Era l’anno 1800sessanta il dì otto Aprile, ed il Generale Giuseppe Garibaldi sbarcava con mille soldati in Marsala con animo di espellere il Governo Borbone. Trovò gli animi pronti alla chiamata e dopo un piccolo combattimento impadronitosi e della piazza, e delle poche fortezze di quei dintorni, s’avvicina alla Capitale in Palermo. L’esercito, che là si accampava a difendere i diritti della Corona del Re di Napoli e di Sicilia, dopo conchiusa una capitolazione, partiva per Messina a rinforzare la Cittadella, durò qualche combattimento in apparenza piuttosto che in realtà, e quel Generale comandante sull’orme insistendo dalla Capitale, evacua quel forte, consegnandolo al Garibaldi. In meno di quindici giorni addivenne signore dell’Isola. Però a brevi termini insorsero partiti e guerre intestine effetti di quell’Anarchia ch’è l’effetto necessario del cambiamento de governi. Invano si gridava all’unione, si avvicinarono i partiti, si abbracciarono in apparenza inveterati nemici, lo scoppio di una abominevole contraddizione si fe’ sentire nell’Isola. Quindi saccheggi, incendi, omicidi, persecuzioni si videro inondare da per tutto questa terra. Bronte non fu l’ultima nelle anzidette dimostrazioni, superbo di volersi acquistare una fama, perdette quell’onore di cui da più secoli si abbelliva. Due partiti, di comunisti e di parteggiani della duchessa Nelson, contrastavano a gara l’onorificenze, e gl’impieghi sicché ad ottenerne l’intento tramavansi dall’uno e l’altro partito mille calunnie. Il popolo, che stassi in sulle prime indifferente si piega ad abbracciare quel partito ch’ei vede il più vantaggioso, fremeva che a vista di Adernò, Biancavilla e Centorbi la legge della divisione delle terre comunali non s’era dato attuare per Bronte, quindi nel bollore degl’interessi e nel desiderio di vendicare torti privati che diceva ricevuti dalla Borghesia, tolto ogni freno alla pazienza, si decisero finirla una volta. Era la prima di agosto e taluni spadaccini salendo sui campanili di Sant’Antonio di Padova e di Maria Santissima del Riparo, avvisarono il paese, suonando a martello nella notte le campane. Tutto il giorno si vide assediato il paese in modo così energico che non l’avrebbe operato un Generale di Armata. Non valsero [fol. 2] al mattino preghiere dei più notevoli comunisti, era stata decretata la morte e l’eversione di tutte le famiglie. Tentarono i più rei mutuarsi la vita colla fuga, ma non fu loro dato ottenerla. Erano l’ore 23 della sera, ed un branco di fanciulli con a capo non più di otto malandrini gridando “Viva l’Italia”, “Morte ai sorci” cominciarono ad incendiare l’abitazione del D. Ferdinando Margaglio, D. Rosario Leotta, D. Vincenzo Saitta inteso Mò, locanda dei fratelli Lupo, D. Antonino Cannata, D. Antonino Radice, Caterina e fratello Luigi sac. Luca - Casino, D. Giuseppe Liuzzo, D. Francesco Aidala, D. Antonino Leanza, D. Giuseppe Viola, D. Lorenzo Luca, D. Nunzio Sanfilippo, D. Ignazio Cannata, D. Vito Margaglio, Mastro Gaetano Lupo - Posta, sorelle Leanza, Mastro Gregorio Venia, Antonino Saitta Noio, studio del Dott. Cannata, Farmacia D. Antonio Parrinello, D. Francesco Cimbali. Fattosi giorno era il tre agosto, li videro ammonticchiate sulle pubbliche strade le maceria di fabbriche infrante. Residui delle più belle suppellettili, oggetti preziosi. Era uno squarcio di giudizio. Ad ore sei del giorno stesso una mano di facinorosi assaltando una stalla ritrovarono il notaio Cannata e dopo di averlo vergognosamente maltrattato lo freddarono con revolver e trascinandolo per le pubbliche vie, vanno a gettarlo sopra di un rogo, che dappiù tempo bruciava sotto i finestroni del figlio D. Antonino Cannata. A 21 ora cominciò ad infuriarsi più terribile la tempesta e soggiacquero all’istessa sorte del Notaio Cannata i seguenti individui: D. Francesco Aidala, cassiere comunale, D. Vincenzo Lo Turco, D. Mariano Zappia, D. Mariano Mauro, D. Vito Margaglio, D. Nunzio e D. Giacomo, fratelli Battaglia, mastro Nunzio Lupo. Il quattro agosto si attendeva la forza da Catania per pacificarsi il paese ma invece portò la destruzione dappoiché gente collettizia pensando di arricchirsi, aizzando i malvaggi ad altre straggi si mossero a catturare i signori D. Rosario Leotta, D. Giovannino Spedalieri, D. Vincenzo Chierico Saitta e il signor D. Vincenzo Martinez usciere, i quali tradotti a 22 ore del 4 agosto per le strade furono fatti in pezzi pria di arrivare al luogo del destino allo Scialandro. Il 5 agosto spuntò l’alba della pace ed il Generale Poulet capitanando una buona squadra di guardia nazionale arrivò nel tempo che dai ribelli stavasi macchinando l’assalto del monistero e di altre famiglie, quando si macchinava la morte de’ preti e de’ regolari. Il 6 di agosto mille e duecento soldati di linea comandati dal Generale Nino Bixio vennero a tranquillare il paese ed alzatosi Tribunale, così detta Commissione mista di guerra, si passò a condannare alla fucilazione i seguenti individui: D. Nicolò Lombardo, Nunzio Samperi, Nunzio Spitaleri Nunno, Nunzio Longhitano Longi, Nunzio Ciraldo. Così fu castigata la caparbietà degl’iniqui. Ecco in succinto i successi del 1860, visti da me stesso. Bronte, lì 14 agosto 1860 Salvatore Arciprete Parroco Politi (trascrizione dall'italiano antico dell’arciprete Politi a cura di Adolfo e Nunzio Longhitano; il disegno a destra, Libertà di Bruno Caruso, è dedicato ai Fatti di Bronte)
La versione di Benedetto Radice
Ed ecco quello che, pubblicando lo stesso resoconto dell'Arciprete Salvatore Politi, scrive lo storico brontese B. Radice in un articolo del Marzo del 1902. Lo stesso Radice in Nino Bixio a Bronte (1909, pag. 92 della nostra edizione digitale) afferma che il resoconto sugli avvenimenti del 2 al 4 agosto 1860 era stato da lui pubblicato in Rivista di storia e geografia diretta da S. Puglisi Marino, Catania, anno I. fasc. V., Gennaio Febbraio 1902 e che il manoscritto originale trovavasi fra gli scritti della Matrice di Bronte. Registri n. 3, nati primo maggio 1828 al 31 marzo 1838, foglio 37. La sommossa di Bronte nel 1860
di B. Radice «Il Guerzoni, nella sua biografia di Nino Bixio, descrivendo la sommossa di Bronte, seguita nei primi dell’agosto del 1860, e soffocata dalla mano ferrea del generale, asserisce cose non vere. Egli narra di donne stuprate, di bambini scannati, ma non rammenta un nome; purtroppo a causa di quei tristi fatti, grava su Bronte giudizio non benevolo; onde io, mosso dalla carità del nostro loco, e più dall’amore della verità, sono lieto di pubblicare questa succinta relazione dell’avvenimento da me ritrovata; nella quale non è motto di strozzamenti di bambini, né di violenze patite da donne, e questa testimonianza può aggiungersi quella di tutti i cittadini di Bronte; e si sfida chiunque a smentire. Ci duole che il Guerzoni abbia potuto con tanta leggerezza narrare fatti, non prima scrupolosamente accertati. I fatti di Bronte avvenuti tra il cadere del governo borbonico, e il sorgere dello italico si collegano alla grande rivoluzione unitaria, essendo stata questa favorevole occasione e pretesto allo scoppio improvviso di vendette private e municipali, da lungo tempo covate e represse, anzi possiam dire, furono un sanguinoso episodio di quella. Nessun partito borbonico o fratesco o liberalesco ci soffiò dentro. L’originale della narrazione trovasi negli archivi della madre chiesa di Bronte, al foglio 36 del registro 3° dei nati dal 1 Maggio 1828 al 31 marzo 1838. La forma è, invero, di molto scorretta e sgrammaticata; ma ciò non toglie all’esattezza e verità dei fatti narrati, i quali sarebbe stato desiderabile che fossero più particolarmente descritti. Ne è autore l’arciprete Salvatore Politi, morto nell’aprile del 1877, accaneggiato da preti e frati per non regolari esami canonici sul concorso della arcipretura di Bronte; ma più, credo io, per le sue idee liberali, delle quali fa fede un suo carme latino in onore del musico Pietro Coppola augurante a Roma capitale d’Italia. Il Politi, forte del suo diritto, si mostrò sempre renitente a tutte le decisioni o ingiunzioni della Curia Romana, lottò, litigò anni ed anni, ma invano, giacchè il Pontefice alla fine fulminò colla scomunica il ribelle. Visse attorniato da pochi e fedeli amici. Fu buon maestro di latino, ed occupava il suo ozio insegnando grammatica gratuitamente. Fra i suo discepoli fui anch’io, e mi è caro rendergli qui pubblica testimonianza di gratitudine. Stanco della implacabile ira sacerdotale, gli cominciò a vacillare il cervello, e morì riconciliato alla Curia vaticana, dopo aver fatto pubblica ammenda con una elegia latina, recitata in una accademia, in onore di Monsignor Dusmet, arcivescovo di Catania.» Prof. Benedetto Radice [Pubblicato sulla Rivista di Storia e Geografia, Catania 1° Marzo 1902, Anno I, Fasc. V, Gennaio-Febbraio, Direttore S. Puglisi – Marino]
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Un testimone d'eccezione Don Salvatore Politi Osò inneggiare a Roma capitale d’Italia Il sac. don Salvatore Politi, uomo indipendente, colto ed erudito, era stato nominato, ad appena ventinove anni, arciprete e parroco di Bronte il 19 novembre 1859, un anno prima dei tragici Fatti. Ma l’incarico non gli portò affatto una vita tranquilla e gli creò molti nemici: era troppo giovane per essere accettato da una parte del clero e la sua nomina fu aspramente contestata da alcuni preti capeggiati dal cinquantenne frate cappuccino Gesualdo De Luca, che non si risparmiarono nell’utilizzare pressioni, mezzi e modi perchè fosse annullata. Il De Luca stesso ne fa un cenno («a norma dei posteri per qualche altro simile caso»), per niente equilibrato ed equidistante (facendo anche «sinceri voti che non avvenga mai») nella sua Storia della Città di Bronte ed ed in un altro libello di 22 pagine "Un gran fatto intorno alla suprema libertà naturale" (Catania Tip. Galatola, 1863, riprodotto anche nel Vol. 297-I dell'Archivio Nelson) nel quale il buon frate cappuccino non si risparmia pesanti insulti, ingiurie e contumelie vari (fra l'altro lo definisce "un uomo fatto pel male, vera ignominia del clero..., eletto a parroco a somma sventura del popolo e del clero..., massimo autore di scandali e disordini anche gravi"). In considerazione anche del carattere e delle tendenze anticonformiste del Politi, i suoi avversari l'ebbero vinta cinque anni dopo l'elezione ad arciprete, il 25 giugno del 1864, quando la Sagra Congregazione del Concilio dichiarò nulla la nomina. Scrive il Radice, che lo ebbe come suo maestro ("fra i suo discepoli fui anch’io, e mi è caro rendergli qui pubblica testimonianza di gratitudine"), che «… il Politi continuò a difendere il suo diritto. Fu mandato in esilio a Catania, e la S. Sede nominò un economo curato. Una specie di scissura seguì fra i fedeli. Chi era contro, chi teneva pel Politi, il quale forte dell'appoggio del Governo italiano non smise la lotta, e sperando aiuti e conforti ebbe il coraggio, in un carme latino in onore del musico Pietro Coppola, d'inneggiare a Roma capitale d’Italia. Quel carme fu il colpo di grazia. Nel 18 giugno del 1867 scrisse al Sommo Pontefice e nel contempo al Cardinale De Luca perchè gli ottenesse dal Papa la licenza di presentarsi a Lui a dire le sue discolpe, per avere fatta giustizia, se innocente, piangere le sue colpe, se reo. […] Ma nè pentimenti né versi gli giovarono, come non giovarono al povero Ovidio Nasone. Stanco, sfinito dall’immane lotta, in una solenne accademia in onore di Monsignore Dusmet, nella speranza d'ingraziarsi il clero e il Prelato, in una ovidiana elegia confessò, ma fremendo, di aver peccato, cioè di avere resistito.» Il povero sacerdote che aveva osato inneggiare alla nuova Italia, sospeso dalla dignità e dall’ufficio di arciprete e parroco «uscì di senno e di vita» all’età di 46 anni, il 6 aprile 1877. Fu sepolto nella chiesa di S. Vito. All’epoca dei Fatti il trentenne arciprete Politi era dunque fresco di nomina e, da uomo d’azione colto ed indipendente, fu sempre presente ed attivo nel cercare di evitare o quanto meno mitigare gli orrori che sarebbero accaduti. Fu lui, la mattina di sabato 4 agosto, unitamente a «molti buoni popolani», l'avv. Nicolò Lombardo e il dott. Saitta Luigi, ad accogliere a Fiteni, 3 chilometri circa da Bronte, i tanto reclamati e promessi aiuti: il questore De Angelis con una compagnia di ottanta militi della Guardia Nazionale di Catania. E lo stesso giorno, accompagnando il questore, girava per il paese cercando di persuadere i contadini a ritornare nelle loro case. Era pronto ad accorrere subito dove era necessaria la sua opera e, presente in molte uccisioni, «…in mezzo ai pianti, e alle preghiere, che risuonavano intorno, in quell’aere senza pietà» consolava con gli estremi conforti della religione quei morituri, assolvendoli in articulo mortis. Al suo arrivo a Bronte, Bixio fece venire a sé le autorità del paese, chiamando anche l’arciprete e, continua il Radice, è sempre lui, dopo la sentenza di condanna ad andare «… al Collegio a comunicare al Lombardo la ferale notizia…» e l’indomani, venerdì 10 agosto, a confortare i cinque condannati mentre venivano trascinati davanti S. Vito per essere lì fucilati. Ed è sempre l'arciprete Politi ad unire in matrimonio "in articulo mortis", prima di essere fucilato nelle prime ore del 10 agosto 1860, l'avv. Nicolò Lombardo con la trentottenne Maria Schilirò. Era anche amico del sindaco dell'epoca, il notaio Giuseppe Zappia, che condivideva molte iniziative dell'arciprete e per questa vicinanza, subì duri attacchi dal solito buon frate Gesualdo. (Nino Liuzzo, Giugno 2007) |
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