Un illustre economista siciliano dimenticato «... Ma altro fu lo scienziato, altro l’uomo. Un avvenimento della sua giovinezza lo rese noto ed inviso alla polizia borbonica. La sera del 2 aprile 1835 il Teatro Comunale di Catania echeggiava di applausi al tenore Giovanni Boccaccini(1). L'occhiuta polizia che vedeva anche le cose invisibili, tenne un giorno ed una notte in arresto il bravo tenore, perché, senza il suo permesso aveva osato presentarsi alla ribalta a ricevere i battimani. Si ripeterono più fragorosi gli applausi la sera del 4, beneficiata di Don Martino Pappalardo. Furono applauditi fuori misura gli attori e il tenore, scrive nel suo rapporto di inchiesta il presidente Longo. D'Enrico, Perino, Canterella e il di lui zio Luigi Canterella, autori più rumorosi della claque, furono portati in domo Petri(2), ove stettero per oltre ventiquattro ore. La polizia, odorando il vento infido, interpretando gli applausi come protesta alle misure poliziesche, o come qualcosa che allora non era lecito dire, ma che si sentiva nei cuori e si respirava nell'aere, per ragioni di ordine pubblico, o meglio per non fare scandalo, proibì ad alcuni giovani di recarsi al teatro. Quel divieto paterno e prudenziale generò invece la mala contentezza nei presunti ribelli. La sera del 5 aprile una quarantina di giovani avvolti nei loro mantelli, il bavero alzato per nascondersi parte del viso, motteggiavano e sbertavano(3) il capo guardia Recupero Ferdinando, destinato al servizio del teatro, cantando in coro: Va, spogliati, lascia l'uniforme, levati quel cappello, levati quella pezza lorda, stasera sarebbe meglio di ritornartene a casa. Il Recupero tirò innanzi e imbattutosi nell'Ispettore Silvestri, con costui filò dall'Intendente che abitava lì vicino, e presso il quale quella sera trovavansi il commissario Vico e il principe Acicatena, comandante generale del Valle, quel tal principe che nel 1820 venuta ad assediare Bronte ribelle a S. Maestà, i Brontesi ruppero e misero in fuga. Le due canizie consumate, venute a consiglio, ordinarono al Silvestri di trovar modo colle buone o colle brusche di sciogliere quei capannelli di figlioli testardi, scapati e disubbidienti. Alla vista del Silvestri, del Recupero e delle guardie, si ripeterono in coro le voci: Va Spogliati e levati l'uniforme, e fatta trombetta con la bocca seguì un certo rumore che dantescamente dicesi trullare(4). Quei buoni figlioli l'avevano col Recupero. Il Silvestri, credutosi offeso nella dignità birresca, ordinò l'arresto di uno degli spetazzanti. I giovani, tratti di sotto ai loro mantelli, chi bastoni, chi coltelli, assalirono le guardie. In quel tafferuglio rimase ferito il Silvestri al mignolo della mano sinistra, giudicato pericoloso di storpiamento, non più buono quindi a maneggiare pollici e manette. Fu pure malconcia una guardia. In questo, al rumore d'una fucilata, sopraggiunse la turba che perlustrava quei paraggi. Gli assalitori, vista la mala parata, se la diedero a gambe. Furono arrestati Don Rosario Currò da Acireale, Don Carlo Smeriglia da Messina, Don Giuseppe Scarlati, Don Agatino Clarenza da Catania, il nostro avvocato De Luca che lavorando di bastone, impigliatosi nel mantello, incespicò e cadde colla testa rotta e sanguinante. Si salvarono colla fuga i fratelli Giuseppe e Domenico Calatabiano, Guglielmo Thovez governatore della Ducea Nelson, D'Enrico, Pisani, Ciancio, D. Giuseppe Caudullo, Calcedonio Ardizzone, Giuffrida, Bonaventura, Gravina, Pietro Nicastro da Modica, D. Domenico Fiorini concittadino del De Luca, i quali poi, a loro istanza, furono ammessi al beneficio della spontanea presentazione. Il De Luca, più degli altri, temeva il rigore della Legge per il reato di violenza e resistenza alla forza pubblica, e più per la rabbia borbonica dei magistrati, contro i quali la cittadinanza reclamava perché fossero allontanati da Catania, come nemici palesi degli accusati, il Procuratore Generale Corvaia, il presidente Longo e il giudice Carbonaro. Gli è vero che quella era una volgare rissa, ma la condizione civile dei rissanti, fra i quali il De Luca legato d'amicizia colla gioventù liberaleggiante di Catania e di Palermo, generò il dubbio che quella non fosse pura rissa. Altrove non si gridava: Viva Verdi! e Verdi era Vittorio Emanuele re d'Italia? I giovani non si battevano per una ballerina e la ballerina era l'Italia? A Catania si applaudiva il tenore, e questo simboleggiava l'ideale di libertà. I Puritani erano già apparsi nel gennaio sulle scene di Parigi, e in quattro mesi avevano dovuto valicare le Alpi e cantare di libertà nella patria del Bellini. Negò il De Luca nel suo interrogatorio di avere avuto parte nella rissa, ma che capitato lì a caso, in quel pigia pigia, era stato travolto dai rissanti e dalle guardie, e uscitone tutto rotto e pesto della persona. Un giorno, stando arrampicato alla finestra, da un balcone dirimpetto, per via di grandi caratteri, fu amichevolmente avvertito che l'affare suo volgeva al peggio. Allora egli pensò ai casi suoi; e per grotteschi modi, strani e bestiali atti cominciò a simular pazzia; ora negando il cibo al proprio corpo, or gittandolo in viso ai carcerieri, ora insudiciandosene la faccia, or grufolando dentro alla sua scodella, come in un trogolo, ora bruttandosi delle sue lordure. Crescevano intanto i calori dell'estate; e con questi la mania. I medici gli permettevano che girasse pei corridoi a tutte l'ore, e quando egli veniva in maggior furore, come a novello Saulle, per calmarlo, due bravi giovani, coi loro violini gli suonavano dei pezzi di musica. I fratelli del De Luca, il suo avvocato difensore Prof. Giuseppe Catalano, chiesero per lui la libertà provvisoria con le maggiori e più gravi garenzie(5) possibili, e che fosse mandato in Palermo all'ospedale dei matti. La libertà provvisoria gli venne negata, come a reo convinto e maggiore. Il 22 giugno dal carcere centrale fu mandato all'ospedale di S. Marta, e di là, accompagnato dal fratello sac. Luigi e dai gendarmi, il 10 luglio fu trasferito in Palermo alla casa dei matti, ai Porrazzi. Il fratello Sebastiano era già partito prima a brigare presso le Autorità. La commedia della simulata pazzia, della quale poi rideva spesso con gli amici, durò finché l'orizzonte era annuvolato. Ivi, sebbene preoccupato del suo avvenire, mentre la Gran Corte di Giustizia temporeggiava a designare una Gran Corte Penale, essendo sospetta quella di Catania, per la benevolenza del barone Pisani, direttore del Manicomio, egli passava allegramente le sue ore, godendo una relativa libertà. Usciva. spesso invitato da amici in campagna, o in città. Tutti erano interessati per la Sua sorte. Daita Giuseppe Giovenco, Francesco Arena, Cirilli, lo stesso presidente Cupani lo confortava a bene sperare. Quel processo in verità non era che una montatura. La Gendarmeria, per mostrarsi zelante e farsi onore col principale, cercava delitti ove non erano. La Gran Corte di Palermo, a supplica del fratello Antonino, già molto in fama per la fondazione degli Annali di scienza religiosa, in Roma, per mezzo del ministro segretario di Stato, con decisione del 26 settembre 1836 concedette al De Luca la libertà provvisoria. L'increscioso affare si trascinò sino al 1837. Non si trova alcuna sentenza di assoluzione, credo che qualche grazia sovrana l'abbia liberato dal giudizio e dalla possibile pena. (...) [B. Radice, Un illustre economista siciliano dimenticato, Placido De Luca, pubblicato dal giornale L’Ora, Palermo 18-19 Aprile 1923] Note
(1) Beccaccini G. Francesco (Carpi 1796-Messina 1877), tenore. Esordì a Parma, poi a Parigi, Londra e nelle principali città d’Italia. (2) Questa frase che letteralmente vuol dire “nella casa di Pietro”, ma in effetti significa “in carcere”, deve essere un modo di dire dello Stato Pontificio, ma non ne ho riscontro. (3) Termine raro letterario che vuol dire “schernire”. (4) Trullare: termine antico che vuol dire “far peti”. Dante dice: “ …dal mento infin dove si trulla”. (5) Forma rara di “garanzia”. |