15. Il Collegio Capizzi
Parte prima,
Parte seconda, Parte terza
Le Regole del Collegio “Il Collegio divenne la sorgente, alla quale i
cittadini attinsero nell’avvenire e lavoro e sapere. E […] il paese
circondò il Collegio delle sue cure più amorevoli. […] Fu una nobile e
santa gara di beneficenza e di carità patria.(1a)
“Il santo vecchio intanto ritorna a Palermo alle sue fatiche. Di là
veglia con cuore di padre alla fortuna della novella Casa della quale,
nell’ottobre del 1779, i deputati approvano il primo bilancio(1b); porge
consigli al rettore come comportarsi cogli alunni insolenti; esorta
superiori e maestri a mostrarsi disinteressati per l’opera.
“Dopo due anni nel settembre del 1780 col sac. Lanza ed altri
confratelli del Fervore, rivide, e fu l’ultima volta, la patria e la
Casa. […] “Il Capizzi intanto, ricordando non senza rammarico, come l’Ospedale
ricavava dallo Stato di Bronte e di Maniace 75 mila ducati, avea fin
dal 13 settembre 1777, fatta istanza a quei rettori, che, almeno su
quella somma, si assegnassero onze 60 all’anno alla novella Casa. I
Rettori cedettero e concesero (obtorto collo!) in perpetuo le
supplicate onze 60. […] “Sollecitava pure il Capizzi, il più che gli premeva, le regole
per il governo della nuova Casa, che in quell’ intervallo, credo si
governasse con le regole del Seminario di Monreale; e per la
formazione delle quali sin dal 18 dicembre 1778 egli aveva presentato
un memoriale al governo di Sicilia. Il Vice-re per consiglio della
Giunta dei presidenti, ne diede a lui stesso l’incarico. Egli si mise
subito all’opera e nel 16 marzo del 1781 le presentò all’esame della
Giunta, che nel 14 aprile ne riferì favorevolmente al Vicere e questi,
a consiglio della stessa, diede al vecchio venerando la facoltà e
l’onore di eleggere egli i primi deputati(1c).”
Il Capizzi impedì che alcuni sacerdoti entrassero “come preti operai
nella Casa. […]
Col consiglio del Marvuglia, dovendosi rinnovare parte del disegno,
inviava a Bronte un fratello cappuccino per lavorare insieme col Lupo
capomastro conduttore preposto alla fabbrica. Raccomandava al Rettore
e ai deputati di non buttare giù il teatrino, luogo di godimento dei
signori gentiluomini per non disgustarsi con loro che sono i
principali del paese […]. Sebbene assorto in Dio, non mancava di certi
pratici e scaltri suggerimenti diretti sempre al bene dell’ opera, che
altri potrebbe dire machiavellici. […] Così egli evitava difficoltà
spiacevoli, e arrivava sicuro al suo scopo.
“Le regole che il Capizzi scrisse per il suo Istituto sono il frutto
della sua lunga esperienza. Quelle riguardanti gli studi hanno, in
gran parte, addentellato con le regole che il padre Fazio gesuita, per
incarico di Ludovico II Torres, arcivescovo di Monreale, aveva scritto
nel 1593(1d) per il seminario di quella città; […] Nelle regole aleggia lo
spirito della Compagnia di Gesù. Esse davano l’egemonia al clero, al
quale, oltre all’ autorità ieratica, veniva aggiunta quella della
scuola; […].
“Nell’introduzione a esse regole si parla delle norme per la elezione
del direttore, dei deputati, dei visitatori auricolari, dello
stipendio dei maestri […].
Le altre onze 100 dell’assegno regio erano
destinate per libri, premi per gli scolari e
per la manutenzione dell’
Istituto.
“La prima parte delle regole riguarda i convittori, la seconda tutti
gli scolari. […]
In queste norme si nota lo spirito acuto e pratico
del Capizzi, e mostrano com’egli fosse molto saputo delle cose del
mondo e della giovinezza. […]
Degne di nota le frequenti e improvvise
ispezioni del Rettore nelle scuole. […]
Ai convittori incombeva la
pulizia delle proprie cose, il farsi e disfarsi il letto, spazzare a
turno la camera; […] allora si avvezzavano alla vita. In questo le
regole erano conformi alle costituzioni della compagnia di Gesù […] e
alle regole del seminario di Monreale. […]
“La seconda parte riguarda gli obblighi degli scolari e dei maestri.
[…] non parlo naturalmente di tutti gli atti di pietà e di religione
che informavano la vita dei convittori e degli esterni. Alcune […]
norme hanno ora perduto la loro ragion d’ essere; il venerando
vecchio, se fosse vissuto ai nostri tempi, avrebbe già adattate le
regole alle nuove idee, ai nuovi bisogni(1e). Leggi e istituzioni non
durano eterne, mutano coi tempi.[…]
  
“Il Capizzi potea bene rallegrarsi dell’opera sua. Ma a tanto uomo,
che quasi con regale munificenza, avea aperto al paese una sorgente di
ricchezze e di sapere, erano riservate in premio delle amarezze. A
lui, come ai grandi cittadini e benefattori, non mancò né l’
ingratitudine né la calunnia, e, che è più, fu ingratitudine e
calunnia sacerdotale, la quale egli come era usato portò con
allegrezza e cristiana rassegnazione.(1f) […]
“Come ultimo pegno di sua devozione alla patria, sborsato un capitale
di onze 956, assegnò il Capizzi una rendita sul patrimonio civico
della città di Palermo, intestandola al direttore del Collegio.
Finalmente nell’agosto del 1783, esausto dalle fatiche, sentendo
vicino la sua fine, già predetta da lui tre anni innanzi, volle
incassare da sé tutti i suoi libri di valore e li spedì alla
biblioteca del Collegio con
l’ espresso comandamento ch’essa fosse aperta ad utilità del pubblico.(1g) E
all’alba del 27 settembre 1783, giorno di sabato, alle 11 italiane(1h), dopo aver dato
l’ultimo pensiero alla patria diletta, lo spirito dell’inutilissimo
servo, il San Filippo Neri della Sicilia, come più tardi lo proclamò
Pio IX nel processo di sua beatificazione, risaliva ad unirsi cogli
spiriti magni della più alta idealità cristiana.”
  
“Alla morte del Capizzi […] seguirono altri miracoli. Furono composte
canzonette popolari poi musicate e cantate per le vie […] E’ sepolto
nella chiesa dell’Olivella […] Una strisciolina di marmo indica la
tomba con questa epigrafe: “Hic jacet sacerdos Ignatius Capizzi
Congregationis Oratorii contubernalis. Obiit XXVII septembris 1783.”(1i)
  
"Il benefico esempio del Capizzi accese in molti il
desiderio d’imitarlo. Il fiore della bontà e della beneficenza sbocciò
allietando del suo soave profumo le anime. “Donna Maria Scafiti […] nel 1780 otteneva dal Re il permesso di
fondare un collegio di Maria […] per l’educazione delle ragazze povere
e orfane. […] Nel 1787 la baronessa Papotto lasciava i suoi beni per un
reclusorio di Vergini; nel 1793, il dotto e pio arciprete
don Placido Dinaro […]
assegnava onze 40 all’anno per un istituto di orfanelli e innocenti; e nel 1822,
il sac. Pietro Calanna fondava e manteneva
del suo due scuole di educazione per le giovanette […]. “Ma torniamo a dir del Collegio. Morto il Capizzi, lasciava egli a
maestri, insigni giovani sacerdoti, che, a Monreale, […] erano stati vanto della
scuola del Murena, del Miceli, del Caruso, di Nicolò Spedalieri: Carmelo Politi,
dottore in filosofia, Francesco Gatto maestro di retorica e valente
verseggiatore in latino, Vincenzo Scafiti filosofo, teologo, poeta […].
Lasciava a Rettore e direttore del Collegio il sac. Mariano Scafiti
emulo nel sapere al fratello Vincenzo; il sac. Erasmo Spedalieri,
Prefetto del cortile e di camera, d’ingegno non minore del fratello Nicolò;
Pietro Calanna dottore e maestro di teologia, Saverio Raimondi, maestro di
filosofia. […] “Il numero dei convittori intanto cresceva di anno in anno. Alla fine
del secolo erano circa 200; e nuove scuole furono create nel 1795; la quarta
minore e la quarta maggiore. “Gli alunni brontesi, tornati maestri in patria, adoperarono gli
stessi libri, programmi e metodi che a Monreale. […] “[…] non si era usciti dal
medio evo. Il latino era la lingua ufficiale della chiesa e della scuola; la
sola ritenuta degno strumento d’arte, fondamento e chiave non solo d’ogni
disciplina, ma anche dell’italiano.[ …] il Collegio fiorì e divenne, dopo quello
di Monreale, uno dei maggiori centri siciliani diffonditori di cultura
grammaticale e umanistica per i circostanti paesi dell’Etna e per molti dei
Nebrodi e delle Madonie. E la sua fama […] si accrebbe e molti giovani vi
attrasse che poi tornarono maestri nella loro patria, o si avviavano a
professioni liberali […].
Quuel che fu il nostro Collegio
“Ma quel che fu il nostro Collegio nei suoi primi cinquant’anni di
vita, a me piace dirlo con le stesse, sebbene dimesse parole, del Caruso,
valente latinista da comparare agli umanisti del secolo XVI, più monrealese che
brontese, il quale, nelle notizie per servire alla storia letteraria di
Monreale, enfaticamente chiamò Bronte seconda Atene e prima, nel 1780, aveva
scritto e pubblicato una elegia latina in lode di illustri brontesi: <Brontis
Proposopeja> per cui la piccola terra natale, “non ulli cognita fama”
fu nota al mondo intellettuale. […] Diciamolo però sinceramente: erano accademie
letterarie senza arte. La cultura era formale e gli studi anche umanistici
galvanizzati dallo spirito informatore che aleggiava nella Sicilia e nel
continente non erano che vacue esercitazioni.”
Il secolo nuovo “Il secolo nuovo metteva intanto negli spiriti desideri e aspirazioni a riforme.
Tutti i convitti frateschi, preteschi e governativi non miravano che a istruire
la borghesia e la nobiltà; al popolo, ancor timido e servo, non osante aspirare
alla vita dello spirito, non pensava nessuno; […]. Anche il nostro Capizzi,
sebbene di popolo, e al tempo suo fervesse l’opera di educazione popolare, ideò
e volle il suo convitto a immagine e somiglianza di quel di Monreale, […]. Ma i
tempi accennavano a mutare.”
Nel 1788 erano state importate dall’Austria in
Sicilia le scuole normali, a beneficio del popolo […]. Le prime […] le ebbe
Palermo, indi le chiesero ed ebbero molti comuni della Sicilia, applaudite
da
dotti siciliani e italiani, avversate da altri, specialmente
dai nobili, […].
“Il parlamento Siciliano, nel 1815, assegnava alla regia Casa di
Bronte perpetuamente onze 200 annue per dette scuole […] e fu mandato a Palermo
un prete a spese del Convitto perché vi apprendesse il novello metodo. […] con
decreto del 13 maggio 1822 venne soppressa quella antica di leggere e scrivere
che in fondo corrispondeva alle due normali. Mancavano intanto delle aule per le
scuole e infine
le fabbriche in breve tempo furono cominciate e compiute.
“Il Collegio però […] cominciava a declinare. I convittori da 200 che
erano sul finire del secolo XVIII ridotti quasi a metà.” E di ciò fu
incolpato il Rettore Sanfilippo.
  
“Finiva
intanto nel 1820 il triennio del Sanfilippo […]
e fu eletto il Saitta, il quale però si dimise per non
lasciare la cattedra di eloquenza in Monreale, […]. Dopo una breve
questione nel 20 giugno veniva eletto il canonico Emanuele Palermo.
Il quale ebbe parecchi fastidi per le indebite ingerenze che il
comune voleva esercitare sul Collegio […]
“Gli avvenimenti del 1820 non scossero punto l’andamento del
Collegio, sebbene Bronte, di quei giorni, fosse in piena rivoluzione,
[…]
“Un grave pericolo turbò la tranquillità degli studi. Nel 1826,
il prefetto del cortile sac. Luigi De Luca per 13 anni secondato dal
fratello Placido e dal cugino arciprete De Luca, insolentì e diede
guerra a maestri e a rettori, sol perché gli si negava il diritto a
convivere nell’Istituto, tenendo occupati in questa lotta accanita
l’Intendenza e la Commissione Suprema. […] sol nel 1838 il De Luca
potè […] essere rimosso dalla carica […]
“Coi moti liberali sorti nell’ Isola e nel continente si era venuta
svegliando l’assopita coscienza della Nazione. Insieme coi sentimenti
di libertà, d’ indipendenza […] s’era pure naturalmente destato il
sentimento d’ italianità e con questo l’amore allo studio della lingua
che era il legame, il quale univa le varie regioni della patria divisa
e oppressa, e che da noi era stato solo nutrimento a pochissimi
solitarii.
Ad accendere intanto quel movimento nelle scuole governate
da preti e da frati, oltre ai moti suddetti, vi avevano contribuito
pure i padri gesuiti con la riforma del 1832. […] In questo fervore di
rinnovamento di studi fu gran ventura per il Collegio essere stato
eletto il can. Giuseppe Saitta, della cui fama era piena la Sicilia.
[…] Fino allora l’ insegnamento dell’italiano era tutto nella
grammatica […], nell’esposizione dei precetti retorici […] e nella
lettura di qualche trecentista. […]
Il rettorato del Saitta che durò fino al 2 novembre 1833,
quando egli fu eletto vescovo di Patti, segnò un gran passo nella via
degli studi. Con lui fecero solenne entrata nelle scuole i classici
italiani antichi e moderni. Il piano di studi ch’egli adottò fu quello
del 1823 approvato dalla Commissione Suprema. Ma la novità vera che il
Saitta portò in Bronte […] fu il metodo […] critico che sostituiva o
integrava la fredda analisi filologica […]. Era il metodo umanistico
del buon tempo antico […].
Egli intendeva la scuola come più tardi il
De Sanctis: un laboratorio dove tutti siano compagni nel lavoro,
maestro e discepoli; […] Però non si sa comprendere come con tale
sentimento d’arte il Saitta sia rimasto arcade. E vanume arcadico sono
i suoi versi […]. Ebbe discepoli valorosi che alla loro volta furono
ottimi maestri, e come lui, non lasciarono nulla o poco, oppressi da
un inoperoso fatalismo musulmano.
  
“Promosso il Saitta a vescovo, i direttori che gli successero non
seppero degnamente sostituirlo. […] Declinò l’insegnamento
dell’italiano e il metodo umanistico […]; solo nel 1837 colla
nomina del Mirenda a direttore fu provveduto a una cattedra di
lingua italiana. E, non producendo allora la terra di Bronte maestri
atti ad insegnarla, fu invitato il sac. Pietro Paolo Zappalà da
Piedimonte Etneo, il quale, stato scolaro del Saitta nel Collegio, vi
tornava maestro e in fama di poeta. Per queste novità ed altre non
mancarono al Mirenda accuse e ricorsi.
Lo Zappalà non vi durò che un
anno e la scuola, a causa della morte improvvisa del Mirenda […] non
fu più continuata. Si dolsero i padri di famiglia […] e rimproveri
ebbero dalla Commissione Suprema rettori e deputati nel 1840, perché
[…] lasciavan decadere lo studio dell’italiano.
Dopo vari tentativi il (rettore) Tirendi si
volse al diacono Vincenzo Leanza, discepolo del Saitta, giovane
ventenne, di molto ingegno e di molte speranze, la cui nomina
definitiva fu nell’ottobre del 1845. […]
Il Tirendi mise su un teatrino […] di giovinetti con repertorio
comune […] del tempo per cui grande era la contentezza e ammirazione
del pubblico […] Tutto ciò sembrò un gran passo nella via degli studi;
l’insegnamento però massimo, assorbente, era il latino […] il poeta
piemontese Giuseppe Regaldi […] diceva d’essere passato per Bronte e
d’aver visto un grande fabbricato peggiore delle carceri di Randazzo,
dove vegetavano nel fetore centoquarantacinque alunni. […]
“Duro giudizio e in parte vero! Non sembri ciò irriverente alla mia
patria, quando si accenna al sudiciume; ma questo non del solo
collegio di Bronte: erano e sono ancora le condizioni generali
igieniche di tutto il mezzogiorno e specie della Sicilia, e più dei
piccoli centri, ove maggiormente difettava, come a Bronte, l’acqua:
giudizio dettato più dal risentimento di non essere stato accolto come
egli sperava e meritava, che dalla realtà. […]
“Questo stato del Collegio di Bronte era comune a tutti i centri di
cultura siciliana, sia per l’indirizzo della politica dei Governanti,
sia per la difficoltà dei viaggi terrestri e marittimi. La Sicilia era
sequestrata dalla restante Italia, molto più Bronte.
Per avere un’idea
delle condizioni intellettuali dell’Isola basta leggere la geniale
conferenza di Giorgio Arcoleo, ingegno acuto quanto altri mai:
Palermo e la cultura in Sicilia; e Il Tramonto della cultura in
Sicilia, dotto saggio dell’ illustre filosofo Prof. Giovanni
Gentile, uno dei pochi rappresentanti della cultura siciliana ai
nostri giorni.(2a)[…]
“Il nostro Istituto, che il Bonghi(2b) in una
seduta parlamentare del 1886, chiamò romanamente Foro della lingua
latina, lo ripetiamo, fu uno dei migliori istituti classici dove
il latino bello ebbe culto e fervore, a cui i vecchi maestri, sebbene
ignoranti di critica, di storia e di filosofia, non fallirono mai.
Altro che vegetare! Da quel carcere erano usciti eletti giovani che
con onore si erano avviati a diversi uffici della vita, a dignità
civili ed ecclesiastiche, alle lettere.
Ricordo i più noti: il vescovo Giuseppe Saitta […] del quale il
cardinale De Luca, suo discepolo, soleva dire: - Di quanti uomini
illustri ho conosciuto, niuno ho incontrato superiore al Saitta per
altezza d’ingegno e per dottrina varia e profonda -;
Arcangelo
Spedalieri, Ippocrate(3) siciliano,
onore e vanto degli atenei di Bologna e Pavia; Placido De Luca, professore di
economia politica all’Università di Napoli e il fratello
Antonino,
cardinale; l’abate Giuseppe Castiglione, pari del Regno nel 1848, e
professore di eloquenza nel Seminario di Palermo; […] Mariano
Minissale […] consigliere della Corte di Cassazione in Palermo; […]
Luigi Capuana da Mineo, cara e diletta gloria dell’isola nostra;[…].
Questi vecchi e tabaccosi maestri, […] ebbero […] a gloria di avere
avuto a discepoli, ai nostri giorni, molti giovani valorosi: fra i
quali Carmelo Biuso filologo e filosofo, libero docente in entrambe le
discipline, […] i
fratelli Cimbali: Enrico,
giureconsulto insigne, professore di Diritto civile all’Università di
Messina, rapito a 31 anni, alla vigilia d’una plebiscitaria elezione a
deputato al Parlamento; Giuseppe, rivendicatore appassionato della
gloria di Nicolò Spedalieri, libero docente di filosofia del Diritto
all’ Università di Roma […]; Francesco, medico, deputato al
Parlamento; Eduardo professore di Diritto internazionale nella R.
Università di Catania […].
“Altro dunque che spegnere le care speranze dei giovani etnei! Da
quelle prigioni uscirono schiere di giovani avviati pel mondo a
prendere ognuno il proprio posto nella vita; da quelle scuole uscirono
brigate di giovani brontesi che nel ’48 e nel ’49 difesero Messina
pericolante e Catania. Con questo non intendo dire che il Collegio è
stato una fabbrica di uomini insigni. Nessuna Scuola, nessuno istituto
può aspirare a tanto. Ogni uomo è autodidatta. La scuola informa,
avvia.
“Dei minori, illustri ignoti dei quali la fama paesana ricorda il
sapere e la virtù, si ha notizia nella Storia della città di Bronte di
P. Gesualdo De Luca.(4)
  
Il paragrafo
seguente è la integrazione di quanto si è detto nella monografia che
tratta la rivoluzione del ‘48/’49 con la partecipazione che ne ebbe il
Collegio di Bronte.
“In quella fregola di innovare, dichiarato decaduto re Ferdinando, a proposta
dell’abate Giuseppe Castiglione da Bronte, pari del regno, in odio al
Borbone, si volle pure sbattezzare il Collegio […] che prima
chiamavasi collegio borbonico, sarà chiamato collegio nazionale(5).
[…] Ma vi durava sempre la tradizione umanistica. I giovani leggevano
gli scrittori latini con […] facilità […]. Solo il latino improntava
gli spiriti. Di storia, di geografia, di scienze, di lingue moderne,
nulla. Or tali discipline richiedevano i tempi e la rinnovata
cultura.(6)
Ma mancava l’uomo da ciò. Le regole
del Capizzi vietavano, a chiunque non fosse ecclesiastico, il governo
del Collegio. Allora, per volere di Pio IX, ospite fuggitivo a Gaeta,
interessato da Monsignor Antonino De Luca, vescovo di Aversa, i
deputati nel 16 dicembre 1849, elessero a rettore Mons.
Giacomo Biuso, protonotario apostolico e prelato domestico del
Papa, uomo di varia cultura, che di quel tempo vivevasi in Napoli.
Il Biuso fu tutto a ripulire, rassettare, ordinare il Collegio, e
dargli un aspetto di salubrità […], e intanto prudentemente andava
maturando la vagheggiata riforma, irta di non poche difficoltà, per
via del clero che non voleva essere messo da parte, e del quale non
poteva valersi, perché incapace all’insegnamento di novelle
discipline. Propose il Biuso altre cinque cattedre […]. I deputati gli
diedero facoltà d’invitare dall’Italia i migliori professori.
Il Biuso propose anche riforme di carattere organizzativo che gli
misero contro il Tirendi, i vecchi maestri e i convittori con i loro
padri, onde egli nel gennaio 1851 scriveva dolente a Mons. Crispi
“che il collegio sebbene florido di 400 discenti era paralitico per
l’insegnamento e la riforma offriva difficoltà molte per l’intrigo
dei preti, […] che la deputazione vuole condurre a porto la
vagheggiata riforma ma chiede aiuto dal re per mettersi a coperto
delle persecuzioni sacerdotali; […]
Intanto erano scoppiati anche dissidi interni, sempre perché
“soffiava lo spirito mefistofelico del vicario Tirendi,” che spinsero il
Battaglia a lasciare il Collegio e provocarono l’espulsione di due
giovani che avevano congiurato contro lo Schilirò.
Altri problemi ebbe il Biuso con l’Intendente di Catania che
“pretendeva che ogni anno si dovesse rendere a lui i conti del convitto,
mentre nel concordato del 4 giugno 1844 tra il re e papa Gregorio XVI,
[…] stabilivasi che il Collegio doveasi governare colle regole del
fondatore. […] Il luogotenente generale Satriano però di accordo col
procuratore generale del re, stabilirono che i conti del Collegio
borbonico(7) di Bronte fossero resi alla
Gran Corte. Cotesti impacci e tramenii interni ed esterni, codeste
sorde turbolenze disanimarono e determinarono il Biuso […] a dare le
sue dimissioni, respinte con la concessione di due mesi di congedo per
ragioni di salute, nel qual tempo la direzione fu affidata al sac.
Rizzo.
“Nel 14 ottobre 1851 la deputazione eleggeva […] il
padre
Gesualdo De Luca(8) a professore di diritto
canonico e a vice rettore il sac. Rizzo Gaetano. […]
“Nel novembre del 1851 fu inaugurato l’anno scolastico […] alla
presenza di Mons. Antonino De Luca, vescovo di Aversa, sostenitore
della riforma […] e questo, diciamo, trionfo del Biuso, ruppe il sonno
al vicario Tirendi il quale, però, non si diè per vinto. Egli gran
maestro di raggiri, fa il suo piano strategico e comincia a dare nuova
battaglia al Biuso […] Seminatore di discordie, nulla lascia intentato
[…] Ma tutte le sue impudiche menzogne sfata il giudice di Bronte
Ferlazzo Gasparo, scrivendo alle autorità che al Biuso devesi il
rifiorire degli studi e la fama migliore venuta al Collegio.
Il
Biuso resiste egregiamente,
e a confusione dei suoi nemici e ad emulazione dei giovani volle […] rendere
pubblico il profitto loro e ne diè alle stampe il resoconto. Questa
relazione è il miglior documento morale e intellettuale della mente
direttrice del Biuso. L’emulazione, la lode, ora morte nelle nostre
scuole, erano la molla che metteva in moto e i giovani e i maestri;[…]
Dissertazioni letterarie, filosofiche, canoniche li addestravano al
parlare al pubblico; le migliori venivano date alle stampe.(9)
[…]
“Luigi Capuana, ricordando con piacere gli anni passati colà,
mi raccontava una sera del 1910 a Palermo, che lì, in collegio, gli
cominciò la febbre dello scrivere. A 10 o 12 anni commise un delitto
tragico e il corpo del reato fu conservato in biblioteca. […] Divenuto
celebre il Capuana donò alla Biblioteca del Collegio un esemplare del
suo lavoro: Teatro contemporaneo, con la seguente dedica: Al Collegio
in compenso delle mie scappatelle; ed ora […] attendiamo i suoi
Ricordi d’infanzia e di giovinezza.
“Spesso convertivasi in accademia giovanile anche il refettorio, ove
[…] risuonava un’elegia o […] un’ode […].
Era tutta produzione
agiografica; e per certi rispetti s’era ancora nel Medio Evo. Il
rettorato del Biuso […] segnò, possiamo dire, l’epoca d’ oro
del Collegio. […]”
Finito il triennio il Biuso restò in carica solo un altro anno per le
pressioni dei padri di famiglia e l’unanime richiesta dei deputati.
  
“Al Biuso successe il sacerdote Rizzo la cui elezione venne di molto
contrastata dai visitatori, o meglio dal Tirendi. […] Il Collegio
continuò a mantenere la fama acquistatagli dal Biuso. Il numero
dei convittori andò giù a 200, di che incolpavasi il dispotismo
del rettore; quando le cause credo debban cercarsi nelle sorde
agitazioni del decennio. Si avvicinava intanto l’anno fortunoso
del 1860, l’anno della nostra redenzione. La rivoluzione,
che aveva già pervaso l’ animo dei Siciliani, penetrò anche in
Collegio(10) […]
“Breve e turbolento rettorato ebbe il Calaciura […]
cacciato da una sommossa giovanile […].
Gli successe il sac. Di Bella il cui rettorato fu il più lungo,
andò fino al 1879. Sotto di lui gli studi continuarono l’
indirizzo dato dal Biuso. […]
“Nel 1862 intanto il prof. Angelo Maiorana, Ispettore e
Provveditore agli Studi, manifestò il disegno di trasformare il
Collegio in Convitto Nazionale, ma il clero, che ha creduto
sempre di avere se non la proprietà assoluta, il dominio utile del
Collegio, sorse come un solo uomo, temendo di perdere il
monopolio dell’ insegnamento.
Il nuovo governo però gli tolse
l’amministrazione dei beni e l’assegno annuo regio delle 400 onze;
ma […] mantennero al Collegio la sua autonomia, assoggettandolo in
quanto agli studi alle leggi dello Stato. Il ministero della
Pubblica Istruzione e il Consiglio di Stato nel 1864 […]
dichiararono laicale il Collegio e promisero di cooperare al suo
miglioramento; e […] nel 1866 gli restituirono l’amministrazione
dei beni distratti.
“Il rettore Di Bella comprese bene che le istituzioni, se vogliono
vivere, conviene che mutino e si evolvano coi tempi; onde,
contrariamente alla volontà del clero, e in ciò è da ammirarsi,
curò di dare maggiore stabilità alle scuole, facendo dichiarare
pareggiato il ginnasio (decreto 22 novembre 1867). […]
In quello stesso anno volle il Di Bella dotare le scuole di altre
due discipline: le scienze naturali, il cui insegnamento commise
al dottor Antonino Cimbali, e la filosofia del diritto, all’avv.
Giuseppe Liuzzo, oratore facondo: ambedue i più colti uomini laici
del paese. Fra gli uomini colti in quel tempo era anche venuto in
istima il D. Luigi Saitta che professava omeopatia. Ebbe il Di
Bella devozione e culto agli uomini insigni di Bronte, dei quali
curò eternare la memoria facendone dipingere l’effigie
al pittore Agostino Attinà brontese.
“Accanto alla scuola pubblica del Collegio fioriva di quei giorni
la piccola scuola privata dell’arciprete Salvatore Politi che,
avuta dal governo borbonico la patente di maestro insegnava ai
giovani non per lucro, ma per amore e per consolarsi(11)
[…] |
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