Aura che volge che or da questo or da quel lato spira è amor di plebe.
“Intanto fra il sorgere glorioso e
il cadere infelice della Rivoluzione, in Bronte, come si è detto, seguirono
fatti che ne turbarono l’ordine e la tranquillità. Due partiti, i Comunisti
e i Ducali tenevano diviso il paese. Quelli intesi a difendere i diritti del
Comune, questi gli interessi della ducea dell’ammiraglio Nelson. Componevano
la ducea le due abazie di S. Maria di Maniace, di S. Filippo di Fragalà e lo
Stato di Bronte, di cui era Barone l’ospedale Grande e Nuovo di Palermo. Ferdinando Borbone,”
come abbiamo detto precedentemente, “ne aveva fatto dono al Nelson […]
Decretata dal Parlamento siciliano la decadenza del Borbone e della sua
dinastia, il popolo si levò a rumore, subornato dai fratelli D. Carmelo e
Silvestro Minissale, fanatici e ignoranti e dal Cav. Gennaro Baratta(2) loro
nipote, che erano in lite con la ducea, credendo di potere in tempo di
rivoluzione farsi impunemente giustizia da sé, ed ottenere quel che
Tribunali e Corti gli negavano o differivano: ferveva allora la questione
del proscioglimento dei diritti promiscui. […] Non vi fu spargimento di
sangue, non furti, non magazzini scassinati. Anzicchè sommossa fu un’ondata
tumultuaria, solenne per mettersi in possessione degli antichi diritti da
lungo tempo contrastati. […] I Minissale […] s’ impossessarono delle terre
della Piana e del carcere Bovi, e vittoriosi come reduci da una conquista,
tornarono in Bronte, suonandosi a gloria le campane.
“Il Governatore
della ducea, Guglielmo Thovez, alla vista del popolo armato, credendosi in
pericolo, fuggì da Bronte e, per mezzo del console inglese dolendosi della
patita violenza, inviò al Presidente del Comitato generale di Catania una
vibrata protesta,” che, dopo una lunga precisazione sui diritti
della ducea, conclude:
“L’ingiuria merita una soddisfazione, il danno un
risarcimento e […] perciò a lei mi rivolgo ad eccitare il di lei zelo perché
provochi un pronto riparo a tanto danno.” Il Viceconsole Guglielmo Rose vi
aggiungeva un minaccioso fervorino” che conclude così: “La prego
accusarmi ricezione della presente e farmi conoscere le disposizioni che
emetterà all’assunto.” “Il Comitato Generale di Catania […] scriveva, fra l’altro, al
Comitato di Bronte: - Forti e stringenti reclami sono stati inoltrati a
questo Comitato dal Viceconsole britannico […] e a nome del suo
Governo mi chiede riparazioni, io mi rivolgo a cotesto Comitato perché
gl’insorti inconvenienti siano eliminati […] pel Comune di Bronte
direttamente esigo la massima diligenza e solerzia, perché mi attendo che in
pronta risposta Ella voglia darmi i più rassicuranti riscontri sull’
assunto. - Il Presidente del Comitato Generale di Catania. “Nello stesso giorno, 3 maggio, il Comitato di Giustizia e Culto, […] non
costituendo reato il fatto che i contadini siano popolarmente andati a
turbare la proprietà della Lady Nelson, solo per compiacere alla nazione
inglese, fece la seguente ordinanza:” Viste le rimostranze del Comitato
Generale, la protesta del console britannico e la supplica del governatore
Thovez, “ha deliberato che il Comitato di Bronte […] passi subito ad
arrestare i fratelli Carmelo e Silvestro Minissale […] inoltre questo
Comitato dichiara […] tutte le autorità locali ecc. responsabili di
tutti i danni arrecati alla proprietà della ducea […] Catania, 7 maggio 1848
e seguono le firme.
“[…] Il Comitato di Bronte però non ostante gli ordini e le minacciate
responsabilità non si commosse affatto. Avevano i Minissale molti partigiani
nel popolo; nessuno quindi osò […] arrestarli, onde il partito dei ducali
[…] una notte diedero l’assalto alla casa Minissale, ma questi avvisati a
tempo ebbero agio di rifugiarsi a Bolo, nella fattoria del loro nipote cav.
Baratta.
Il paese era in grande agitazione. Da un momento all’altro si
temeva venire alle armi. […] In questi travagli era il Comune, quando ne fu
sollecitato il Padre Giacomo Meli, il quale scrisse al Marchese della Cerda
Ministro dell’Interno per interessarlo a favore dei Brontesi, […] per
sospendere le misure di rigore che a ragione eransi date e ritirarsi le
squadre per non degenerare di peggio un affare che potrà compromettere un
popoloso comune di Sicilia. Prega inoltre l’E.V. a prender conoscenza dei
fatti avvenuti […] per non ascrivere ad un intero Comune quel fatto
di non tanto rilievo commesso da pochi contadini e da qualche altro che li
ha suscitati. […]
“Il Comitato Centrale intanto […] avvisava il cittadino Carlo Ardizzone,
commissario del potere esecutivo del Valle, perché inviasse a Bronte una
commissione […] per certificare le cose asserte dal Battaglia. Ma non
contento a questo, il cittadino Ardizzone […] scriveva al Presidente del
Comitato Centrale […] per venire arrestati i fratelli Minissale ribelli e
sordi agli ordini delle autorità, e di inviare a Bronte una squadriglia
della colonna mobile e far così paghi i desideri del Console.
“La commissione eletta però non vi andò, vi fu inviato invece il colonnello
Ciancialo con una squadra. Né il colonnello, né la squadra poterono nulla.
Le cose andavano per le lunghe […] Il fatto è che in Bronte la maggior parte
teneva per i Minissale, e vi era implicato tutto un popolo in quella
incruenta sommossa, onde riusciva difficile al giudice fare il processo ai
colpevoli.
“Nel 6 giugno, vi andò Benedetto Zuccarello, membro del Comitato di
Giustizia,[…] il quale […] accordò ai fratelli Minissale un salvo
condotto di otto giorni per recarsi a Palermo dal Presidente del Governo e
discolparsi. Tornarono i Minissale in Bronte, seguiti da molto popolo
armato, come in trionfo e nello stesso giorno […] partirono per Palermo.
“Lo Zuccarello”
fu biasimato per la sua prudenza “dal cittadino
Ardizzone […] il quale pare fosse molto amico alla ducea e arrendevole ai
voleri del Console, e quindi dispettoso e crucciato che i grandi colpevoli
gli fossero sfuggiti di mano.
“Intanto, mentre a Bronte si faceva il processo di quel fatto […] e mentre
Governo e Comitati generali e centrali di giustizia e di guerra […] si
affaticavano a voler trovare un delitto dove non era, contro le insistenze
degli agenti diplomatici inglesi […] vegliava il Pari sac. Giuseppe
Castiglione, che animato da sentimenti di patria carità, tanto seppe e fece
da togliere il processo criminale dal potere dei magistrati, facendone
avocare al Parlamento la soluzione.
Presentata alla Camera dei Pari “la mozione di abolire l’azione
penale contro i Brontesi, […]” essa fu presentata anche a quella dei
Comuni “appoggiata” da diversi deputati, tranne che dal “Rappresentante
di Bronte, Padre Giacomo Meli, assente. “Tornata la questione nel 29 agosto alla Camera dei Pari il sac. Castiglione
sostenendo valorosamente la facoltà del Parlamento di sospendere,
modificare, abrogare le leggi, conchiudeva di accettarsi il progetto del
decreto di abolizione della Camera dei Comuni, il che fu vivamente
contrastato […] e a maggioranza di voti fu respinto il messaggio.
“Sorta la discrepanza tra le due camere […] la Camera dei Comuni […]
deliberò di rimettere la decisione ad un comitato misto, dal quale […] fu
escluso il Pari Castiglione. Nel 18 settembre […] il Comitato […] deliberò
di accettare il messaggio della Camera dei Comuni” che vietava ogni
procedimento penale ed aboliva l’azione penale “per i fatti avvenuti in
Bronte dal 23 aprile al 3 maggio 1848 relativi ai disturbi di possesso già
cessato, […] salve le parti di diritto in via civile. Firmato Il
Presidente della Camera dei Comuni. Il Presidente del comitato Misto -
Mariano Stabile.
“Tale fine, per l’opera patriottica del sac. Castiglione, ebbe il processo.
[…] Se ne fece a Bronte gran festa […]” con gran rammarico del “console
inglese Guglielmo Dikinson che, non potendo mandar giù quel decreto
liberatore, infamò i Brontesi come saccheggiatori e ladri […]
“Lasciamo sulla coscienza del Thovez e del Dikinson il saccheggio, i furti,
i magazzini scassinati e via. Le molestie intanto continuavano da parte
dell’amministratore Thovez, e nel 25 gennaio 1849 il Consiglio incaricava il
Padre Meli e il Pari Castiglione perché curassero presso le autorità e il
Ministro gl’ interessi del paese.
“Caduta Messina, gli avanzi delle squadre disciolte dei congedati, uniti a
molti facinorosi, s’erano dati ad infestare le campagne, tenendo in grande e
continuo allarme le popolazioni.
A Bronte si danneggiavano i boschi, si
rubava a man salva, si violentavano le figlie, presenti i genitori, si
attentava alla vita dei magistrati, si uccideva.” Nessuna autorità aveva
“coraggio e potenza di provvedere a tanto male. Nel 3 ottobre 1848 il
consiglio pensò porvi rimedio proponendo la nomina del nuovo capitano di
giustizia, e fu fatta” una terna, dalla quale fu proposto “il Dottor
Antonino Cimbali, reduce allora da Napoli, […] essendo nota la sua energia. Accettò il Cimbali il commessogli ufficio, e si circondò di 24
guardie di pubblica sicurezza; gente, scrive egli, che si trovava nella
necessità di aversi del pane; perturbatori numero uno, e mafiosi puro
sangue(3). La scelta di simili arnesi a custodi dell’ordine pubblico rivela nel
Cimbali la politica dell’uomo di mondo. La si direbbe politica
machiavellica. E’ la virtù trasformatrice del denaro che muta anche i
faziosi in uomini d’ordine(4). […] Due volte col suo coraggio e la sua prudenza
egli salvò il paese da sciagure e da una guerra fraterna.
“La notte del Natale del 1848, alquanti facinorosi […] si lusingavano
impaurire il Cimbali e a man salva mettere il paese a sacco. Il Cimbali,
avvertito di ciò a tempo, invitò quanti più potè caporioni e sospetti in
casa sua. Si bevve allegramente alla salute del paese, quando cominciarono a
sentirsi fucilate. Allora egli […] fatto a tutte quelle buone lane un
patriottico fervorino che finiva colla sua solita giaculatoria:”Giudizio
sul tamburo, polvere e piombo”, uscì con loro a perlustrare le
vie. La marmaglia capì che il Cimbali non era il pauroso Meli, cessò le
fucilate, e come un lampo, si disperse.(5)
“La seconda volta fu nel Carnevale del ’49. Accorse subito il Cimbali per
sedare il tumulto, e con dolci parole e minacce e con qualche bastonata fece
diradare la folla minacciante.
Intanto il caporale della compagnia Isola,
rimproverato dal Cimbali di quello ingiusto e dissennato procedere, osò
rispondergli insolentemente. Alcuni contadini, visto cadere a terra il
cappello del Cimbali, credendo che il caporale avesse messo le mani sul
capitano, furono sul punto di tirare sulla compagnia, e ci volle tutta la
prudenza e autorità sua a persuadere al popolo […]
“Il popolo, che aveva in grande stima il Cimbali, fremette e aspettava la
notte per fare sicura vendetta e dell’ insulto al loro capitano giustiziere
e della patita onta e violenza. Ma egli colla sua prudenza seppe
disarmare la giusta ira.
“[…] Procacciossi il Cimbali affetto e rispetto dal popolo, che gli durò
finchè visse; odio dai ducali che non mancarono di macchinargli contro,
accusandolo come sovvertitore delle istituzioni patrie; di che ebbe molestie
parecchie; solito frutto delle rivoluzioni che danno agli uomini di parte
occasione e modi più sicuri di offendere."(6)
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