
«Ecco
i frutti più certi della libertà procacciata dalla rivoluzione alla
Sicilia». «Quaranta persone delle più cospicue per probità e per
natali furono crudelissimamente straziate ed uccise; le case loro
messe a ruba e a sacco, poi date alle fiamme, ardendovi i cadaveri
de’ trucidati; né havvi luogo a dubitare che alcuni di que’ mostri
selvaggi diedero di morso a divorarne le carni mezzo abbrustolite»
I Fatti nel resoconto de La Civiltà Cattolica
(La Civiltà Cattolica, anno undecimo, Quaderno 252 di tutta
la collezione, Serie IV. Vol. VII, Roma 15 Settembre 1860, pagg. 749
- 731)
Cronaca contemporanea Roma 7 Settembre
1860
I. Cose italiane - Regno delle due Sicilie.
(…) 3. I fatti di Calabria narrati dal diario ufficiale - 4. Frutti
della libertà in Sicilia – 5. Caduta di Reggio (…)
4. Frutti della libertà in Sicilia
Questi cenni vaghi
e scarsi, ricavati dal Diario ufficiale di Napoli, non
basterebbero certamente per satisfare alla curiosità di
qualsiasi discretissimo lettore che d’altra parte avesse già
qualche sentore dei gravissimi fatti occorsi negli Stati delle
Due Sicilie in queste ultime settimane. Pertanto riferiremo
succintamente quel di più che dagli altri giornali napolitani e
stranieri venne accertato rispetto alle cose militari ed alle
rivolture politiche del Regno. Cominceremo dalle cose dell’isola
di Sicilia.
Sventuratamente in molti luoghi di essa la ritirata dei regii fu come il segnale dello scioglimento di tutti gli ordini, non solo politici, ma civili. I magistrati, perduta ogni autorità, cessarono dal far valere leggi che guardavansi
come annullate.
Chiusi i tribunali, abolita la polizia, cercati a morte, poi barbaramente uccisi gli ufficiali di sicurezza pubblica, si ruppe il freno ad ogni scelleratezza. Bande di ladroni e d’assassini corsero le terre, mandarono sossopra le città, e commisero tali enormi nefandezze, che non è d’uopo andare in Siria per vedere a che trabocchi una plebe, a cui sotto nome di libertà si è infuso il veleno del comunismo.
In prova di che basti accennare essersi in Bronte perpetrati delitti da cannibale e così orrendi, che un luogotenente di Garibaldi, il Nino Bixio vi dovette accorrere con 2000 uomini e, dichiarando che gli abitanti di Bronte erano rei di lesa umanità, porre mano a mezzi di repressione e di castigo tanto severi, che trovano ragione di giustizia soltanto nella grandezza dei delitti che doveansi punire. Il che si parrà da quanto stiamo per riferire, traendolo da lettere di persona degnissima di fede, e che ne fu testimonio da vicino.
«I fatti di Bronte mettono raccapriccio. Quaranta persone delle più cospicue per probità e per natali furono crudelissimamente straziate ed uccise; le case loro messe a ruba e a sacco, poi date alle fiamme, ardendovi i cadaveri de’ trucidati; né havvi luogo a dubitare che alcuni di que’ mostri selvaggi diedero di morso a divorarne le carni mezzo abbrustolite.
Quella città conta non più di 8000 abitanti. Vi si mandò dapprima una compagnia di soldati per frenare quegli assassini; ma non vi potè entrare.
Se ne spedirono altre sei compagnie e non bastarono. Finalmente accorse da Taormina il Nino Bixio con 2000 uomini; circondò la terra; vi bandì lo stato d’assedio; ordinò il disarmo generale nel termine di tre ore sotto pena di morte a chi non obbedisse; ed impose una multa di onze 10 per ogni ora che trascorresse prima del compiuto ristauramento dell’ordine, cominciando dal momento che le truppe si mossero per recarvelo colla punta delle baionette. Quindi arresti in grandissimo numero, sciolto il Municipio e la Guardia Nazionale, e d’ora in ora eseguita la sentenza di morte sopra gli assassini riconosciuti». «Somiglianti fatti avvennero in Biancavilla, dove il minuto popolo, aizzato e capitanato da un cotal Biondi, parve aver proposto di mettere a morte chiunque fosse in voce di persona agiata ed onesta; poichè non meno di 7 furono gli omicidi commessi in pochi giorni. Di che atterriti i paesani di condizione più civile, messi giù i panni da cittadino ed il cappello, non uscivano più di casa altrimenti che in abiti grossolani col berretto da campagnuolo in capo. Ma questo non valse a salvarli. I sicarii, adocchiato taluno di costoro che non si mostrasse uno dei loro, gli si faceano d’allato e chiestogli dove fosse indirizzata una lettera che gli metteano sott’occhio, se il disgraziato ne leggeva l’indirizzo, da questo il riconoscevano per Signore e barbaramente l’uccideano. Altrove, come a Trecastagni ed in alcuni paeselli presso S. Filippo d’Agira e Castiglione e a Noto, si cominciò a fare il somigliante, ma finì presto. Dove per contrario a Biancavilla il terrorismo dura da più di due mesi ed il sig. Biondi, che ne è riguardato come autore precipuo, passeggia trionfalmente le vie di Palermo e di Catania. Un cotale La Porta il 5 di Aprile scorso avea spiegata la bandiera tricolore in un paesello della provincia di Palermo, e sua prima cura era stata di armare una squadra e gravare di fortissime taglie le primarie famiglie, in pena, diceva egli, dell’essere realisti. Di lì passò a Ventimiglia sua patria, e la trattò come appena tratterebbesi un luogo preso d’assalto, sbrigliando i suoi scherani ad ogni disonestà, alle brutali violenze ed al saccheggio. Il fatto levò tanto rumore che da Palermo uno stuolo di truppe regio mosse a snidare di là quei banditi, quali si dispersero. Il La Porta gittò voce che s’era imbarcato, e sostituì al comando della sua squadra, che poco stante si rannodò, un tal Santo Meli famigerato assassino. Questi continuò le prodezze del suo predecessore correndo di terra in terra, e superandolo nella ferocia del rubare e dell’opprimere donne e fanciulle che poi erano uccise, appunto come i Drusi fecero in Siria.
Dove incontrò resistenza, si sfogò col saccheggio e coll’incendio. Intanto il La Porta fu nominato Ministro, ed il Meli che finalmente era stato arrestato, per opera del suo potente patrono fu rimesso in libertà. Risulta dal processo ch’egli avea commesso rapine e furti per la somma di niente meno che trecento cinquanta mila ducati.
Volete sapere come io n’ebbi certa contezza? Vel dico subito, e mi smentisca chi può. Dal processo medesimo, che io ebbi sott’occhio e lessi a mio bell’agio, e che fu compilato accuratissimamente da un Maggiore delle schiere del Garibaldi, che, inorridito al vedere scarcerato il Meli, non si potè temperare dall’inveire contro tanta nequizia». Così il nostro Corrispondente. E noi aggiungiamo che le
scelleratezze a cui si sfrenarono in moltissimi luoghi le
squadracce siciliane, furono tante che non pure mossero
a sdegno il La Farina, ma strapparono parole di biasimo
anche ai Mazziniani dell’Unità italiana.
Ecco i frutti più certi della libertà procacciata dalla
rivoluzione alla Sicilia. I giornali della fazione Garibaldina non tralasciano di imputare questi eccessi a'preti, alla reazione, ai nemici della libertà ecc. Ma non si ricordano poi di spiegarci come siano appunto questi le vittime che soccombono, e come gli autori di questi eccessi possano trovare qualche vantaggio in farsi derubare, saccheggiare ed uccidere.
Il vero si è che in Sicilia e nella stessa Palermo comincia a serpeggiare molto mal umore sì contro quelli che la vogliono costringere a voto unanime di annessione immediata al Piemonte, e sì ancora contro i loro liberatori in camicia rossa; tantochè un cotale Saia ebbe a dire in faccia al prodittatore Depretis: il vostro Governo ci fa oggimai desiderare quello di Maniscalco! E tutti sanno che il sig. Maniscalco, già Direttore della polizia in Sicilia, si avea meritate le maledizioni e l'odio di tutti i liberali. Fuvvi anzi in Palermo qualche timore o sospetto di efficace reazione pel Governo borbonico, sicchè di fretta vi si doverono rimandare da Messina un buon nerbo di camiciotti rossi per inspirare al popolo la virtù della perseveranza, aiutandone il proposito con molti arresti di nobili e sospetti.
5. Caduta di Reggio Per ciò che spetta gli Stati di terraferma, i nostri lettori sanno che buona parte di essi è in preda alla rivoluzione ed il resto in potere del Garibaldi. Questi, che già avea mandato innanzi varii eletti drappelli de'suoi, sferrò dalla Sicilia, e, a quanto pare, da Taormina la domenica 19 Agosto alle ore 8 antimeridiane. Alle 4½ pomeridiane prese terra a Melito (…). (La Civiltà Cattolica, anno undecimo, Quaderno 252 di tutta la collezione, Serie IV. Vol. VII, Roma 15 Settembre 1860, pagg. 749 - 731)
Le
«squadracce siciliane» de La Civiltà Cattolica
Nella foto a destra vi mostriamo una manifestazione della
popolazione brontese trent'anni dopo i tragici fatti
del 1860. Questa volta però trattavasi
di una pacifica sfilata lungo il Corso Umberto
(allora Strada nazionale da Bronte a Randazzo) in
occasione della venuta a Bronte della Commissione
per l'elezione a Deputato di Montecitorio di
Francesco Cimbali.
|