IV - Saggio sulla Rivoluzione di Bronte(1)
di Leonardo Sciascia
“Il paragone del serpe che
depone la spoglia è ormai vecchio arnese retorico, e pure non ne trovo
di meglio a significare il villano che, durante la messe, dà un calcio
alla mitezza dell’indole, alla tranquillità abituale, al rispetto
verso le classi più rispettate, e assume il ghigno feroce, il
linguaggio a fil di rasoio, gli atti provocatori di un demagogo.”
Con questo brano di Serafino Amabile Guastella, introduttivo ai
Canti popolari del circondario di Modica, Leonardo Sciascia
introduce il suo saggio sui fatti di Bronte e sulla narrazione che ne
fa Benedetto Radice, brano che si conclude con la frase: “Più non
son urli, ed ingiurie, ma una tempesta di fischi e di pietre.” Segue, quindi, il canto, che descrive il periodo della mietitura e
della trebbiatura con tutti i vantaggi che il contadino ne trae, e lo
Sciascia in calce ne dà “un essenziale glossario, chè la traduzione
letteraria di solito porta il lettore a saltare il testo.”
“E’ il canto della scatenata anarchia contadina, dell’odio verso ogni
altra classe e categoria sociale […]”. Dopo alcune dotte citazioni
del La Bruyère e del Courier che parlano delle condizioni dei
contadini, Sciascia afferma che “I periodi di occupazione del
bracciante agricolo erano quelli della semina, della prima e della
seconda zappa, della mietitura e della trebbiatura: non più di cento
giorni all’anno, e con un salario miserevole […].”
Si parla poi della “fame, cattiva consigliera” con
esemplificazioni storiche, e “delle libertà sessuali che i
galantuomini si concedevano con le ragazze del popolo: basti
considerare che nel 1853 c’erano a Bronte (su circa 10.000 abitanti)
38 bàlie comunali, nutrici cioè dei bastardi di ruota.”
Seguono quindi esempi di tassazioni di contadini superiori a
quelle imposte a ricchi possidenti benestanti; e le pene combinate a
chi era sorpreso a far legna nella Ducea o nelle terre demaniali: “un’ammenda pari al valore dell’ albero vivo e non della legna, e non
meno di un mese di carcere.”
E per concludere dice lo Sciascia che mentre “la signora
duchessa Nelson stava in Inghilterra, a Bronte, ad amministrare il
gran feudo che graziosamente Ferdinando (III di Sicilia, IV di Napoli
e I delle Due Sicilie) aveva donato all’ammiraglio Nelson, stavano,
come già il loro padre, Guglielmo e Franco Thovez, inglesi ma ormai
[…] considerati notabili del paese. Ed è a loro che si deve il
particolare rigore che Garibaldi raccomandò a Bixio per la repressione
della rivolta di Bronte […]
“Sui fatti di Bronte dell’estate 1860, sulla verità dei fatti, gravò
la testimonianza della letteratura garibaldina e il complice silenzio
di una storiografia che si avvolgeva nel mito di Garibaldi, dei Mille,
del popolo siciliano liberato: finchè uno studioso di Bronte, il
professor Benedetto Radice, non pubblicò […] una monografia intitolata
Nino Bixio a Bronte; e già, a dar ragione delle cause remote della
rivolta, aveva pubblicato […] il saggio Bronte nella rivoluzione del
1820. E non è che non si sapesse dell’ingiustizia e della ferocia che
contrassegnarono la repressione […] tutti sapevano […] solo che non
bisognava parlarne: per prudenza, per delicatezza […]”.
Ed il Radice, pur avendo “della storia del risorgimento e del garibaldinismo una visione […] brillante
di libertà e di
nazionalità, […] era mosso dalla “carità del natìo loco”,
gratuitamente macchiato d’infamia dagli scrittori garibaldini, e
dall’umana simpatia e pietà per quell’avv. Lombardo che Bixio
sbrigativamente aveva fatto fucilare come capo della rivolta: ed era
stato sì il capo della fazione comunista, ma della rivolta, e
specialmente dei sanguinosi eccessi in cui sfociò, non si poteva
considerare più responsabile dei suoi avversari della fazione ducale.”
Sciascia parla quindi dell’ “indignazione morale” che il Radice
va acquisendo nei riguardi del Bixio man mano che prosegue nella sua
ricerca di documenti, testimonianze e ricordi, indignazione che
culmina nel “giusto e fine giudizio: “la rivoluzione gli fu propizia
per salvarlo forse da una vita ignobile,” giudizio che ben poco lascia
“di quel mito, di quella leggenda..”
[…]
Passa inoltre a parlare della versione letteraria che fa dei
fatti di Bronte il Verga il quale, maggiore di 14 anni rispetto al
Radice, nel 1882, scrisse la
novella Libertà in cui, secondo
Sciascia, “le ragioni dell’arte, cioè di una superiore
mistificazione che è poi superiore verità, abbiano coinciso con le
ragioni di una mistificazione risorgimentale cui il Verga, monarchico
e crispino, si sentiva tenuto. […]”
Prova “della mistificazione di Verga è un piccolo particolare
[…] della novella” in cui parla di far fucilare un “nano“;
egli, il Verga, “sapeva bene che non si trattava di un nano ma di un
pazzo: il pazzo del paese, un innocuo pazzo soltanto colpevole di aver
vagato per le strade del paese con la testa cinta da un fazzoletto
tricolore profetizzando, prima che la rivolta esplodesse, sciagura ai
galantuomini; quel Nunzio Ciraldo Fraiunco che non ci sarebbe stato
bisogno di una perizia per dichiarare totalmente infermo di mente e la
cui fucilazione costituisce la pagina più atroce di questa atroce
vicenda. […]
[…] Verga nella novella eliminò quel simulacro di processo […]
perché la rappresentazione, sia pure in una sola frase, del processo,
lo avrebbe obbligato a caricare il generale di feroce ipocrisia; e
voleva invece, a conferma della leggenda, darlo soltanto, e con
indulgenza, come un intemperante. […] “[…] noi che abbiamo
familiarità con le carte del processo, siamo portati a credere che lo
scrittore lo abbia seguito da spettatore, e ne abbia conservato in
appunti o indelebilmente nella memoria un intenso ricordo. […] Oltre
l’arte, che in questa novella è grande, si sente l’evento fisico,
ottico; la “cosa vista”. […]
“Ma la mistificazione più grande (in cui, ripetiamo, le ragioni della
sua arte venivano a coincidere con le ragioni diciamo risorgimentali,
[…] ) è nell’avere eliminato dalla scena l’avvocato Lombardo,
personaggio che non poteva non affascinarlo in quanto portatore di un
destino, in quanto vinto. Né poteva, Verga confonderlo col personaggio
che ne fece la letteratura garibaldina (Abba) […] chè il Lombardo era
ben conosciuto negli ambienti liberali catanesi, e nessuno a Catania
avrebbe mai creduto alla storia, accreditata presso Bixio dai notabili
di Bronte e diffusa a scarico di coscienza tra i garibaldini, di un
Lombardo reazionario o “realista” […] (cioè borbonico).
E segue
la lunga lettera che “il senatore Carnazza-Amari diresse al Radice”
e che questi “nel saggio ha ritenuto di non dovere riportare
per intero.”
“L’avvocato Lombardo, quel personaggio che effettivamente il Lombardo
era stato, avrà inquietato e la coscienza civile e la coscienza
artistica di Verga. […] Ed il fatto che di un tale personaggio si sia
liberato del tutto, che l’abbia così decisamente rimosso, ci fa
congetturare in lui una inquietudine, un travaglio. O forse questa
nostra congettura muove dal grande amore che abbiamo per Verga, dalla
profonda pietas che Lombardo ci ispira.”
Passa quindi Sciascia a parlare della
difesa degli imputati fatta dall’avv. Michele Tenerelli Contessa, della cui arringa
“nemmeno il
Radice ha tenuto conto (e a noi proviene dalle sue carte) […]” e
che “veniva a tradurre in termini rigorosamente giuridici, in
argomentazioni di diritto, le più profonde istanze della vera,
effettiva, concreta rivoluzione liberale. […] E ne riporta “quello che […] pare il passo fondamentale: “Or quando proverò che le
stragi perpretate in Bronte dal 2 al 5 agosto 1860 anzicchè rivelare
opposizione al diritto […], rivelano piuttosto una brutale
convalidazione, una feroce affermazione di una legge scritta a
caratteri di sangue […], la vittoria della difesa sull’accusa non sarà
più dubbia.
Ci troviamo nel caso di considerare un’azione, la quale
malgrado porga le apparenze di un fatto criminoso, pure era una
conferma, una brutale convalidazione della rivoluzione; […] In una
parola, ci troviamo nel caso ove non si può considerare reato
un’azione la quale, quantunque porga le apparenze di un fatto
criminoso dinanzi alla giustizia, pure è comandato dalla legge - è
permesso dalla legge. […] Alle prove.”
E traccia il programma di
Marsala che “chiamava il popolo ad insorgere colle armi in pugno,
contro il comune nemico. […] il Borbone […] e tutti coloro che con
qual si sia mezzo contrastassero la rivoluzione. […] la rivoluzione
marcia avanti seguendo come ombra il suo eroe. E la rivoluzione […] fu
mestieri farsi anche democratica, allorché il Dittatore ordinò la
divisione delle terre comunali…
Tutti coloro che ostacolavano l’attuazione di questi principi, tutti
erano intrinsecamente dichiarati rei di lesa nazionalità: […] Quindi
le leggi rivoluzionarie, mentre realizzavano i principi della
rivoluzione, condannavano coloro che ostacolavano la manifestazione
obiettiva e reale di tali principii, come quei brontesi che si erano
opposti a riconoscere questi diritti della plebe, malgrado che il
governo borbonico li avesse voluto soddisfare!
Signori giurati, la borghesia brontese, non paga di avere per vent’anni
avversato con tutti i modi ingiusti l’attuazione di questi bisogni,
[…] oggi, dopo essere stata dichiarata nemica della rivoluzione in
virtù delle leggi dittatoriali medesime, seguiva a contrastare
l’esecuzione della legge rivoluzionaria… […]” (2)
“Evidentemente questa arringa non convinse né i giudici nè i
giurati[…] e 25 imputati si ebbero l’ergastolo, 1 vent’anni di lavori
forzati e 2 dieci, 5 i dieci anni li ebbero di semplice reclusione.
“Forse parve anche a Giovanni Verga, questa difesa del Tenerelli
Contessa, un armeggiare d’avvocato, una chiacchiera.”
Leonardo Sciascia |