“[…]
in una profonda e larga vallata lambita dal Simeto, in cospetto
dell’Etna, venne per la pietà della regina Margherita, innalzato un
[…] vasto monastero benedettino, munito di castello o torre per la
difesa, […] era quella torre abitata da militi, a difesa del convento,
come usava a quel tempo.La torre era dalla parte d’oriente attaccata
col cappellone, donde il monastero prese il nome di “ turris,
fortilicium, castrum”. […]
“Fu primo abate del monastero Guglielmo di Blois, uomo insigne
per dottrina […] ignorasi la durata del suo governo abbaziale. […]
Ebbe pure l’abate il diritto di sedere fra i Pari in Parlamento, ed
occupava il posto quindicesimo nel braccio ecclesiastico.”
Fu concesso “ ai frati del convento di Maniace facoltà di
eleggere l’abate tra loro, e in caso di discordia eleggere un altro,
ma dello stesso ordine[…] Il monastero, per i privilegi concessi,
doveva ogni anno al vescovo di Monreale ed ai suoi successori”
alcuni tributi.
“Anche le chiese di Bronte: la chiesa Maggiore della Trinità, S.
Maria della Catena, di S. Giovanni, come le chiese di Catania […]
erano soggette alla giurisdizione ecclesiastica,” limitata, di
Monreale […] però dagli atti posteriori appare essere anche Bronte
sotto la giurisdizione ecclesiastica dell’abate (di Maniace).
“L’ozio è il guanciale del diavolo. Le istituzioni umane
allontanate dal loro principio declinano; la rilasciatezza dei costumi
dei monaci, la loro sfrenata ambizione, la cupidigia dei beni
temporali, le vicende delle guerre, specie nel napoletano, offuscarono
la gloria dei monasteri.
Or non a pregare e a servire Iddio erano intenti i nostri frati di
Maniace, ma ad attaccar brighe […] continuando a vivere di soprusi e
violenze.
Le rendite dell’abazia ammontavano a onze 474 d’oro, oltre a
grossi quantitativi di frumento ed orzo. Le rendite dell’abazia di
S. Filippo di Fragalà, unito posteriormente all’abazia di Maniace, ad onze 300 d’oro. Quanto ben di Dio per pochi monaci! Nelle loro
contemplazioni potevano esclamare: Deus nobis haec otia fecit.” Il monastero si rese celebre nel 1285 con la congiura ordita
dall’abate Guglielmo contro il re d’Aragona(2),
per istigazione di Onorio IV(3) che aveva concesso
all’abate “varie indulgenze per sollevare la Sicilia contro re
Pietro e gridare il nome della Chiesa.” L’abate coinvolse nella
congiura parenti ed amici, “ma la cospirazione allargatasi fu
scoperta. […] L’abate, fuggitivo, fu preso a Palermo ed inviato
prigione a Malta, indi a Messina ed infine “ob reverentiam clericalem”
libero a Roma. […] Il Prof. Casagrandi chiama questo convegno la
congiura di Randazzo; a me pare, invece, che debba dirsi congiura
dell’abate di Maniace; perché egli ne fu il capo e perché fu ordita
nel suo convento, luogo solitario, lontano da sospetti e perciò adatto
a congiure. […] “Questa congiura si riattacca ad una fantastica tradizione popolare
brontese, che, alterando nomi di luogo, di persone e la data, dice
essere stata tenuta in Bronte coll’intervento di Giovanni da Procida
contro i Francesi nel luogo detto Conventazzo, del quale tuttora
vedonsi le mura dirute. […] Il Radice dipana e confuta le diverse notizie riferite dal Casagrandi sulla vita del famoso abate, mettendo a confronto quanto
scritto dal D’Amico, dal G.B. Grassi, dal Pirri, dal Gaetani e dal Bucellini concludendo che egli godeva “fama di dottrina e santità”
vitae sanctitate esimium virum.”
In seguito fu nominato abate di Maniace “certo Francesco e vi
teneva per suo procuratore speciale F. Tancredi. “Vivevano i frati da circa dieci anni senza alcun freno, in grande
corruttela, con grave scandalo dei fedeli; la qual cosa indusse
nel 16 dicembre del 1295, papa Bonifacio VIII, per ristabilire la
disciplina in quel convento, ad unirlo al monastero cistercense di Marmossolio, in quel di Velletri, al quale il pontefice era in
particolar modo affezionato.
[…] “Mal pativano però i frati tale unione o spoliazione. Aveva Antonio
abate di Marmossolio e di Maniace nel 13 settembre 1302 eletto Ranieri
qual suo procuratore. […] Questi, andato a Maniace per prendere
possesso dell’abazia, vi trovò ostacolo; onde egli […] dovette
chiedere l’aiuto del braccio secolare per cacciar via frate
Francesco.” […] L’arcivescovo di Monreale, che si vide privato
ingiustamente della sua giurisdizione, convinse nel 1306 l’abate
cistercense di Maniace a rinunziare in suo favore. “[…] Di siffatta
rinunzia non fu contento il monastero di Marmossolio che tanto aveva
brigato per quella unione, di che nacque lite lunga e feroce. La disputa avvenne tra frate Biagio da Ardea, procuratore a
Maniace del convento di Marmossolio e l’abate di detto convento,
perché il primo, pessimo amministratore, “portando seco oro e
denaro” si era rifugiato presso l’arcivescovo di Monreale, e il
secondo era andato ad inseguirlo per punirlo. Ma il frate, in combutta
con “e genti dell’amico arcivescovo, arrestò abate e monaci e li
gettò in tetro carcere,” e, alleatosi coi Benedettini di Monreale,
organizzò una spedizione per Maniace, dove costrinse con la forza i
frati “a rinunziare i loro diritti in favore dell’arcivescovo di
Monreale, sotto la cui dipendenza ed obbedienza era stato il convento
messo dalla fondatrice.” Seguì una causa con sentenza del 1310
che stabiliva “perché subito, postposita appellatione, si
fosse data esecuzione ad unguem. Durò la lite sino al 1318,
quando […] l’abazia si assoggettò al pagamento di 1000 fiorini
d’oro in tre anni a favore del monastero di Marmossolio, e tornò
libera. Ma né la disciplina, né il costume ritornarono in fiore.” Nel 1342 l’arcivescovo di Monreale Spinola, andato a visitare
il monastero di Maniace, lo trovò “omni honestate relictum”, e
perciò “ne cacciò via i frati indegni” e vi mandò, dal monastero di
S. Nicolò all’Arena di Catania,11 monaci col priore Sinisio, che
raccomandò all’abate Bonamico. Questi con i “frati maniacesi,
non usi più a disciplina,” si ribellò cacciando gli ospiti e
perseguitando il buon Sinisio, ma alla fine “ fu deposto dalla dignità abaziale” […]
“L’autorità spirituale del monastero era spesso impotente a cozzare
contro l’ ingordigia e le prepotenze dei cittadini, onde nel 1469
l’abate Alberto Rocca fu costretto ad invocare dal re l’aiuto del
braccio secolare per recuperare dei beni e dei redditi; quale aiuto
non veniva mai negato agli ecclesiastici. Intanto l’abbandono del
monastero, la nessuna disciplina e le molte ricchezze per pochi frati,
indussero papi e re a dare l’abazia in commenda, cioè in pasto ai loro
prediletti. E il primo commendatario fu Giovanni Ventimiglia, eletto
da re Martino per avergli difeso il trono, travagliato dalle fazioni
dei baroni […] I successivi commendatari furono: frate Biagio, patriarca di
Gerusalemme e Daniele Scoto, vescovo Concordiense; ma qui il Radice
torna indietro, come fa spesso, per elencare “castellani e
commendatari, la cui elezione fu spesso causa di contestazione.
[…] per concludere così: “Di questi siffatti castellani e
commendatari, dilapidatori del patrimonio e dello stato miserrimo del
monastero, leggesi nei capitoli di Randazzo del 1485, - Il
monastero è pervenuto oggi in tanta ruina et sterminio, che in tutto è ruinato et di loco di santificazione è fatto ricettacolo di ladri e
tutti i commendatarii che su stati e su(4),
non attendino, salvo ad esigeri gl’introiti et non a lu riparu di
ditta Ecclesia.-
“Ai frati pertanto non mancarono mai le molestie e i soprusi or degli
uomini di Bronte, or di Randazzo. […] Segue l’elenco dei 24 abati succedutisi fino al 1491, e il 24° risulta
il Cardinale Roderico Lenzuoli Borgia dal 1471 al 1491, il quale non
fu proprio abate ma commendatario. […] “Sotto il Borgia stimo sia
avvenuta l’unione dell’abazia di Maniace con quella di S. Filippo di Fragalà e non mai, come asserisce il Pirri, nel 1183 […]
“Degli abati furono celebri, come abbiamo detto, Guglielmo di Blois,
poeta latino; l’abate Nicolò Tedesco, arcivescovo di Palermo e
cardinale; il beato Guglielmo, noto per la congiura contro i re aragonesi e l’ultimo abate commendatario cardinal Roderico Lenzuoli
Borgia, che fu papa Alessandro VI, più celebre per le sue nefandezze.” A questo punto il Radice ripete la storia della fondazione
dell’Ospedale Nuovo e Grande di Palermo e a proposito della riserva
del Borgia, per sé “vita durante” di 700 fiorini d’oro che dopo
mercanteggiò per 2000 scudi d’oro, conclude: “Carità inconsulta,
spolatrice del Pontefice, consumata a danno di Bronte, il quale,
venuto meno Maniace, per la emigrazione dei Maniacesi e la loro
fusione coi Brontesi, avea visto crescere il suo patrimonio comunale e
cittadino! Donazione fatale! Da essa si originò la gran lite che per
la sua libertà sostenne il Comune contro le prepotenze feudali
dell’Ospedale che, sotto velo di difendere l’opera pia, tramava
insidie alla sua libertà per avvincerlo con le doppie catene feudali
del
mero e misto impero, farsi padrone della vita della libertà e dei
beni dei cittadini. L otta durata 350 anni dal 1523 al 1861, e per cui
i migliori cittadini e giudici e capitani soffrirono carcere ed
esilio; finita poi colla diminuzione del suo territorio e colla
susseguente miseria dei suoi abitanti; miseria sempre più aumentata
dall’ ira devastatrice del formidabile vulcano.”
L’abazia continuò a degradarsi e impoverirsi sotto i rettori
dell’Ospedale, per cui si pensava “di aggregare il monastero al
clero di Bronte“ ma, dopo vari cambiamenti, “finalmente nel
1611 in virtù del diritto di unione dei due monasteri vi tornarono i Basiliani, i quali, per il terremoto del 1693 che distrusse la
già cadente fabbrica del monastero, portarono a Bronte i loro
penati vicino la chiesetta di S. Blandano, allora fuori dell’abitato:
fabbricarono ivi il loro convento e vi rimasero fino alla
soppressione.”
“Dell’antica abazia […] è rimasta, bellissimo monumento d’arte siculo-normanna, la chiesa,
innalzata sul disegno della chiesa di S. Spirito in Palermo e del
sontuoso tempio benedettino di Monreale.
Essa
è lambita dal torrente Saraceno.
E’ a tre navate, con archi a sesto
acuto di pietra bianca, circondati da una sola modanatura, poggianti
su otto colonne di pietra di lava, rotonde ed esagonali,
alternativamente, e con capitelli dorici. Il tetto è a travature.
Dieci finestre ogivali, ora murate, corrispondono al centro degli
archi. Solo da tre, più in alto,
piove una luce debole che dà alla chiesa più austerità e fa più
pensoso il credente. La chiesa
aveva prima un’abside, poggiata sopra due grandi archi, poscia ruinati
dal terremoto, e dei quali scorgesi ancora la metà del restauro fatto.
In fondo era l’altare maggiore con quadro bizantino della Vergine e
un’alta croce. Senza il coro e l’abside la chiesa sembra strozzata.
Rinunzio a parlare del trittico, come esso è confusamente descritto
nel memoriale dell’abate Gregorio Sanfilippo, presentato al regio
visitatore De Ciocchis e annesso ai documenti 1741-42: Confusione
accresciuta dal De Luca, nella sua storia di Bronte. Mi contento di
scrivere le cose come sono al presente.
La chiesa è adorna, come prima da tre altari: a destra di chi entra,
in cornu epistulae è l’altare dedicato alla Vergine della
Seggiola, di cui è meraviglioso il dipinto: sembra Raffaello. Il
Bambino è abbracciato al collo della Madre, che lo stringe
amorosamente al suo seno.
Nel volto della Vergine è soffusa una
spirituale dolcezza, una soavità celestiale, che ricorda l’arte umbra;
in alto due angeli rimuovono una cortina(5).
L’altare a sinistra è dedicato a S. Basilio. Il santo scrive le regole
del suo ordine, sotto l’ ispirazione di un angelo. Il dipinto sembra
della stessa mano, che dipinse la Vergine della Seggiola. Sul gradino
della mensa è la parte di un trittico bizantino, di forma piramidale,
su tavola, rappresentante Santa Lucia […]
Un altro quadro molto pregevole è S. Spiridione vescovo, vestito alla
greca, nell’atto che risana una vecchia inferma, giacente a letto.[…]
All’altare maggiore, risplende nella sua classica bellezza bizantina
l’immagine della Vergine di S. Maria di Maniace nell’atto che allatta
il Bambino. (E’ una copia di quella che si venera in Bronte nella
chiesa di S. Blandano che i Basiliani portarono seco al tempo della
loro emigrazione da Maniace.) Al muro dell’ altare maggiore appeso un
trittico in stile gotico, […] A destra dell’altare, in cornu
Epistulae, è un piccolo bassorilievo di marmo, rappresentante la
Vergine Annunziata […] è scultura del sec. XII […].
Sotto l’altare, da
circa 600 anni, dorme il beato Guglielmo, il santo abate congiuratore
contro la Casa aragonese, ravvolto in un lenzuolo di seta paonazza.
[…] “Mirabile è il portale della chiesa il cui arco a sesto acuto adorno
di vari cordoni grossi e piccini, sporgenti nella cornice ogivale, è
sorretto da dieci colonnine: cinque per ogni lato,
delle quali tre di
marmo e una di porfido, e le altre di pietra arenaria giallognola, di
media grossezza. Le colonne non sono né scanalate né a spirale, come
le descrive il Gally Nigt, senza averle viste, ma lisce e rotonde.[…]
Bellissimi e variati i capitelli di carattere nordico, o meglio
romanico dei neo-campani […] Le foglie dei cinque capitelli delle
colonne di destra sono un lavoro di fine ricamo […]
L’insieme delle
sagome, delle cimase, della cornice ogivale, con i capitelli
variamente scolpiti, dà un aspetto solenne al nordico portale e alla
facciata. Reputo essere l’opera della fine del secolo XII, coeva del
famoso tempio e chiostro di Monreale. L’abazia nella sua semplicità ha
qualche cosa di maestoso. Le due facciate interne e la esterna, che dà
sul piazzale, ombreggiata da un grandioso e solitario ippocastano,
sono interamente ornate dal verde di piante rampicanti.
Nell’atrio,
rimpicciolito per via degli archi, che tolgono non poco all’estetica
della facciata del portale della chiesa, sorge un
monumentino di
pietra di lava alla memoria dell’ammiraglio Orazio Nelson, con queste
parole: Eroi immortali Nili. La chiesa è degna di essere
dichiarata monumento nazionale.” Il monastero ospitò Enrico VI, imperatore di Germania, marito
della normanna Costanza, figlia di Ruggiero e forse anche la regina
Bianca. Ai tempi del Radice, l’abazia, che il duca chiamava castello,
ha ospitato personaggi insigni nelle scienze, nelle lettere, nella
politica: fu anche ospite e vi morì nel 1905 il poeta William Scharp,
nato in Pasley, Scozia.
“E’ sepolto poco lungi dalla chiesa, di là
dal fiume. Egli che seppe i segreti, le voci dei venti, dell’acqua,
del sole, delle selve, dorme ora nella terra, che sognò ed amò appiè
del vecchio Mongibello, cullato dallo stormire della foresta, dal
mormorio del paterno dio Simeto, che lambisce la chiesa bizantina,
coeva ai suoi vecchi Iddii gaelici, i quali giocondarono la sua
giovinezza e irradiarono il suo spirito. Con le fate verdi del bosco è
rifatto anche egli, come il giovane e bello Cathas, verde creatura
della foresta.
Sulla tomba si legge una epigrafe che tradotta in
italiano dice: “Alla memoria di Guglielmo Sharp nato il 12
settembre 1855, morto il 12 dicembre 1905. Fiona Macleod (che è il
pseudo nome del poeta), e i seguenti versi che, tradotti in
italiano, dicono: “Addio dunque al noto
e finito
Benvenuto all’ignoto e inesplorato.
Amore è molto più
grande che non pensiamo,
e
morte è la custode d’incogniti ricatti.” “Il castello, chiamiamolo anche noi così, sembra una rustica villa
regale, corcata fra i fiori e il verde del giardino e l’ombra
invadente dei tigli e dei salici, che adornano l’atrio e i viali.
La
mente, risalendo coi secoli, ricorda or con pietà, or con orrore la
vita dei primi monaci abitatori, le vicende tempestose […] le
congiure, e le glorie dei figli del grande patriarca San Benedetto. Vi
regna ancora un religioso silenzio, interrotto solo dallo abbaiare e
uggiolare dei cani, o da voci imperiose e sommesse.
Quella chiesa
muta, raccolta, piena di ombre e di misteri; quelle mura, che natura
riveste di eterno verde, infondono nell’anima qualche cosa di poetico,
di solenne, di austero che lasciano nel visitatore un senso di
nostalgia.
Oh potessi dormire laggiù l’ultimo sonno fra la tenebra
sacra delle arcate bizantine del tempio e il pio bisbigliare delle
preci domenicali; fra lo scrosciare delle tempeste, il sussurrare del
paterno Simeto, il frusciare dei platani alti e il cantare degli
uccelli!”(6)
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