Dopo aver descritto la situazione italiana e il sorgere delle società
segrete di Mazzini e Garibaldi e il ritorno in Sicilia di Crispi e
Rosolino Pilo, il nostro storico aggiunge: “Dappertutto sorsero
comitati segreti. Ogni capo Distretto aveva segrete intelligenze con i
Comitati dei Comuni dipendenti affinché tutti pronti insorgessero alla
medesima ora.
A questo movimento non poteva
rimanere tranquillo Bronte […] il cui Comitato, presieduto dal barone Giuseppe Meli,
teneva dunque le sue pratiche con quello di Adernò e col Comitato
Nazionale del Distretto di Catania, in Mascalucia, del quale ultimo
era presidente Michele Caudullo, che poi nei tristi giorni venne a
Bronte, quale commissario straordinario di guerra. […]Segue l’elenco dei cittadini ritenuti liberali: il cav.
Gennaro Baratta […] Giuseppe Radice, […] i fratelli Nicolò e Placido
Lombardo, i fratelli Carmelo e Silvestro Minissale, il Dott. Luigi
Saitta, l’avv. Nunzio Cesare, Franco Thovez, fratello
dell’amministratore della ducea, Rosario Leotta, segretario della
ducea, il sac. Antonino Zappìa Biuso,l’avv. Giuseppe Liuzzo.
“Erano in voce di borbonici: Antonino Leanza, sindaco, Pietro
Sanfilippo, capo della guardia urbana, Antonino Parrinelli,
farmacista, Ferdinando Margaglio avvocato, Bernardo Meli farmacista,
Vincenzo Saitta percettore delle tasse, Dr. Aidala Francesco cassiere
comunale e tutti i preti e i frati. Altri civili si mostravano
indifferenti: né fedeli, né ribelli.
“Si macchinava, si trepidava […] Il popolo pareva ignorare quelle
macchinazioni, ma […] fiutava per l’aria le imminenti novità.”
Avvenuto lo sbarco dei Mille, Garibaldi “lanciava il proclama
della riscossa” dichiarando che loro intento era solo “la
liberazione della nostra terra,” e incitando “i Siciliani
All’armi tutti! La Sicilia insegnerà ancora una volta come si libera
un paese dagli oppressori colla potente volontà di un popolo unito.”
“Altri proclami improvvisano gli ufficiali […] Si legge, si commenta,
si spera. La febbre di indipendenza prende anche l’animo dei giovani
che corrono ad arruolarsi […] I Comitati rivoluzionari preparano armi.
[…] Bronte […] a viso aperto, sfidando la polizia, fu tra i primi […]a
vendicarsi in libertà. […] I reggitori del Municipio, fedeli al
Borbone, e più affezionati alle loro cariche, […] aspettavano l’ultima
ora per darsi con comodo al vincitore. Era la politica tradizionale
del 1820: temporeggiare. Il comitato teneva le sue segrete
adunanze nella casa ducale e ne faceva parte il dottor Antonino
Cimbali(3) […].
Eran venuti a Bronte per smuoverlo Giuseppe Arculia,
il cav. Ciancio d’Adernò, il barone Tommaso Romeo da Randazzo e altri
da Catania. - Era il mese di maggio -scrive il Cimbali- ed io coi miei
ero alla Piana, quando un giorno, venuti degli emissari da Catania e
da Adernò, si riunì il comitato nella casa Nelson. Io dovetti
mostrarmi indifferente, per i molti nemici. Raccomandai però di tenere
fermo col popolo che da un momento all’altro potevano ridestarsi i
vecchi umori.(4) -
Nocque questa astensione del Cimbali. Egli, di
molto credito nel popolo e conoscitore dell’ indole della moltitudine,
avrebbe potuto frenarne gl’impeti e scongiurare il pericolo che
prevedeva. Verso mezzogiorno i dimostranti seguiti da popolo
percossero la via principale colla bandiera spiegata gridando: Viva
l’Italia! Viva Garibaldi! “[…] Gli avvenimenti incalzavano. […]
La mattina del 17 (maggio)
ritornarono a Bronte il cav. Enrico Ciancio d’Adernò, il barone
Tommaso Romeo, Stefano Greco. Erano allo Scialandro ad attenderli gli
avvocati Nicolò Lombardo, l’avv. Liuzzo Giuseppe, l’avv. Cesare
Nunzio, l’avv. Francesco Cimbali, i quali ricevuta la bandiera,
entrano in paese fra le acclamazioni entusiastiche del popolo.
La
bandiera portata dal modesto emissario Ciraldo, fu inalberata al
Casino dei civili. L’avv. Cesare arringò la moltitudine, e le sue
parole […] accolse questa con applausi, aprendo il cuore alle più
belle speranze. […] Il paese era in festa, anche noi bambini ci si
pavoneggiava per le vie con al petto la nostra bella coccarda
fiammeggiante. Se non che quell’allegrezza si abbuiò un giorno, per un
istante, alle parole imprudenti del notaio Ignazio Cannata, che alla
vista della bandiera si era lasciato uscir di bocca:
- Pirchì non si
leva sta pezza lorda? Il popolo, che l’aveva in odio, non come
borbonico, ma come notaio della ducea, raccolse quelle parole
sconsiderate e se ne ricordò trucemente più tardi, e pazzo di gioia si
abbandonò a frequenti dimostrazioni. […] La rivoluzione penetrò anche
nel convitto Capizzi. Il sac. prof. Antonino Zappìa Biuso un giorno
incaricò un suo discepolo di portargli una verga colorata in verde,
rosso e bianco, per fare una dimostrazione sulla carta d’Italia. Il
giovinetto, il domani, colla sua bella verga ornata di nastri
tricolori, tutto lieto scendeva in classe con i suoi compagni, quando
il prefetto di spirito, il rigido sac. Luigi Radice, bruscamente
gliela tolse. Riunitosi il consiglio dei professori e dei superiori,
fu lo Zappìa severamente rimproverato di quella scappata, che poteva
compromettere l’esistenza dello Istituto; egli però come nulla fosse,
ritornato in classe, parlò calorosamente ai giovani del gran fatto
unitario. “Intanto Garibaldi nel 27 maggio entrava in Palermo, e chiamava alle
armi tutta la Sicilia. “[…] Nel 31 maggio insorgeva Catania […] e Giuseppe Poulet,
vecchio colonnello nel ’48, respinse i 1200 regi […]
Sciolto il Comitato nazionale di Catania, il cittadino Vincenzo
Tedeschi fu creato governatore da Garibaldi […] e così la
rivoluzione entrò trionfalmente in Sicilia.
“La notizia di Catania sollevata mise maggior fermezza in Bronte.
Sentirono morte le speranze i pochi Borboniani, presero animo i
liberali, e nel 29 giugno il Comitato inviava a Garibaldi un indirizzo
ampollosamente retorico che si conclude così : “Gradite
adunque i voti del popolo Brontino che gioisce delle vostre vittorie e
grida a tutta gioia: Viva l’Italia unita! Viva Vittorio Emanuele! Viva
Garibaldi! Bronte, 29 luglio 1860 - Firmato Il Presidente del
Comitato: Giuseppe Meli e 10 componenti fra i quali figura Nunzio Lupo.(5)
“Passava intanto da Bronte Nicola Fabrizi e molti giovani brontesi
corsero ad arruolarsi sotto la bandiera del Dittatore.(6)
“Coll’indirizzo inviato al Dittatore il paese accettava ufficialmente
il nuovo governo. La plebe però non vedeva solo nel Garibaldi il
liberatore dalla tirannide borbonica, ma il liberatore della più dura
tirannide, la miseria; ed impaziente aspettava che fosse tolta
la tassa sul macinato, fatta la divisione del demanio comunale, già
ordinata dallo stesso Borbone e novellamente dal Garibaldi col decreto
del 2 giugno. Di ciò i reggitori non s’erano punto curati, per
naturale indolenza e per non ledere l’interesse di parecchi civili,
che si erano fatti usurpatori delle terre vulcaniche del Comune. La
restaurazione borbonica nel 1849, a Bronte, come altrove, aveva dato
adito ad intrighi ed abusi, ed essendovi dappertutto sofferenti ed
oppressi, da tutti s’agognava vendette e riparazioni.
In Bronte
specialmente lo spirito dei contadini era volto al patrimonio del
Comune che sapevano essere larghissimo; onde essi, inquieti e
crucciati, vedevano di mal’occhio alcuni della classe civile,
sfruttatori ed oppositori ai diritti della plebe consacrati dalla
rivoluzione.
Era pure nella coscienza del popolo che la rivoluzione avrebbe
sequestrato a beneficio della comunità i beni della ducea Nelson.
Caduto il Borbone, dicevasi, sarebbe caduta anche la donazione da lui
fatta non su beni propri, ma sul donativo del milione datogli dal
Parlamento Siciliano nel 14 settembre 1794; giacchè il Re, per i beni
tolti all’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo e concessi al Nelson,
aveva assegnato sul milione, come corrispettivo della rendita che
l’Ospedale ritraeva dallo Stato di Bronte, 75000 ducati.(7)
“Giovò alla duchessa Nelson la sua qualità di cittadina britannica: un
altro straniero sarebbe stato certo spogliato dei beni, la cui origine
rammentava la fine di una repubblica e la morte lacrimevole di
nobilissimi cittadini.
“Erano trecento cinquanta anni che Bronte lottava per i suoi diritti
[…]. Aveva visto il suo territorio, ingranditosi per l’emigrazione dei Maniacesi, assottigliarsi di giorno in giorno, fino a sparire
interamente per novelli diritti, cavilli e pretese dell’Ospedale
Grande e Nuovo di Palermo ed in seguito del Duca […] lunga, non
interrotta sequela di cause aveva tenuto le generazioni in continui
travagli e ne aveva occultamente esasperati gli animi.
“I grandi tumulti, come le grandi passioni, recano in sé medesime la
propria giustificazione. - Gli uomini, dice il Machiavelli,
dimenticano più presto la morte del padre che la perdita del
patrimonio, -(8)- perché le cose che hanno in sé utilità, quando l’uomo
ne è privo, non le dimentica mai, ed ogni minima necessità te ne fa
ricordare e perché le necessità vengono ogni giorno, tu te ne ricordi
ogni giorno.(9) - Ond’è che ogni rivoluzione o rivolta politica in fondo
non è che rivoluzione sociale ed economica; e si muta volentieri
padrone e si fanno le rivoluzioni, credendo migliorare. […]
“Bronte, per sentenza di cattivi giudici, aveva sofferto di fresco la
perdita degli antichi usi civici sui beni dell’Abazia di Maniace e di
Fragalà. Il popolo ne incolpava l’incuria dei reggitori e la
connivenza di malvagi cittadini; ond’esso aveva in odio gli uomini del
Comune e della ducea,e non avendo più fede nei tribunali, credeva
poter fare giustizia da sé, profittando dello scompiglio che
naturalmente portava seco la rivoluzione politica.
“In due fazioni era diviso il paese: comunisti da una parte,
ducali dall’altra.
Erano a capo dei comunisti: i fratelli
Lombardo dott. Placido e avv. Nicolò, i fratelli Carmelo e Silvestro Minissale, il dott. Luigi Saitta. Avevano i fratelli Lombardo e
Minissale sostenuto liti costosissime contro la ducea, donde il loro
odio per essa. Tenevano per la ducea:
Thovez, l’avv. Cesare, l’avv.
Liuzzo, Leotta Rosario, Leanza Antonino, Bernardo Meli, quasi tutta la
classe dei civili e, fra la maestranza, i Lupo e gli Isola; e,
sebbene fra loro non si fosse mai venuto ad aperta guerra, pure
tramavansi e macchinavansi a vicenda sin dal ’48 atroci calunnie, onde
i Lombardo patirono il carcere.
“[…] Ordinato lo scioglimento e la ricostituzione dei Consigli civici,
e la formazione della Guardia Nazionale, […] esclusi dai consigli
tutti i favoreggiatori diretti e indiretti della restaurazione
borbonica,[…] l’avv. Nicolò Lombardo, sostenitore e capo dei
comunisti, recò nelle sue mani il potere e mise ad effetto la
tanto bramata divisione. La forza della rivoluzione ed i decreti del
Dittatore gli davano cagione a sperare di sgominare e sopraffare il
vecchio partito, che egli s’impegnò di mettere in mala vista al nuovo
Governo.
I reggitori e i ducali […] capirono che egli Presidente del
Municipio, avrebbe disturbato il loro quieto vivere e sarebbe stato
l’acerrimo nemico degli usurpatori; ond’essi […] lo combatterono
mettendolo in sospetto di borbonico presso il governatore Tedeschi. Così si calunniavano a vicenda, e quindi brontolavano i
cittadini. Indette le elezioni, credo, nella seconda quindicina
di giugno, contro ogni previsione e speranza il partito dei comunisti
rimase battuto.
Invece del Lombardo Nicolò fu eletto a Presidente del
Municipio Sebastiano De Luca, e il Barone Vincenzo Meli, uomo imbelle,
a Presidente del Consiglio, invece del Carmelo Minissale e del dott.
Luigi Saitta. Questa sconfitta crucciò ed esasperò i proletari, dei
quali crebbe vieppiù l’esasperazione, quando invece del Lombardo venne
eletto a giudice l’avv. Cesare, allargatasi la lotta nei partiti, in quell’aspro cozzare, fu non piccola causa del tragico tumulto.(10)
Il
partito rivoluzionario si sciolse. Il Lombardo, che si era adoperato
al trionfo della rivoluzione, allontanato da tutte le pubbliche
cariche, se ne accorò tanto, che voleva abbandonare il paese. Fu
scritto al Governatore Domenico Piraino e al Comandante della Guardia
Nazionale che provvedessero alle cose di Bronte. Furono dipinti come
liberali camuffati i consiglieri e i magistrati eletti; furono
accusati di aver tenuto in non cale i decreti del Dittatore, […] di non
aver fatto la divisione dei beni comunali, e non aver abolita la tassa
sul macinato: di che il popolo era fieramente corrucciato. Ma
nessuno potè occuparsi di quelle querele. In mezzo a questo
tramenìo dei due partiti non si può certo lodare la condotta del
Governatore Tedeschi. […] Fu atto impolitico e funesto il suo di non
soddisfare la naturale ambizione del Lombardo; il quale, certo, colla
responsabilità della carica, non avrebbe spinto i contadini a quelle
dimostrazioni, che tramutaronsi facilmente in sanguinosa sommossa.
[…]” Questi comportamenti “spinsero il Lombardo alle congiure e
resero il conflitto inevitabile, fatale. […] Un’ immensa moltitudine
percosse minacciosa le vie della città gridando: Abbasso il Municipio!
Abbasso i Borbonici! Viva Garibaldi! Vogliamo la divisione. Il vecchio
partito credette passeggera quella tempesta, e, imprevidente non si
affrettò a soddisfare i desideri della plebe. “Allo Scialandro, in luogo aperto, ed in casa dei Minissale e più
frequente in casa Lombardo, convenivano i popolani. Argomento dei
discorsi: il modo di abbattere il Municipio, la divisione delle terre
comunali e della Ducea, l’abolizione della tassa sul macinato. […] il
Governatore di Catania, ad istanza del console inglese, che aveva
subodorato le intenzioni della plebe, aveva fatto affiggere ai muri un
avviso, nel quale raccomandava il rispetto alla proprietà Nelson.
Il Minissale Carmelo e il Lombardo ridendo di siffatta raccomandazione
dicevano: Appresso ne parleremo. […] “Si erano formate quattro compagnìe di Guardia Nazionale: tre di
civili e maestri del partito ducale, […] capitani l’avv. Cesare, l’avv.
Leanza, Franco Thovez, impiegato della Ducea e sospetto al popolo;
l’altra di contadini, pochi civili e maestri, capitanata da Nicolò
Lombardo: era chiamata la compagnìa degli spataioli(11). Delegato di
P.S. era Nicolò Spedalieri, uomo caro a tutti. Le compagnìe si
guardavano fra loro in cagnesco e si provocavano a vicenda. […]
“Mentre il paese era in questi travagli avvenne un misfatto che lo
contristò fortemente. […] Era difensore della parte civile l’avv.
Cesare, dell’imputato il Lombardo […] L’omicida venne
condannato a morte (18/6) […] Nell’animo dei due avvocati rivali
crebbero le cagioni dell’odio e nella plebe il malcontento. La marea
ingrossava. I ducali compresero allora il pericolo; alcuni civili
giurarono la morte del Lombardo. […] Questi, saputa la trama e
il pericolo, non usciva più la sera e faceva entrare i suoi dalla
parte opposta, per una porticina che dà nell’orto.
“Mentre questi casi tenevano variamente agitato il popolo, il domani
dell’entrata di Garibaldi a Palermo erano scappati dalle carceri, non
più ben custodite, molti delinquenti, che, sparsisi per paesi,
correvano la campagna, sobillando i popolani contro i borbonici,
che erano i possidenti, dei quali bramavansi i beni e il sangue,
sperando impunità al mal fare nell’ universale trambusto; giacchè
facilmente sperdonsi nei tumulti e colpe e colpevoli. Vi ha chi
afferma che quella tela di delitti, estesa a varii comuni dell’Isola,
era stata ordita precedentemente nelle carceri.(12)
“Io invece penso essere un ordinario fenomeno che riappare sempre
sotto la stessa forma, nelle mutazioni di governo, ovunque son torti
da vendicare, deboli da sopraffare e partiti che cozzano fra loro e si
dilaniano.
Le idee di libertà giungono alla conoscenza delle plebi travisate in
licenza […] allora viene a galla tutta la feccia plebea, bramosa di
saccheggi e di rapine. In quel torno di tempo, giugno e luglio,
insorsero parecchi comuni (ne elenca 24) dove la plebe […]
gridò: abbassu li cappeddi. […]
“Ciò che non si può ottenere in tempi ordinari e per via di leggi,
si è soliti tentar di ottenere colla violenza nelle rivoluzioni,
credendo come spesso accade, che queste sanzionino e ratifichino il
fatto compiuto. Ciò che non era stato possibile nel ’48 si sperava nel
’60. Da cosa nasce cosa. Si faceva correr voce che il Lombardo tenesse
corrispondenza con Garibaldi; il che cresceva a lui prestigio ed
audacia agli insorti; e molti del popolo […] si erano accostati a lui
per abbassare le forze degli avversari e costringere il
Municipio a lasciare il potere.
“Erano ritornati in Bronte dalle carceri alquanti malfattori, noti per
uccisioni e per furti. […] Andavano costoro per le vie con berretti e
fiocchi tricolori, fieri della ricuperata libertà, sobillando […] il
popolo minuto alla sommossa, […] Questo rumoreggiare del popolo attirò
pure in Bronte […] molti altri facinorosi dei paesi vicini. […]
Il Municipio ed il Comitato provvisorio inquieti della sinistra
apparizione di quei fattori, deliberarono l’arresto dei caporioni
brontesi. La mattina dell’8 luglio il capitano Franco Thovez con la
sua compagnìa, con a capo il notaio Cannata e Giovannino Spedalieri,
sopraintendente alle carceri, percorse il paese a suon di tamburo,
perquisì parecchie case ed arrestò il Gorgone, Nunzio Franco
Cesarotano, l’emissario Nunzio Ciraldo e Arcangelo Attinà. […]” Il giorno dopo, 9 luglio, il Lombardo scrisse al Marchese
Casalotto, comandante della Guardia Nazionale, protestando per
l’arbitrarietà degli arresti “compromettenti la libertà dei
cittadini e l’ordine del paese. […] “Il comandante, in data 11, risponde scandalizzato per la
censura alla condotta del passato Governatore Tedeschi […] e lo
prega di essere più riservato, scrivendo sul conto d’ una autorità,
mentre loda la moderazione sua e degli altri perchè rassicurava
l’ordine pubblico. “Però l’attentato alla libertà di qualunque cittadino è sempre
censurabile, massime quando non si conservano le norme di legge, e
perciò io dovrei […] pregarla perché […] Ella si metterà
d’accordo col Delegato e con gli altri capitani della G. N. onde
[…] conoscere e provvedere al mantenimento dell’ordine con […]
prudenza […] Però se qualche individuo si mostrasse refrattario
agli ordini delle autorità dei capitani della G.N., Ella me ne darà
dettagliato notamento individuale affinché possa a di loro carico
emettere e provocare occorrendo misure di rigore. Son sicuro che non
vorrà risparmiarsi a darmi conto di ogni avvenimento […] Ella, siccome
gli altri […] dovranno far modo che la cosa pubblica non venga
menomamente molestata per odii privati […] Firmato Il Generale
Comandante Marchese Casalotto.(13)
“Savi, autorevoli consigli e incitamenti questi del Comandante, ma
che nello stesso tempo mostrano bene come le autorità del Distretto
ignorassero o fingessero d’ignorare le discordie e le cause dei due
partiti fieramente avversi fra loro. “Il Comitato intanto decise di far tradurre a Catania gli arrestati,
ma […] dopo sette o otto giorni il presidente del Comitato […] o come
altri dice il Lombardo […] favorì l’evasione dei carcerati […]; vi
rimase il solo Ciraldo, a cui l’indomani fu data pure libertà e ordine
di lasciare il paese. “La tranquillità pubblica venne vieppiù turbata. Le dimostrazioni si
succedevano, canzoni minacciose cantavansi la sera sotto le finestre
delle case designate al saccheggio. S’era prefisso per la sollevazione
il giorno 5 agosto, ricorrenza della festa di S. Maria della Catena
perché in quel giorno, domenica, vacando i contadini dai lavori
campestri, si potesse levare a tumulto tutto il popolo. Il dottor
Placido Lombardo, nella sua qualità di medico, andando per le sue
visite, suscitava gli animi, raccomandando di non mancare nessuno al
dì convenuto. Apertamente si ragionava per le vie, nei crocchi, nei
caffè della prossima tumultuosa dimostrazione.(14)
“Un contadino, Nunzio Ciraldo Frajunco, ritenuto matto, cinta la testa
di pezzuole tricolori, intrecciate a foggia di corona, con una ferla
in mano, andava annunziando per le vie:
-
Cappelli, guardatevi, l’ora
del giudizio si avvicina, popolo, non mancare all’appello.
Saliva
anche sul Casino dei civili e lì, malaugurata Cassandra, ripeteva il
suo rozzo, minaccioso e fatidico sermone, condito di sali e infarcito
di scempiaggini. I galantuomini, veri dementi, ridevano del matto,
mentre i popolani affilavano scuri e coltelli e preparavano polveri ,
aprendo l’anima alla brama di selvagge vendette. Vista ingrossarsi la
tempesta, da alcuni buoni si tentò conciliare i partiti.
Chiamato
urgentemente da Ucria, venne in Bronte il Cav. Gennaro Baratta, amico
al Lombardo. Egli mostrò a costui i pericoli a cui si andava incontro,
essendo assai inaspriti gli umori di parte. Il Lombardo, troppo
presumendo, l’assicurò che non si sarebbe venuto a vie di fatto; e a
prova delle sue rette intenzioni, fatto venire a sé uno dei capi il
muratore Rosario Aidala, gli ingiunse di raccomandare a tutti il
rispetto alla vita e alla proprietà dei privati, e che si ponesse
rigorosa custodia alla casa del Comune, dove trovavansi circa
centomila lire.
L’Aidala andò via mormorando degli ordini dati e
ragionando coi suoi diceva:
- A che questa rivoluzione? Se dobbiamo
rispettare il denaro del Comune? Già tra il capo e i ribelli
mostravansi diverse le intenzioni, argomento e presagio di sconvolte
passioni e di anarchia. […] In quei giorni di agitazione uno dei fratelli Lupo, Nunzio,
seguito dai militi della Guardia Nazionale andò a casa Lombardo per
intimorirlo. Era il Lombardo seduto sul pianerottolo della sua casa, e
ragionava con alcuni dei suoi. Il Lupo con parole arroganti e più
aspri modi, gl’intimò di far cessare dimostrazioni, tirandolo per la
barba, che egli portava lunga. Uno degli amici del Lombardo, Francesco
Russo Scantirri Boccadivecchia, voleva vendicare l’atto insolente e
provocatore; ma il Lombardo trattenne il braccio del popolano, per non
fare con una intempestiva imprudenza abortire il preparato moto, che
doveva portarlo al potere. Il Lupo andò via apostrofandoli: Non dubitate, siamo preparati a
darvi la risposta.(15) “Le sorti del paese inclinavano già a precipizio per la
dappocaggine delle autorità dei capitani del nobile corpo della G.N.;
onde alcuni previdenti […] si strinsero insieme in casa del Presidente
del Municipio, Sebastiano De Luca per organizzare la difesa. Ma per
diversità di sentire […] non si prese alcun energico provvedimento, ma chiesero alle autorità di Catania sollecito aiuto di armi.
“Alcuni di quelli che avevano più a temere della vendetta popolare, in
pieno giorno ed a vista il popolo, fuggirono dalla scompigliata città.
La mattina del 31 luglio il paese, popolarmente tumultuando, reclamava
la divisione dei beni. Arringò la moltitudine il Lombardo, esortandola
all’ordine, promettendo che si sarebbe adoperato a pacifica e legale
divisione; ma la folla si diradò scontenta. Le autorità erano in
grande imbarazzo. In questa stessa mattina alcuni civili e maestri e
impiegati della Ducea, muniti di un officio del Presidente del
Comitato, partirono segretamente per Catania, a sollecitare dal
Governatore Pietro Crispo, succeduto al Piraino, l’invio di soldati
narrando i mali che pubblicamente si minacciavano. Timidamente, per
non trovarsi nel trambusto, lasciarono il paese anche i fratelli
Minissale, fatti più cauti dai travagli patiti nel ’48.
“Il governatore nel 2 agosto fece subito nota al Lombardo, qual
capitano della Guardia Nazionale, la sua responsabilità scrivendogli
che lo stesso giorno sarebbe partito il Questore e una forza
sufficiente a far rinsavire i tristi, ma nello stesso tempo gli
ricordava che era compito della G. N. mantenere l’ordine e sua la
responsabilità della riuscita dell’operazione. Lo esortava quindi a spiegare tutto lo zelo ed energia, che debbono
essere propri di un cittadino e di un capo del più nobile corpo del
Comune, la trascuratezza di che la potrebbe gravemente compromettere.
Per il Governatore, il Segretario Generale: C. Di Gironimo”.(16)
“Le autorità del Distretto, invece di pronti soccorsi, mandavano
uffici perdendo nello scrivere e nel discutere ciò che nei tumulti
civili ha maggiore valore: il tempo. Saputosi intanto di quella andata
e prevedendo che la presenza dei soldati avrebbe impedito il
sollevamento, ad alcuni faziosi non parve di dover aspettare il 5
agosto.” |