II - L'eccidio |
“Era tempo di trebbiatura. I contadini attendevano al raccolto. Fu deciso
di cingere il paese per impedire l’uscita e far popolo. C’è chi afferma che
l’ordine sia stato dato dal Lombardo; altri lo nega.
Tutto fu macchinato
senza sua saputa. Però non pare credibile ch’egli, capo, ignorasse e
l’anticipato moto e la presa dei passi. Il fatto è che il piano fu
concertato nella casa di un insorto, Signorino Spezzacatene.
“La mattina del 1° agosto, mercoledì, continuarono le dimostrazioni e le
grida. La sera, profittando che la compagnia del Lombardo era di guardia e
che le altre riposavano, (né si sa comprendere in tanto pericolo la
spensieratezza e dappocaggine degli altri capitani), furono occupati i posti
di Salice, S. Antonino, Zottofondo, Catena, Colla, Camposanto, dietro S.
Vito, Sciarone, Lo Vecchio.
“Verso le ore 5 della notte(17) si sentirono tocchi di campane dal campanile di
S. Antonino e della Madonna del Riparo, qualche fucilata e fischi: voci di
allarme si rispondevano da un posto all’altro: Sentinella all’erta!
All’erta sto!
“Durante la notte era per le vie un va e vieni affaccendato, un
picchiare alle case, un chiamare sommesso i compagni, ignari della novità,
un sussurrìo che a mano a mano diveniva un rumore di fiume che ingrossa
nella sua corsa, e in mezzo a tutto questo un lieto suono di cornamusa.(18)
Alcuni civili, atterriti da quei segni, travestiti, ebbero a ventura di
trovare scampo nella fuga, facilitata dal denaro o dalla pietà di amici
contadini.
“La mattina del 2 agosto, giovedì, il paese si trovò militarmente assediato
da ogni parte. Chi voleva uscire era fatto tornare indietro colle buone o
colle cattive:
- Dobbiamo dividerci i beni del Comune, gridavasi:
questi signori ci hanno succhiato il sangue nostro, ce lo devono restituire. |
I FATTI DI BRONTE

NINO BIXIO A BRONTE
l'integrale monografia di Benedetto Radice
(tratta dal II° volume delle Memorie storiche di Bronte)
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In paese era grande agitazione e scompiglio; un correre qua e là
popolarmente, tumultuariamente chiamando e invitando alla sommossa.- Chi non
è con noi è contro di noi - Guai a chi è contro il popolo - E molti di buone
famiglie borghesi, volenti o nolenti, ingrossavano lo stuolo dei faziosi.
Il sacerdote Giuseppe Minissale con altri preti e il presidente del
Municipio Sebastiano De Luca, si recarono a Salice e allo Scialandro,
scongiurando i rivoltosi a lasciar libero il passo, promettendo immediata la
divisione del Demanio. Furono minacciati, costretti a tornare indietro: vi
andarono alcuni giovani civili, ma accolti da salve di fucilate, fuggirono.
“Verso mezzogiorno la piazza vicino al Casino dei civili, era un vero
bollimento. Un’onda di popolo incalzava e contrastavasi mugolando e urlando:
Vogliamo la divisione delle terre.
Andavano intanto adunandosi al
Casino alcuni civili; vi apparve pure il notaio Cannata armato di doppietta.
Quella comparsa suscitò nella folla mormorio e sdegno. A calmare i clamori
fu fatto venire il presidente del Comitato Barone Meli, che sofferente di
podagra fu là portato sopra una sedia, come se il vano titolo di barone e
non la virtù dell’animo bastasse ad infrenare un popolo in furore. Fu
solennemente promessa la divisione […] ma quel partito […] parve ai tristi,
bramosi di rapina e di sangue, una canzonatura […].
“Una prima vittima intanto del furore plebeo, la guardia municipale
Carmelo Luca Cucchiarella era già caduta la mattina trucidata vicino al
Carcere bovi, perché andava prendendo nota dei preposti alla custodia dei
passi. Il dottor Antonino Cimbali, vista l’imminenza del pericolo e
l’inabilità del barone Meli, voltosi ai civili radunati, disse:
- che fare di questo pupattolo? Pensiamo ai fatti nostri. -
Molti giovani animosi convennero di radunarsi al Collegio per preparare la
resistenza.
Ci andarono pochi. E i capitani del nobile corpo della G.N., cui
incombeva il dovere della pubblica tranquillità? Disertarono il loro posto;
e le guardie? Si sciolsero per paura o per connivenza. Ognuno si credeva
innocente e pensava a salvare sè, dimenticando che nei tumulti di popolo
anche i buoni non trovano sicurtà alcuna. Il dottor Cimbali, vista l’
incoscienza e la paura dei minacciati, mandò a dire le parole di salvezza:
- Si salvi chi può.
Fatale egoismo e dissensione che travolse la maggior parte nella universale
ruina!
“Il dado era tratto. Grande lo scompiglio, grandissima la paura. Il vecchio
sac. Gaetano Rizzo, incontrandosi col dott. Saitta, uno dei capi del partito
comunista, lo pregò di unirsi a lui e andare dal Lombardo e procurare di
mettere la pace. Il Lombardo, sentendosi in colpa di avere spinto troppo il
popolo e consapevole della propria responsabilità, quale capitano della G.
N., accolse volentieri l’invito.
“Erano le ore 23 e alla chiesa dell’Annunziata si suonava la benedizione,
quando nello stesso tempo si sentì una campana a martello. Era troppo tardi,
l’ora della vendetta scoccava; l’ira accumulata di tante generazioni
prorompeva. Dal piano di S. Vito, pochi insorti, armati di scuri e fucili
[…] scesero guardinghi e sospettosié […] nella via principale, preceduti da un branco di monelli, che lieti, gridando:
- Viva l’Italia! Morte ai sorci! (19)
andavano gittando sassi alle porte e alle finestre. Torma più numerosa
scendeva per la via dei Santi, dalla parte opposta, e un’altra veniva di giù
dal paese guidata da carbonai. All’avanzarsi di quelle turbe minacciose,
come all’appressarsi di un temporale, è un correre qua e là, un chiamarsi a
vicenda spaventati, uno sbatacchiare frettoloso di usci e finestre, un
serrare e sbarrare porte; un rumoroso scorrere di catenacci e chiavistelli.(20)
Per un falso allarme ebbero gli insorti vicino alla casa Lupo, un
momento di panico; ma ben presto rassicurati e vistisi padroni indisturbati
del campo, si diedero con selvaggia gioia a mettere a ferro e fuoco le case
dei creduti Borboniani. L’assalto e il saccheggio procedono quasi
militarmente. E come nelle sommosse: … un Marcel
diventa
ogni villan che parteggiando viene(21)
così fra quella turba alcuni
plebei, creatisi da se stessi generali, […] guidano le squadre devastatrici
alle case designate. Fra lo squillare incessante delle trombe e il rullo del
tamburo, al grido di - Viva l’ Italia! Viva Garibaldi! - i carbonai con
scuri e con pali abbattono gli usci. Una moltitudine ignobile invade
a furore la casa, cerca i nascondigli più riposti, scassina, fruga, spoglia,
invola.
Fra quei rapinatori sono anche donne, che, scarmigliati i capelli,
scendono e salgono in mezzo ad un frastuono d’ inferno, sgocciolanti di
sudore sotto il peso del bottino. Altri vanno con asini e muli per più ricca
preda, e caricano vino, olio, grano.
I più arrabbiati, invasi più dal demone
della distruzione che dall’ ingordigia del bottino, sgangherate le finestre,
cominciano a buttar fuori i mobili
che vengono giù con gran fracasso […]
In un baleno il fumo e le fiamme investono ogni cosa […] E’ una ridda, una
danza macabra, resa più truce dai bagliori sinistri degl’ incendi. […]
Stanchi irrompono nelle cantine, aperte dai proprietari per evitare il sacco
alle loro case. Mangiano, bevono rinfrescano le arse gole, ed ebbri alla
fine di vino e di furore, al comando degl’ improvvisati generali […] corrono
qua e là a nuovi saccheggi, a nuovi incendi.
“Si brucia il teatro, l’ archivio del Comune e il Casino dei civili […].
Molte famiglie, scappate dalle case, nascoste dalla pietà degli amici,
angosciosamente vegliano atterrite. […]
Orrenda notte fu quella! […]
“Il sole del venerdì, tre agosto, illuminò la città ancora ardente, e qua e
là fumante fra le macerie, scene abominevoli di applausi di orde insensate,
svergognanti l’ intera Isola, che nobilmente s’ era sollevata in nome della
Libertà.”
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“A giorno alto una folla di popolo, con armi e bandiere, conducendo seco
il Delegato D. Nicolò Spedalieri, s’avviò alla casa del Lombardo e con
frenetiche evviva lo acclamò Presidente del Municipio. Egli, fortemente
turbato, accolse gli applausi della plebe sfrenata che, presolo e portatolo
con sé, andava per le vie, gridando il suo nome. Indi la folla si diresse a
casa del Dottor Saitta […] e condotto da essa innanzi al collegio, ove lo
attendevano civili e sacerdoti, con voto plebiscitario fu acclamato
Presidente del Consiglio. Il Lombardo e il Saitta speravano colla propria
autorità poter raffrenare gl’impeti della folla. Rattristati da quelle scene
vandaliche e temendo peggio, corsero qua e là consigliando, pregando; ma non
essendo facile ridurre a obbedienza moltitudine sfrenata, nulla poterono i
loro consigli e le loro preghiere. La folla non sentìa altra voce che quella
della vendetta, né riconobbe più i capi da lei stessa eletti; onde ebbra di
dissolvimento e di strage, parte corse a dare il sacco ad altre case, parte
andò di luogo in luogo con istinto di segugi, snidando i sorci,i realisti. “Verso le tre dopo mezzogiorno fu ucciso prima il notaio Cannata […]
legatolo per i piedi e oscenamente eviratolo, […] lo trascinarono
sanguinante per le vie […]. Giunti sotto la casa del figlio Antonino, la
quale ancora ardeva, preparatogli un rogo, semivivo lo gettarono ad
arrostire sopra due cavalletti di ferro, facendo attorno a lui una ridda
infernale […]Il paese è in preda al terrore. Il Lombardo, il Saitta,
sacerdoti e comunisti van gridando pace per le vie; pace gridano anche i
malvagi, che vedendo le vittime sfuggire al proprio furore, accompagnandosi
coi buoni si recano colle bandiere di casa in casa a cercare i nascosti
civili. “Gl’infelici credono a quelle pacifiche voci […] escono […] si cercano fra
loro, si rallegrano tra amici e parenti […] Molti faziosi armati, uniti a
probi cittadini, vanno allo Scialandro, incontro alla truppa che si
aspettava; altri, coi preti si recano alla chiesa dell’ Annunziata a cantare
un Tedeum alla Vergine, lieti dello scampato pericolo […] gridando: Viva la
pace! Viva l’Italia! Viva Garibaldi! “Scendeva intanto dal piano della Badia un nuovo branco d’insorti, che
conduceva nel mezzo Nunzio Radice Spedalieri, mio padre, bianco,
tremante dalla paura con un cencio di bandiera in mano, un crocifisso al
petto e un lungo berretto di contadino in testa. Era da due giorni nascosto
nella cloaca della casa paterna. […]
Il sac. Luigi Radice […] arringò quel
branco e a sua istanza calorosa venne fuori dalla sua casa con bandiera
Antonino Cannata, figlio del trucidato notaio. […]
Gli insorti [… ]
udirono da un altro aggruppamento levarsi una voce: largo, largo, morte ai
sorci! In mezzo a quello scompiglio, mio padre con suo cugino Cannata, rifugiaronsi nella bottega di una fruttivendola […] e, udendo gridare
il suo nome, si fece primo sulla soglia della bottega: - Eccomi, se ho fatto
male, uccidetemi, disse. Il Cannata ginocchioni, chiedeva grazia. […] balenarono
due schioppettate, e in odio al padre, cadeva vittima innocente l’ infelice
figlio(22). Cadde pure mio padre, come corpo morto, ma né ucciso, né
ferito. Amici popolani e il di lui fratello Giuseppe, col figlio Vincenzo,
strappatolo alla folla, sano e salvo lo portarono a casa. Il cadavere
intanto dell’infelice vittima fu portato ad ardere sullo stesso rogo nel
quale era stato arso vivo il padre. Erano circa le cinque pomeridiane. Al
Casino dei civili un arrabbiato ribaldo arringava(23) un branco di altri
ribaldi […] in questo mentre giungeva al Casino l’altro gruppo di civili che
veniva dalla chiesa dell’Annunziata con molti buoni popolani. Il
trombettiere gridò:
- Attenti gatti! Vengono i sorci, e diè nella
tromba. […] Allibirono a quel suono, a quella vista i miseri civili, che
dubitarono d’insidia, con la morte in cuore, procedevano guardinghi,
gridando: Viva l’Italia! E circondati dalla calca degli armati, arrivarono
fino al collegio; quando al ritorno […] fu un fuggi, fuggi, uno sbandarsi,
un rincorrere, un grandinare schioppettate alla cieca. Nello scompiglio
stramazzarono colpiti da colpi di scuri e di moschetto i due cugini
Mariano Zappìa e Mariano Mauro […] “Il dottor Saitta e il Lombardo, terrorizzati da quelle scene e ormai
impotenti a impedirle, abbandonarono quel teatro di sangue. Andava il
Lombardo agitando il cappello disperatamente. […] alcuni malvagi […] gli
dissero: No, sig. D. Nicola. Lei deve restare con noi […] Al bieco aspetto,
alle fiere parole intimorì il Lombardo, che, tutto pallido e smarrito, andò
a sedersi al caffè Isola. Confortavalo suo fratello Placido, con parole che
accennavano a esterminio ancor maggiore. “- Ti sei perduto d’animo? Non te lo dicevo io che il popolo era preparato a
tutto? Domenica vedrai la festa, quando giungeranno i pastori.- Ed egli a
piangere, e come vil femminuccia darsi dei pugni alla testa.
“L’anarchia infierisce sfrenandosi in voluttà omicide. La moltitudine
bramosa di novello sangue, scorazza, corre qua e là sulla pesta dei fuggitivi.
Snidato dalla cappa del camino del Collegio Capizzi, da un suo amico e
compare, viene in un orto vicino ucciso Nunzio Lupo, falegname, alla
cui uccisione lieti i manigoldi gridano:
- Abbiamo ucciso il primo lupo - Rincorso fin dietro la chiesa dell’ Annunziata, a Pietra Pizzuta, spiato e
indicato da un ragazzo, è raggiunto e ucciso Nunzio Battaglia; il di
lui fratello Giacomo, colpito da una palla di moschetto precipitava
da un mandorlo, nell’orto dello Spitaleri, vicino ai Cappuccini, su cui per
celia l’avevano fatto salire i ribaldi a cogliere delle mandorle, mentre
altri raccattava fascine e legna per il rogo. Vicino la casa Artale Boxia,
nel quartiere S. Vito, cadeva vittima il cassiere comunale Aidala
Francesco; e, raggiunto alle Sciarotte, veniva trucidato il giovane
Vito Margaglio. Sul far della sera, è crudelmente freddato a colpi di
martello, Vincenzo Lo Turco, impiegato del Catasto, e, legato ai
piedi, vien trascinato per le vie e alla fine gittato su una catasta che
ardeva presso il Collegio. “La maggior parte dei civili ebbero a ventura di fuggire allo sterminio […]
Chi può contare il numero di quei feroci, che accecati in una furia belluina
gridavano morte, uccidevano e incendiavano? Quante stelle sono in cielo,
diceva un testimone […] Così incerto, così confuso fu il movimento e il
tumulto! Ognuno era impegnato ad una propria azione e non badava a quella
degli altri. […] chi percorse, chi uccise, chi incendiò, chi rubò, senza che
altri potesse registrare nella mente il volto e le azioni di chicchessia. “Mirava inorridito dal suo balcone il dott. Cimbali ardere sotto un cumulo
di paglia, i due infelici uccisi, Mauro e Zappìa, quando una fiumana di
popolo scendeva verso la sua casa, e pensando egli che venissero per lui:
- Se cercate di me, disse, son pronto, ma vi prego, ammazzatemi presto, non
potendo più vivere in tanta angoscia -. - No, no - gridò ad una voce la moltitudine, che aveva in rispetto il
Cimbali, ed a custodia della sua casa mise anzi essa delle guardie.
A notte
fitta, favorito dal caporione Gorgone Francesco, egli coi fratelli Felice e
Francesco, coi cognati Antonino Longhitano e Lorenzo De Luca, con l’avvocato
Nicolò Leanza, con D. Filippo Palermo e con Antonino Isola, uscì dal
paese,e, attraversate le sciarotte, per cammino disagevole si ridusse in
Adernò e di lì a Catania.(24)
Torme intanto di giovani villani e donne armate di
spiedi e di ronche, correvano il paese esplorando, aizzando con voci ed atti
da furie. Qua e là avvenivano scene di pietà e di orrore, e miste talora a
scene di comicità. […] A nessuno degli insorti venne in mente di dare il
sacco al palazzo ducale; nessuna voce s’udì minacciosa contro di quello,
sebbene da più di mezzo secolo gli covasse contro tanto odio di popolo. La
bandiera inglese sventolante al palazzo e al castello di Maniace, il non
lontano e sgradito ricordo della vana
sommossa del ’48 - e più che altro
il sapere che il popolo inglese aveva aiutato la rivoluzione distolse la
plebaglia dal tentarlo.(25) […] Questi ex feudi, nota la cassazione romana,
sono un’ onta sopravvivente al patriottismo del mezzogiorno d’ Italia! - […] “La mattina del 4, sabato, al sorgere del sole giungevano finalmente i tanto
reclamati e promessi aiuti: il Questore Gaetano De Angelis con una compagnia
di ottanta militi della Guardia Nazionale di Catania. Andaron ad incontrarlo
a Fiteni, 3 chilometri circa da Bronte, molti buoni popolani,
l’arciprete
Politi, l’avv. Nicolò Lombardo, il dott. Saitta Luigi. Atterrito dai
racconti il Questore volle prima esplorare la situazione della città; indi
ritornò colla compagnia, più che compagnia, accozzaglia di gente di ogni
risma, della quale, alcuni vogliosi di pescare nel torbido, all’ entrare in
paese,gridavano coi rivoltosi:
- Viva l’ Italia! Viva Bronte! Morte ai sorci!(26) “Presero i militi quartiere in collegio. Il Lombardo sperava di ridurre a
obbedienza col loro aiuto i ribelli. Il Questore mostrando intenzioni
pacifiche, fece uscire senz’armi i soldati, andò con l’arciprete Politi ai
posti, procurando di persuadere i contadini che stavano a guardia di
rientrare in paese; ma né consigli, né persuasioni poterono distogliere
quelli dai loro propositi. Vi accorse il Lombardo, arringò i sediziosi, biasimò gli eccessi compiuti,
li consigliò per il bene proprio e per quello del paese a tornare ciascuno
alla sua casa e a lasciare ai soldati il pensiero dei nemici; essi li
avrebbero tutti arrestati e condotti prigioni al collegio. Ma non valsero né consigli né preghiere; la folla tumultuando si unì ai
soldati, e a gruppi, si sparse per le strade, spiando ogni casa.
Furono primi arrestati: Leotta Rosario, segretario della Ducea, seguito
volontariamente dal figlio Guglielmo, fanciullo decenne; Giuseppe Martinez,
usciere; il vecchio Illuminato Lo Turco, D. Giovanni Spedalieri […] Il Sac.
Antonino Zappìa sperando maggior sicurezza e protezione, vi condusse i suoi
fratelli Nunzio, Luigi e Giuseppe. Furono tutti rinchiusi nel camerone di S.
Filippo Neri a pianterreno. Quattro sentinelle, due soldati e due insorti
stavano a guardia dei prigioni. “[…] La folla davanti il Collegio, agitata da opposti sentimenti,
rumoreggiava […] Chi gridava grazia, chi morte. Eranvi fra i malvagi
parecchie donne che
[…]
concitavano vieppiù colle loro grida gli animi già
troppo accesi. Volevano i malvagi in loro balìa lo Spedalieri
[…] che come impiegato del catasto, erroneamente dicevasi,
aveva aggravato di maggior tributo le terre di alcuni contadini. “Il Questore non volle acconsentire all’insana e feroce richiesta di quelle jene. Allora […] si udì la voce di Arcangelo Attinà, uno dei caporioni,
- Popolo di Bronte, tu dovrai essere giudice […]
e la plebaglia giudice ad un tempo e carnefice […] condannò a morte il
Leotta, il Martinez, lo Spedalieri, e, in odio al padre, il giovane Vincenzo
Saitta […] Le preghiere del Lombardo, di Sebastiano De Luca, le
lacrime del Sac. Antonino Zappìa, salvarono da morte i tre fratelli Nunzio,
Luigi e Giuseppe Zappìa, il dodicenne Giuseppe Saitta ed il vecchio
Illuminato Lo Turco, gli avanzi del cui figliuolo ardevano ancora sul rogo
davanti al Collegio. “Intanto nel camerone seguivano scene strazianti.
Ci furono diversi tentativi per salvare il Leotta e lo Spedalieri, ma
alla fine Questore e soldati abbassarono le armi e abbandonarono le
vittime alla furia popolare, amando meglio, anzi che far fronte ai ribelli,
disonorare la bandiera della giovane Italia. Allora un’onda di malfattori
invase il camerone, dove i miseri condannati ansiosi aspettavano il loro
destino. Legati furono condotti allo Scialandro, antico luogo di supplizio
sotto il mero e misto impero. “[…] Il terrore e lo strazio era indescrivibile. […] un intrepido beccaio,
Nunzio Capizzi, soprannominato “occhio d’ovo", […] strappato dal seno del Leotta il piccolo Guglielmo […] fuggendo lo portò in salvo. Il
Padre
Gesualdo De Luca, che disordinatamente scrisse di questi avvenimenti,
tacque il nome del generoso salvatore, io sono lieto di poterlo rivelare
onorandolo, come esempio ammirabile di bontà e di coraggio. I buoni
plaudirono. Il corteo, come nulla fosse, continuò la sua marcia. […] i
condannati arrivarono allo Scialandro, ove furono crudelmente trucidati.[…] “Ritorna intanto in paese l’ insana folla […] fu preso D. Luigi
Spedalieri […] e legato per i piedi fu strascinato per le strade; ma
accorso a tempo Sebastiano De Luca, ebbe salva la vita. […] “Sopra il popolo atterrito sopraggiunse paurosa la notte. […] Parte dei
ribelli, verso l’ alba del giorno 5, che fu di domenica, doveva trovarsi sul
monte S. Marco a osservare la via provinciale che mena ad Adernò, colla
consegna di tirare tre fucilate l’ una dopo l’ altra, appena si scorgessero
soldati.
Altri, guardando dall’alto dei campanili, al segnale convenuto
dovevano suonare a stormo le campane, per chiamare a difesa il popolo; altri
dovevano assaltare di fronte il nemico, lungo la via provinciale, mentre
alcuni di quelli che erano a vedetta sul monte, scendendo inosservati
attraverso i campi, l’ avrebbero preso alle spalle, per chiudergli qualunque
scampo alla fuga. Il piano, diciamo, di battaglia, non poteva essere meglio
architettato. Era capitano dei ribelli il muratore Rosario Aidala; che da
giovane s’ era trovato al fatto d’ armi del 1820.
“Da parte dei buoni cittadini ormai gravemente impensieriti, non si dormiva
neppure […] onde alcuni massai, troppo tardi invero, convennero di
affrontare i ribaldi. […] Il comune pericolo dava animo ai più paurosi.
Alcuni degli stessi ribelli, scemato il primo bollore, pensarono d’ inviare
a Catania una commissione a narrare gli avvenimenti, a spiegare le cause,
chiedendo amnistia. […] Il vecchio sac. Gaetano Rizzo dal Casino dei civili
predicò al popolo sentimenti di giustizia, di pace, di mansuetudine.
Arringarono pure il Lombardo e il Dr. Saitta. Il clero era tutto inteso a
calmare gli accesi animi e col popolo buono in sacra processione, […] andò
ai posti di assedio, invitando le guardie a lasciare libero il passo. […] Era la processione giunta a S. Vito, a prendere con sé i minori osservanti,
quando ad un tratto, da S. Marco si sentirono tre colpi di fucile e nello
stesso tempo stormeggiare tutte le campane delle chiese. Era il segnale
convenuto. Da tutte le strade sbucarono insorti, gridando:
- Tradimento! Vengono i soldati! E tradimento sospettarono pure i buoni […] La processione si scompiglia […]
Un branco d’ insorti, intenti a dare la scalata al monastero di S.
Scolastica, per cercarvi l’ ex sindaco Leanza, […] a quel suono
abbandonano la sacrilega impresa e volano a raggiungere i compagni. Giusta
il piano convenuto. Il tumulto, la confusione è indescrivibile.
Padre Gesualdo De Luca, cappuccino, coraggiosamente si fa avanti ad alcuni
insorti, parla loro, li abbraccia, li rassicura che i soldati venivano per
la pace(27). Alle parole del frate quietaronsi un poco gli animi, e la
processione, ricompostasi, continuò scendendo la via della Catena per andare
incontro alla truppa. […] Così si giunse allo Scialandro. Dagli insorti, rinascendo negli animi loro
il sospetto e la paura, si contrastava l’ andare; ma le rassicuranti parole
del Lombardo, del Cesare, di Sebastiano De Luca, e più quelle non
sospette del padre Gesualdo, piegarono e indussero quelli a non impedire
oltre l’ andata, sicchè la processione potè continuare il suo cammino. “Aveva il governatore di Catania, alle vive istanze del Dr. Cimbali, del
console inglese e degli altri fuggitivi, inviato una compagnia di
soldati, comandati dal Colonnello Giuseppe Poulet e dal tenente Girolamo
Castelli di Napoli. Eransi i soldati fermati vicino al camposanto,
dirimpetto al monte S. Marco, formicolante di migliaia di armati. Avevan
questi innanzi a sé preparati mucchi di sassi per assaltare la truppa sicuri
di schiacciarla, dovendo la polvere, dicevano, servire ad altri usi. […] La prudenza del Poulet evitò la strage dei suoi. Mentre soldati ed insorti
si guardavano incerti, giunse il clero, seguito da immensa folla, con
bandiera bianca ed il crocifisso portato dall’ arciprete Politi. Il Padre
Gesualdo con alcuni sacerdoti fattosi innanzi al Poulet, lo invitò in nome
del clero e del Popolo a entrare in Paese.” Dopo il tentativo di uno dei più faziosi, certo
Calogero Ciraldo Gasparozzo, carbonaio, di respingere i soldati, e l’ intervento dell’
avvocato Lombardo per dissuaderlo, il padre Gesualdo con altri
prelati riuscì in tempo a fermare “gl’insorti inferociti, e il
loro capitano Aidala Rosario […] imparentato al padre Gesualdo, rassicurato
da lui sulle pacifiche intenzioni della truppa, disse alla turba:
- Picciotti, mio cugino ed i sacerdoti non ci ingannano. I soldati sono
venuti per la pace, ritorniamo al paese -,
ed al cenno di lui, tutti, come una fiumana, scesero presto dal monte. Era
quasi mezzogiorno. […] Nuovi sospetti e nuovi tafferugli nacquero nel
momento in cui i soldati presero la via che conduce al convento di S. Vito
soprastante al paese. Accorse sul luogo il Padre Gesualdo e alle sue
preghiere il Poulet ordinò ai soldati di prendere alloggio al convento dei
Cappuccini.[…]
“[…] il Poulet entrò come in trionfo e […] affidò al Lombardo ed al Saitta
la sicurezza della città […]. Vegliarono quelli tutta notte, né alcuno incidente turbò la quiete del
paese. Solo al Margiogrande, veniva assassinato da una orda feroce di
Malettesi il povero Antonino Lupo, fratello di Nunzio.[…] “Il domani, 6 agosto, fu per pubblico bando ordinato il disarmo […] e i più
sediziosi […] stimarono bene mettersi al sicuro, dandosi alla campagna. […]
Il popolo, rinfrancandosi dal terrore, tornava all’ usato lavoro.(28)
“Ma rimanevano invendicati gli uccisi!“
che
furono 15 + 1. |