stesso conoscendo il suo carattere così impetuoso, accennando alla
missione di Bronte, scriveva alla moglie nel 17 agosto, dalla spiaggia di
Giardini, “ […] missione maledetta, dove l’uomo della mia natura non dovrebbe
mai essere destinato.”
“Ma comunque, tutti questi suoi atti, figli dell’indole sua fiera e dovuti a
circostanze eccezionali di tempi e di cose, non diminuiscono punto la sua
mirabile figura di patriota e di soldato, del prode dei prodi, come lo chiamò il
Carducci; e l’Italia, che egli molto amò, a cui diede la sua giovinezza,
l’avvenire suo e dei suoi, l’ha già meritatamente glorificato.
“Dei sei scrittori liberali che sono a mia conoscenza: Giovanni La Cecilia,
Busetto Girolamo, Carlo Pecorini Manzoni, Cimbro Lazzarini,
Giuseppe Cesare
Abba e Giuseppe Guerzoni; questi due ultimi, anzicchè narrare,
favoleggiarono; e più letti e più creduti perché primi scrissero, misero in mala
voce la città di Bronte. Il Guerzoni fantastica di reazione fratesca e
borbonica, di stupri di donne, di orribili ma storici squarciamenti di bambini!
E l’Abba di chierici trucidati […], di monache violate […], di seni recisi […],
mentre Bixio prorompeva in piazza e caricava alla baionetta quei dementi.
Di
tutti questi orribili delitti nessuno è vero, nessuno fu visto dal Bixio, né potè essere narrato per la semplicissima ragione che nessuno di essi fu
commesso. Che carica alla baionetta! Bixio arrivò il giorno dopo, finita la
rivolta, quando già la calma cominciava a rientrare negli animi per la venuta
provvidenziale del colonnello Poulet, di cui finora tutti hanno taciuto.
Perché?
Forse per dare a Bixio solo la gloria della repressione? Ed è ingeneroso
studiarsi di mostrare più reo che non sia un popolo ignorante, trascinato al
delitto per cause e colpe non sue e per il fatale andare di umani avvenimenti,
compiacendosi di narrare i fatti dietro fantastici racconti di testimoni non
oculari, […] Se non che i volumi del processo sono lì a smentire ogni cosa.
Il La Cecilia, da storico spassionato, narra in generale le stragi, ed anzicchè dirle effetto di reazione borbonica, afferma che furono una legittima
conseguenza del precedente governo, il quale, iniquo in sé stesso, aveva
corrotta ogni classe di cittadini e preparato i motivi dell’ eccidio. Il
Lazzarini ripete le cose dette dal Guerzoni e dall’Abba. Ci duole che
nessuno dei tanti studenti, medici, avvocati, ingegneri, artisti,
garibaldini che furono a Bronte abbiano lasciato un ricordo delle loro
impressioni, le quali avrebbero di certo sfatate le esagerate fantasie e le
menzogne.” (pag. 118)
L’esposizione dei fatti storici da parte del Radice è spesso interpolata o
conclusa da considerazioni morali, come può accadere dopo aver riferito di un
atto amministrativo poco chiaro o addirittura truffaldino; (a proposito vedi a
pag. 75 il congedo al I volume delle Memorie, che contiene l’indignazione
del Radice per il comportamento del Commissario Prefettizio fascista al Comune
di Bronte, il quale non solo non mantenne la promessa di sponsorizzarne la
pubblicazione, ma faceva sapere che “il Comune non è un ospizio di
beneficenza” ); a proposito dell’acqua il Radice precisa:
“Io sollevai la questione della demanialità dell’acqua, mandando copia
del documento al genio civile di Catania. Il governo fascista ancora non ha
deciso nulla et adhuc sub judice lis est. Corre voce, però, che sarà presto
dichiarata demaniale. Hoc est in votis!”
E in nota aggiunge: “A
edificazione del paese vo’ qui rammentare che nelle elezioni politiche del 1913
avendo io parlato al pubblico e scritto alle autorità locali della facilità di
trovare l’origine delle due sorgenti: Maniaci e Malpertuso, servendosi
dell’opera di un rabdomante, che avrebbe risparmiato al comune l’enorme spesa
della sopraelevazione per mezzo di motori, mi furon scritte di male parole da
certe persone che si gabellano per galantuomini e sono quel che sono. Auguriamo
che il comune possa sopportare la spesa, e che l’acqua non giunga inquinata dai
serbatoi e che le macchine funzionino sempre.” (pag. 17 nota 37).
Da evidenziare la lirica descrizione della veduta di Bronte: “La sua veduta,
a goderla, nelle prime ore del giorno, dalla stazione o dal convento di S. Vito,
nella primavera e nell’autunno, in tutta la sua pompa campestre, è la più
variata e pittoresca della Circumetnea - Di là la vista, spaziando per campi e
vigne e pistacchieti, mandorleti, aranceti, oliveti, sorti come per incantagione
di mezzo all’orrore della lava, beneficati dal paterno Simeto, e per boschi che
a cerchi si prolungano nereggianti su per la chiostra dei monti opposti, i
Nebrodi, […] abbraccia come in un quadro tutto il ridente prospetto della
campagna e del paese sottostante. Le case, cogli alti slanciati campanili delle
chiese, addossandosi le une sulle altre, guardando a valle, paiono di momento in
momento precipitare, rotolar giù e coprire con le loro rovine la bellezza di
quell’ampia e variata scena circostante.” (pagg. 16/17)
E questa interrogativa, speranzosa e poetica preghiera: “E sarà quest’ultima?
E starai tu eternamente, o Mongibello, monte dei monti, mistero dei sofi, sogno
dei poeti, tuonando e fiammeggiando nel candore delle tue nevi, quale ara di
fuoco, eretta dalla terra al cielo, terrore agli Etnei, irridendo coi tuoi
orridi infiniti torrenti di lava alla fatica e alla sorte degli uomini? O non
precipiterai giù negli abissi dell’antica gran madre trasformatrice e
generatrice eterna di vita? E dove è ora irto e desolante deserto, silenzio
tragico e ruina immensa, sarà alle genti future piano verdeggiante o cerulo
mare, solcato da navi italiche? Un sacro spavento invade l’animo atterrito dalla
fatale cieca arcana, onnipotenza della natura!!! (pag. 22 )
O anche voli lirici, quando ha descritto una chiesa e qualche rara opera d’arte
in essa contenuta, oppure ancora quando ricorda un poeta e il luogo in cui è
sepolto, che gli fa esclamare: “Oh potessi dormire laggiù l’ultimo sonno fra
la tenebra sacra delle arcate bizantine del tempio e il pio bisbigliare delle
preci domenicali; fra lo scrosciare delle tempeste, il sussurrare del paterno
Simeto, il frusciare dei platani alti e il cantare degli uccelli!”(pag. 54)
O giudizi estetici: “l’altare dedicato alla
Vergine della Seggiola, di
cui è meraviglioso il dipinto: sembra Raffaello. Il Bambino è abbracciato al collo della Madre, che lo stringe amorosamente al suo seno. Nel volto della
Vergine è soffusa una spirituale dolcezza, una soavità celestiale, che ricorda l’arte umbra…(pag. 53) e a proposito del
gruppo del Gagini: “Stupendo è l’atteggiamento della Vergine levatasi turbata dall’inginocchiatoio al celeste e
soave annunzio; un dolce velo di mestizia le copre il volto dal profilo greco e colla destra par che respinga da sé un sì grande onore. Ha il viso di una
giovinetta sedicenne, il corpo di alte e squisite proporzioni; il volto greco raggia riverenza, qual si deve alla Madre di Dio.”(pag. 57)
Tagliente è la sua ironia, che a volte diventa sarcasmo, nei confronti di certi monaci o preti, che sono tali solo di nome: “Alla coscienza di un Borgia
non era neppure peccatuccio infeudare il paese; era anzi fargli onore, mettendolo sotto la sua protezione cardinalizia. I Borgia erano usi a tutto
osare” (pag.34) “commendatario cardinal Roderico Lenzuoli Borgia, che fu papa Alessandro VI, più celebre per le sue nefandezze”. (pag.52) “Carità inconsulta,
spolatrice del Pontefice, consumata a danno di Bronte, il quale, venuto meno Maniace, per la emigrazione dei Maniacesi e la loro fusione coi Brontesi, avea
visto crescere il suo patrimonio comunale e cittadino! Donazione fatale! Da essa
si originò la gran lite che per la sua libertà sostenne il Comune contro le
prepotenze feudali dell’Ospedale che, sotto velo di difendere l’opera pia, tramava insidie alla sua libertà per avvincerlo con le doppie catene feudali del
mero e misto impero, farsi padrone della vita della libertà e dei beni dei
cittadini. (pag.52)
“Che buone lane fossero poi i frati maniacesi i documenti ci han conservato di loro preziose notizie: ribelli alla volontà dei re e dei papi,
usurpatori dei beni finitimi del monastero di S. Filippo di Fragalà; litiganti, congiuratori e mezzo briganti. Il monastero è pervenuto oggi in tanta ruina et
sterminio, che in tutto è ruinato et di loco di santificazione è fatto ricettacolo di ladri e tutti i commendatarii che su stati e su, non attendino,
salvo ad esigeri gl’introiti et non a lu riparu di ditta Ecclesia. (pag. 52)
I rettori dell’Ospedale,“col prestigio e pretesto dell’opera umanitaria, […] cominciarono a far sentire la gravezza del loro soave giogo,
usurpando giurisdizione, annullando capitoli, imponendo nuove gabelle.”Contro
le quali “levarono la voce alcuni nobili cittadini brontesi […] i quali […]
reclamarono contro i pii rettori; […] e così le vessazioni, le
usurpazioni dei signori governatori dell’Ospedale diedero cominciamento alla
Gran lite.” (pag. 40) […] ma i pii rettori trovarono mille pretesti per
eludere gli ordini viceregi, e con arte e inganni, continuarono nelle loro
soperchierie. (pag. 41)
“Far tacere i diritti del Comune usurpandogli il
patrimonio, eccitare l’ingordigia dei privati cedendo a loro i beni usurpati era
la politica dei pii rettori; i quali traevano vantaggio dalla discordia,
dall’ignoranza dei tempi, dalle farraginose leggi feudali, dalla debolezza e
infedeltà degli amministratori e più dal prestigio dell’opera. Che cosa non
ottenevano i pii rettori?” (pag. 41)
“All’esodo di molte famiglie per le vessazioni degli ufficiali di Randazzo e dei
pii rettori dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo. […] (pag. 45 ); e: “Da
buoni vicini, i nostri monaci di Maniace e di S. Filippo di Fragalà avevano
continue risse e liti per turbative di possesso. Oh santa carità e povertà
evangelica! (pag. 49) “Or non a pregare e a servire Iddio erano intenti i nostri
frati di Maniace, ma ad attaccar brighe […] continuando a vivere di soprusi e
violenze. (pag. 50)
“Vivevano i frati da circa dieci anni senza alcun freno, in
grande corruttela, con grave scandalo dei fedeli; (pag.51) e ancora “il clero,
che ha creduto sempre di avere se non la proprietà assoluta, il dominio utile
del Collegio (pag. 143) “la progettata riforma del ginnasio, le
progettate scuole tecniche e liceali, come tutti i progetti di acqua,
sono rimaste nella deliberazione del consiglio, nel desiderio dei cittadini e
nella fantasia del progettante (pag. 144 ) e “come se il Collegio non
fosse patrimonio del popolo, che lo edificò, […] (pag. 145).
Una menzione particolare merita l’ultima monografia perché è un vero saggio
di alta cultura che risulta anche il meglio curato nella forma. Esso,
attenendosi strettamente all’argomento, fa sfoggio di varia cultura spaziando
dalla classica alla moderna: infatti cita i filosofi greci da Platone a Democrito, i poeti da Omero ed Esiodo a Pindaro, il drammaturgo Eschilo, per
arrivare a Dante.
Fra gli storici cita il tedesco W. Christ con il suo lavoro “Der
Etna in der Grichischen - Poesie”, il De Lorenzo con il suo Etna,
facendo riferimenti anche agli Egiziani, al Recupero, all’Alessi, al Sartorius
Von Walters Hausen , nonché Tucidide. E poi l’Holm, il Movers e il Bouchard e
ancora il Freeman, il Pais, il Ciaceri di “Culti e miti nella storia
dell’antica Sicilia” e il Michelis nel libro “Die Palichen” e ancora
il Fazzello e il Carrera. E fra i narratori di leggende cita Gervasio di Tilbury
e Cesario di Heisterbach e anche il Graf e il Massa.
Chiudo questa mia prefazione sperando di aver dato ai miei eventuali lettori una
chiara idea dei miei intenti per ricordare, il meno indegnamente possibile, il
nostro grande concittadino Benedetto Radice, e augurandomi di esserci
riuscito almeno in parte.
Se in qualche punto posso aver dato l’impressione di avere usato la matita
rosso-blu, consideratelo un residuo di vecchia deformazione professionale e
scusatelo; e se alcune note finiscono con un punto interrogativo ciò è dovuto al
fatto che non ho potuto darne una spiegazione, e comprendete che il compito che
mi sono dato è quello di storiografo e non di storico, così come io ho compreso,
pur evidenziandolo doverosamente, qualche inevitabile svarione preso dal vecchio
caro don Benedetto, al quale auguro buon 150° anniversario!
Nello stesso tempo devo chiedere scusa se, dato che si è presentata l’
occasione, ho approfittato per evidenziare l’arrivo in Bronte, nel 1731, di
Tommaso Lupo (2), palermitano, il quale, sposata Petronilla Catania, ebbe 10 figli,
il cui terzogenito, primo dei maschi, Giuseppe, nel 1774 fu chiamato dal
Sac. Ignazio Capizzi, per costruire il Collegio, che da questi ha preso il nome,
e per rilevare la partecipazione di alcuni miei avi paterni, ed uno anche
materno, nei fatti rivoluzionari di Bronte del 1820, 1848/49 e 1860, e per
citare miei ricordi personali e un mio libro.
Bari, 1 febbraio 2004
Nicola Lupo
Ringrazio il Sac. Giuseppe Zingale e Franco Cimbali, rispettivamente
Rettore e Bibliotecario del Collegio Capizzi di Bronte, il Prof.
Biagio Saitta, dell’Università di Catania, la Prof. Giuseppina Radice,
dell’Accademia di belle arti di Catania, nonché il mio amico Prof.
Silvio Cirillo di Bari, i quali con libri, notizie varie e consigli
hanno agevolato questo mio modesto lavoro in onore di Benedetto
Radice, il quale, assieme a Vincenzo Schilirò, ha reso onore al nostro
Paese nella prima metà del secolo XX.
Un particolare ringraziamento va al Dott.
Mario Schilirò, che ha
eseguito gli schizzi del Radice e mio, aderendo di buon grado al mio
desiderio di impreziosire questo lavoro con le sue pregevoli opere.
Ringrazio di cuore Nino Liuzzo e gli altri amici dell'Associazione Bronte Insieme per avermi
consentito di pubblicare questo mio scritto. Mi auguro, infine, che il Comune di Bronte voglia onorare questi suoi
due illustri Concittadini: Benedetto Radice e Vincenzo
Schilirò, anche sponsorizzando i miei due modesti lavori su di
essi, per ricordarli alle vecchie generazioni e farli conoscere alle
nuove indicandoli come modelli di uomini, di cittadini, di studiosi e
di artisti.
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