Lo spiego subito. Il mero e misto impero era un jus complessivo, cioè si riferiva alle competizioni civili ed amministrative, ma aveva competenza anche sulle vertenze penali, che erano le più importanti, poichè, secondo il reato, c'erano pene variabili quali l'amputazione di arti, il braccio, per esempio, che riguardava il furto, le orecchie, il naso; culminava nel jus necis, cioè la condanna a morte. Questo sommo diritto esercitava il Re, il quale ne era geloso, e lo trasferiva raramente alle autorità feudali del tempo. Ci riferiamo alla dominazione Aragonese, successa a quella Angioina in Sicilia dopo i vespri. Re Federico II, aragonese, era stato ottimo monarca. Egli mori il 25 Giugno 1337 presso Paternò, ed è sepolto nella cattedrale di Catania. Regnò per circa 40 anni, e lasciò buona memoria. Istituì erede del trono di Sicilia il primogenito Pietro; il secondo, Guglielmo, creò duca di Atene e di Neopatra, il terzo, Giovanni, ancora in minore età, fece marchese di Randazzo, titolo nuovo, che era superiore a quello di duca, di barone, di conte. Al figlio, neo marchese, naturalmente per prestigio, assegnò il diritto del mero e misto impero, su Bronte, allora piccolo e modesto casale, su Maniace, Castiglione, Francavilla, Montalbano e Troina. Per Bronte fu estrema iattura, poichè cessò il marchesato colla estinzione degli Aragonesi, anzi colla sostituzione di altre dominazioni straniere, ma il jus rimase e si perpetuò a favore dei Randazzesi, per parecchi secoli, con accento dispotico. Gli ufficiali di Randazzo che erano, diciamo così, di schiatta nobile, trattavano i poveri abitatori dei casali, che in prevalenza erano lavoratori della terra, come schiavi. Mossi da ingorda speculazione proibivano di esportare nei comuni e città vicine il frumento prodotto, obbligandoli a venderlo localmente o a Randazzo a prezzo basso e ciò quando, con violenza non lo pigliavano, senza pagarlo affatto. Violando privilegi, quali quelli che aveva l'Abbazia di Maniace, facevano imprigionare e condannare abusivamente i naturali ed i vassalli. Bronte intanto, dopo la riunione dei casali, avvenuta verso il 1535, aveva assunto maggiore importanza, e mal tollerava gli abusi dei Randazzesi, che le facevano da padroni assoluti. I sindaci del tempo reclamavano contro le vessazioni, che era costretta subire la popolazione da loro amministrata. Oltremodo commovente è una assemblea popolare tenuta il 3 settembre 1595, a suon di campana, nella pubblica piazza, cioè nei pressi della Matrice, con l'intervento di 105 capi di famiglia. La detta assemblea deliberava di chiedere alla città di Randazzo la prova documentata, legale, di questa sua signoria su Bronte, e le si accordava dodici giorni di tempo. Furono nominati, seduta stante, cinque rappresentanti, con ampia facoltà di far ricorsi, ed occorrendo, la lite contro Randazzo. Volontariamente, per li spisi, si assoggettavano ad una nuova imposta. Al numero successivo la storia susseguente e l'epilogo tragico di questa triste vicenda paesana. [Bigi] (Il Ciclope - Anno IV, n. 2, Domenica 16 Gennaio 1949)
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Come abbiamo scritto, dopo l'adunanza popolare del 3 Settembre 1595, gli eletti: Notar Santoro Pascia, Cosimo di Pace e don Bastiano Longhitano, trascorsi i dodici giorni perentori, perchè Randazzo dimostrasse il suo diritto su Bronte, iniziarono la lite davanti la cosiddetta Gran Corte. Il libellus pro iuratis terrae Brontis fu presentato il 15 Maggio 1596. Ma mentre il giudizio per la libertà della terra si trascinava, e ai brontesi costava non meno di onze centottanta all’anno, ricavate dalla nuova imposta di tarì tre per ogni salma di frumento macinato, avvenne qualche cosa che può sembrare strana cioè: un intrallazzo regio. Proprio Re Filippo IV di Spagna, sotto il cui dominio trovavasi la Sicilia, stretto dal bisogno, per la guerra che faceva contro la Francia, nel 1629 ordinava vendersi tutti i beni del Real Patrimonio e i di ritti di spettanza regia, tra i quali era compresa la giurisdizione civile e criminale, cioè il così detto mero e misto impero. Randazzo, che sapeva di non potere sostenere il suo diritto di dominio su Bronte, il quale quando fu concesso dal Re Aragonese, era ad personam, cioè al suo figliolo Giovanni creato marchese di Randazzo, si affrettò, per consolidare il suo dominio, ad offrire seimila scudi che non aveva, e pertanto chiese di soggiogare il patrimonio del comune alla fabbriceria della parrocchia di S. Maria, il che non le fu permesso da certe bolle apostoliche. Questa somma però ebbe lo stesso, da certo Giuseppe Romeo, ed il mero misto impero fu consolidato, ed il minuscolo comune di Bronte continuò il suo servaggio. Ma... Bronte aveva un altro padrone: l'ospedale grande e nuovo di Palermo, successo alla abbazia di Maniace. I Rettori, che vedevano sfuggire l'occasione di consolidare il loro dominio offrirono al Re, che vendeva all'incanto, quattordici mila scudi. Il vicerè si riservò di provvedere sulla novella offerta. Naturalmente si oppose Randazzo ed i suoi ufficiali, più forti ed arroganti, continuarono nell'esercizio delle angherie. Queste le condizioni della popolazione di Bronte, ed appunto, essendosi resa difficile e pericolosa la dimora, parecchi emigrarono. E siamo al 1616. Fu questa, annata di grave carestia e grande era il disagio dei Brontesi, per cui più di una supplica fu diretta al vicerè Moncada, che risiedeva a Messina, per i provvedimenti del caso. Questi mandò a Bronte un tale Andrea Di Gregorio, il quale vi giunse il 6 Aprile col seguito degli ufficiali di Randazzo. La presenza di costoro, anzi le loro maniere arroganti, inasprirono il popolo. Capitano d'armi di Bronte era Matteo Pace, il quale, senza dubbio, come si dice, doveva avere del fegato. Non tollerò l'arroganza randazzese, rispose per le rime, e non ci pensò due volte a ricorrere ai fatti. E furono botte da orbi. Certo si è che gli ufficiali randazzesi, vistisi a mal partito, insaccarono e scapparono, per evitare la peggio.
Il nostro Matteo Pace, preso dall’entusiasmo, messosi a cavallo, corse il paese, incitando il popolo a sollevarsi, gridando: vadano via i cattivi governatori, viva il Re di Francia. Non si dimentichi, che, in quel tempo Spagna e Francia erano in guerra, quindi il grido di Matteo era aperta acquiescenza al nemico del nostro dominatore spagnolo. E mal gliene venne. Ristabilitasi la calma, la Corte dichiarava il paese di Bronte reo di lesa maestà. Molti furono, gli arrestati e tradotti a Messina per il giudizio. Il Capitano d'armi di Bronte, cioè Matteo Pace, per ragione della carica che occupava fu condannato ad avere troncata la testa; un altro, Luigi Terranova alla forca. Molti ebbero condanne a tempo più o meno, lungo. Questo l'epilogo della triste vicenda paesana. Diremo in seguito quando e come cessò il dominio assoluto di Randazzo.
Io credo, che si potrebbe ricordare l'epilogo, o meglio onorare la memoria di questo nostro modesto Caracciolo che lasciò la testa sul patibolo per la libertà di Bronte, dando il suo nome ad una delle tante nuove strade, che si aprono per l'espandersi dell'abitato. [Bigi] (Il Ciclope - Anno IV, n. 3 Domenica 30 Gennaio 1949)
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Le condizioni del piccolo comune di Bronte alla dipendenza degli ufficiali di Randazzo, dopo la insurrezione del sei aprile 1636 e la condanna capitale del capitano d'armi Matteo Pace, non erano certamente migliorate. Anzi… il paese era sotto la grave imputazione di lesa maestà. Erano state confiscate tutte le armi e tradotte a Randazzo, e si viveva una vita abbastanza grama, specialmente sotto l'imperversare della carestia ed il dominio randazzese che era divenuto insopportabile, per la riconferma ottenuta, dopo il pagamento dei seimila scudi. Ricordiamo, intanto, che il vicerè Moncada erasi riservato di provvedere, in seguito alla offerta più vantaggiosa, fatta dallo Ospedale Grande e Nuovo di Palermo. Di conseguenza l'asta, chiamiamola così, praticamente non aveva avuto una chiusura definitiva. Intanto i bisogni di re Filippo per la guerra contro la Francia aumentavano, e verso la fine del ’36 fu ordinato di rivendere all'incanto le prerogative regie.
I brontesi accolsero con animo aperto alla speranza la fausta occasione per liberarsi dalle continue vessazioni. Quindi nuova assemblea popolare, e pubblico consiglio, per prendere a mutuo quindici mila scudi, da offrire al governo per la compra del mero misto impero e per ottenere la grazia del tumulto del sei aprile. Ma nessuno in Bronte era nelle condizioni di sborsare questa somma, nè fuori, per le mene dei pii rettori dello Ospedale, si trovò credito. Bronte di conseguenza fu costretto dalla necessità, di ricorrere all'ospedale, sperando così maggior sollievo ai suoi mali. E siccome volle contribuire per la metà, novemila scudi li trovò in prestito, al tenue interesse del nove per cento, presso tale Marco Antonio Paganetti, che altro non era, se non il prestanome dell'ospedale, che in realtà metteva a disposizione la somma richiesta. Ed il mero misto impero fu comprato, in società s'intende coi pii rettori, ai quali era riservata la nomina definitiva dei giurati, giudice e capitano su d'una lista che producevano annualmente i brontesi. Questo fu l’unico vantaggio acquisito; fu escluso il dominio randazzese, ma non si ebbe l'indipendenza assoluta, poichè rimase sempre l'intervento assoluto dello ospedale, che non era affatto piacevole, e che durò ancora per parecchi secoli. Per concludere, questo servaggio lo voleva confermato il duca di Bronte nel 1802, quando si ebbe dal re Borbone il grazioso donativo del territorio brontese. Vi si oppose il Sindaco di allora: Nicolò Dinaro. Il Prof. Benedetto Radice, sulla cui opera abbiamo attinto nomi e date, chiude questo mirabile capitolo di storia brontese esclamando: «Nè cogli Ufficiali di Randazzo, nè coi Rettori dell'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, nè col Duca Nelson, Bronte ha avuto mai pace». (Il Ciclope - Anno IV, n. 4 Domenica 15 Febbraio 1949)
Il Casino dei Civili Colore paesano Erano altri tempi, quelli! Il Casino dei civili non vi era, o, se c'era, non aveva soppiantato vecchi ritrovi, e la sera la farmacia Cannata costituiva ancora il centro della vita politica e del pettegolezzo cittadino. Il farmacista, buona pasta d'uomo e ridanciano distribuiva pasticche alla menta e foglietti ai suoi clienti abituali. Nel pomeriggio inoltrato attivava puntualmente Don Arcangelo Spedalieri e, dopo aver dato una occhiata di santa venerazione ai ritratti dei suoi due illustri antenati, ch'erano esposti in vetrina assieme alle pomate medicamentose e ai cerotti, s'accomodava a fumare il suo mezzo toscano. Man mano il crocchio si formava: veniva il notaro Cimbali, qualcuno dei Mustafà, Don Nunzio Possia; il personaggio più caratteristico, don Nunzio Calanna, arrivava sempre per ultimo; faceva la sua prima tappa dal caffettiere e poi, bighellonando, se ne veniva alla farmacia.
«Benedicite, signuri mei!» e si
accomodava offrendo a tutti una
manciata di ceci abbrustoliti, dicendo a ciascuno la sua, sputacchiando di quà e di là. Faceva il patrocinatore legale a tempo perso, e faceva pure la spesa della comitiva. Erano i tempi in cui le elezioni comunali costituivano, assieme alle beghe paesane, l'argomento del giorno. Questo era il circolo dei vecchi, dei ben pensanti; i giovani, giovani di 20 e di 30 anni, si riunivano invece nella farmacia Zappia, e le storielle di amori salaci o di espedienti ingegnosi, erano ammannite con saggia moderazione da don Cataldo Fortino, loro decano, grande amatore del ventre e di altre cose. Il Casino dei civili accolse più tardi, con le mutate esigenze, un maggiore numero di ospiti, e nell'ambiente più vasto i pettegolezzi e le punzecchiature si stemperavano in interminabili partite alla briscola o a tre sette. Don Peppino Ciraldo tra un moccolo e l'altro perdeva la sua pazienza ed il suo compagno di partita s'accaniva ancora do più, «’u zio Pio» dopo essersi abbondantemente insalivate le dita distribuiva le carte ammiccando furbescamente. E noi giovani apprendemmo le prime regole di chitarrella da don Luigi Cimbali. «In dupis cupis» sentenziava don Lorenzo, ma se ne andava lo stesso in bestia, e gli «scracchi» di don Luigi Radice, che ricoprivano una mattonella e mezza, erano la disperazione del povero inserviente che ci sudava sopra sette camicie a lavarle. Prima di sera, col bastone a bilanc’arm arrivava il dottor Interdonato, lunghi passi, grossa pipa, le sue attività andavano dal regolare la radio, ad aggiustare l'orologio, a ricaricare la pipa.
Altri tempi... Poi la vita prese un ritmo sempre più vertiginoso: venne il giorno in cui il Casino fu venduto per una lira, vennero le bombe, scomparve il Casino
(a destra in una foto del 1945,
NdR), scomparvero pure i tacchini di don Bastianello, che goglottavano lassù dal balconcino dell'ultimo piano. Oggi, quelle comitive, quei crocchi, così come li si intendevano prima, sono scomparsi o si sono talmente allargati da confondersi. Qualcuno ne sopravvive ancora, ma non ha più le vecchie caratteristiche.
Ve n'è uno, ad esempio; in piazza. Rosario, in cui ogni sera i «Bindozzo» aggiustano il mondo e la sera dopo lo disfanno. Ve n'è un altro… ma questo funziona soltanto ventiquattrore la settimana: dalla sera del sabato a quella della domenica. Io credo che la sera del sabato, di ritorno da Catania, il dottor Pecorino, prima ancora di andare a casa, vada nel negozio di don Filippo Scagghitta, e così si apre il circolo. La sua attività più intensa la raggiunge, però, nel pomeriggio della domenica. Seduti su i due banconi, passano in rassegna gli avvenimenti della settimana: il dottor Pecorino sfotte, don Filippo brontola, il prof. Battiato declama, Renato critica e il pomeriggio passa. Poi viene la sera e si va a pigliare il fresco allo Scialandro. Un’altra giornata è passata. [Alma] [Il Ciclope, Numero unico, Domenica 3 Agosto 1947, Direttore Giuseppe Bonina] |