Un’analisi lucida, intelligente, straordinariamente penetrante, che non era bastata ad assolver quegli uomini ma che costituirà un punto irrinunciabile della lettura dei fatti diventando una interlocuzione fondamentale nel processo di acquisizione dell’identità civile e storica della comunità di Bronte. Benedetto Radice, che lo conosce e lo gratifica di una citazione, da lì trarrà i criteri fondamentali per l’impianto complessivo della sua opera. Nonostante dei testimoni oculari della strage il Radice sia il meno attendibile, per la giovanissima età e per il tempo trascorso prima della stesura, il suo racconto appare tuttavia il più ricco di informazioni e il più credibile nel dettaglio dei particolari, per la profondità della ricerca e per lo scrupolo della verifica; così, tutte le volte che si accertano discrepanze con i racconti degli altri testimoni, l’ora degli omicidi per dirne una, tendiamo ad accogliere come più convincente e documentata la sua versione. Il quadro caravaggesco che prende colore nella narrazione dei fatti punta sul fuoco della contesa irrisolta tra il Comune e la Ducea, dei diritti promiscui non sciolti, delle terre demaniali contese, delle lacerazioni nel tessuto politico della città, con i due partiti barricati su antagonismi irriducibili. Al Radice non sfugge l’importanza dell’elemento personale nel crescere parossistico della tragedia; ma questo non viene abbandonato a se stesso o, peggio, liquidato nella riserva del giudizio morale: tutta la ricostruzione della storia secolare, dell’esito frustrante del moto del ‘48, della dinamica tamburellante di quei giorni garibaldini scolpisce l’ambiente psicologico entro cui si muovono i personaggi. L’ansia pavida dei civili, il nervoso farsi liberali dei ducali, il batticuore alterno tra la speranza e la delusione dei comunisti: un pathos drammatico, nel quale anche il lettore sprofonda, che non è finzione letteraria ma terribile eco di morte della storia che cammina verso l’abisso. La rappresentazione che il Radice mette in scena ha però un protagonista indiscusso, il popolo di Bronte, l’eroe tragico che consuma fino in fondo il destino che non ha scelto e che gli tocca portare sino al compimento inevitabile, assumendo la barbarie, la riprovazione e la condanna: “la plebe non vedeva solo nel Garibaldi il liberatore della tirannide borbonica, ma il liberatore della più pura tirannide, la miseria [...] per sentenza di iniqui giudici aveva sofferto di fresco la perdita degli antichi usi civici [...] aveva in odio gli uomini del Comune e della Ducea, e non avendo più fede nel tribunali, credeva poter fare giustizia da sé, profittando dello scompiglio che naturalmente portava seco la rivoluzione politica”. E così “la libertà proruppe come vendetta [e] l’ira cumulata di tante generazioni” rompeva gli argini e precipitava nella sua voragine. L’economia diventa la chiave d’interpretazione del fatto particolare; ma l’opzione del Radice non è specifica e assume la consistenza del criterio generale degli eventi umani. Perciò egli cita il Machiavelli delle Deche di Tito Livio: “ ... le cose che hanno in sé l’utilità, quando l’uomo ne è privo, non le dimentica mai, ed ogni minima necessità te ne fa ricordare e perché le necessità vengono ogni giorno, tu te ne ricordi ogni giorno”. Perciò a Bronte la rivoluzione non poteva non esprimersi che nel linguaggio del bisogno, e per il popolo dello sventurato paese” ... tutto l’ideale ... si concretava nella bramata divisione”. La comprensione e la solidarietà per il suo popolo non impediscono, però, l’ottica moderata del vecchio gentiluomo dei primi del Novecento e il giudizio sospettoso nei confronti delle masse rivoluzionarie e delle loro capacità politiche: “Le idee di libertà giungono alla conoscenza delle plebi travisate in licenza, ed attutendosi nel petto i sentimenti di umanità, si svegliano in essa gli antichi istinti di belva, e dalla malvagità della natura e dal ricordo delle offese i più sono spinti agli atti più crudeli e più feroci: allora viene a galla tutta la feccia plebea, bramosa di saccheggi e di rapine”. Perciò il moto era destinato a fallire: “ciò che non si può ottenere in tempi ordinari e per via di leggi, si è soliti tentar di ottenere colla violenza nelle rivoluzioni, credendo come spesso accade, che queste sanzionino e ratifichino il fatto compiuto”; e i contadini di Bronte, condotti dalla loro storia a quella condizione selvaggia e brutale, fanno quasi tenerezza nell’ineluttabilità del loro precipitare senza speranza. La musicalità incalzante, wagneriana, che accompagna il racconto dell’ebbrezza orgiastica del massacro si rompe nell’angosciante crescendo dei notturni che segnano l’arrivo dei garibaldini in città. L’atmosfera, cupa di lutto e di terrore, gela con l’improvvisa coscienza dell’orrore e si riempie dell’attesa per il terribile castigo che incombe. Il dramma rotola verso la scena conclusiva; anche questa già scritta nella logica stringente dell’evento. Di Bixio, Radice ha un’opinione ambigua, incapace di rinunziare all’aureola eroica risorgimentale eppure critica dell’agire frettoloso e del carattere burrascoso dell’uomo. Quando scrive, il luogotenente di Garibaldi è già morto da tempo e la storiografia si è fatta ormai un’idea della sua azione; Radice la conosce, come conosce il giudizio del suo agire a Bronte che veniva non solo dai tanti confusi storici della campagna garibaldina ma anche dalle arringhe e dalle discussioni che s’erano fatte in tribunale, al momento del giudizio di quei tragici fatti. Non si accontentò; e cercò testimonianze e conferme del suo agire, sperando di trovare, nei suoi occhi, una lacrima di compassione e di pentimento che assolvesse tutti, gli sventurati fucilati di San Vito e il generale eroe dei Mille, cui una maledetta missione aveva imposto un ruolo comprimario di quella tragedia. Sciascia lodò comunque la sua presa di distanza dal Generale. A Nicola Lombardo il Radice (a destra in un disegno di M. Schilirò) dedica la commozione più grande, svestendo una delle poche volte l’abito rigoroso dello storico e assumendo la parte del cittadino. Non mancano nel libro le riserve sul suo agire, sulle ambizioni dell’uomo, sulla dappocaggine politica del fidarsi della folla; e infatti lo scrittore pensa che l’avvocato meritasse un processo ragionato e sereno. Tuttavia Radice sentì a fondo la tragedia che si muoveva nel personaggio, la sua consapevolezza dell’ingiuria storica che feriva quel territorio, la carica utopica di liberazione e modernizzazione di quella gente disgraziata: comunque lo si volesse considerare, con le sue debolezze e le sue ambiguità, il Lombardo era un padre della comunità, che aveva visto la meta del cammino civile di Bronte e aveva pagato, con il sacrificio della vita, il non esserci saputo arrivare e il non aver saputo tenere per mano quella massa di disperati che a lui aveva consegnato le redini del proprio destino. “Giunto a questo punto, conviene che, io da narratore e da giudicatore imparziale, deplori come scrittori borbonici e liberali abbiano in parte alterata la verità dei fatti”: alla fine della splendida ricostruzione storica, anche Benedetto Radice deve confrontarsi col bisogno comunitario di riabilitarsi e liberarsi dalle calunnie. La sua prospettiva spazia ormai su una larga letteratura pubblicistica e storica, che da decenni infama il nome della città nel pubblico dei lettori italiani e in quello degli studiosi europei del Risorgimento italiano. Gli storici di nostalgia borbonica Buttà e De Sivo, quelli filogaribaldini Abba e Guerzoni; ma anche La Cecilia, Busetto, Lazzaroni, Pecorini Manzoni: per la prima volta l’auto coscienza di Bronte si confrontava con questi giudizi e cercava di definirsi reagendo ad essi. Il vecchio professore dà voce alla ponderata indignazione del sentimento brontese più maturo, dinanzi alle calunniose fantasie di bambini squartati, monache violentate, seni recisi: “ ... è ingeneroso studiarsi di mostrare più reo che sia un popolo ignorante, trascinato al delitto per causa e colpe non sue e per il fatale andare di umani avvenimenti, compiacendosi di narrare i fatti dietro fantastici racconti ... sapendo che lo squartare vecchi e bambini, il violare e uccidere donne, dilaniandone le carni, sono delitti atrocissimi che rivelano in chi li commette non l’ira d’un nemico per quanto furibondo, ma una ferocia e una crudeltà bestiale propria dei più selvaggi cannibali”. Non bestie dunque, ma vittime di un meccanismo diabolico che si era nei secoli ingarbugliato a Bronte, trascinando nella colpa una generazione disgraziata su cui s’era scaricato il filo insopportabile di mille ingiustizie, nel momento in cui la tensione arrivava al limite e spezzava tutte le resistenze. La comunità di Bronte trovava così l’immagine più compiuta e matura della sua identità. Priva di un passato aristocratico in cui specchiarsi e di un primitivo progetto civile nel cui sviluppo riconoscersi, Bronte recuperava il suo senso di appartenenza nella sofferenza secolare dei mille abusi che si erano su di essa consumati. Abusi portati da fuori, ripetuti a ogni pagina da feudatari sempre più lontani e ottusi, che avevano dilaniato le carni della città, condannandola ad una miseria senza fine e alla frattura della sua debole società, forzata a sbranarsi per sopravvivere degli avanzi. Una comune condanna all’abiezione che legava tutti i cittadini, i cappeddi meschini e i contadini assassini; e che alla fine si nobilitava e purificava nella sofferenza della tragedia, che aveva messo in fila tutti, i civili e il popolo, a piangere il lutto dei morti di ciascuno e a interrogarsi su come voltar pagina e ricominciare a vivere insieme. La vergogna del 1860, elaborata la macchia e messa sullo sfondo la storia lunga di soprusi e vessazioni che l’avevano determinata, poteva diventare così il battesimo civile della comunità di Bronte, che risorgeva da quelle ceneri e si avviava a percorrere il faticoso cammino chiesto alle società che entravano nel nuovo secolo e nelle sfide difficili della modernità. (Vincenzo Pappalardo, L’identità e la macchia, Il battesimo della coscienza civile a Bronte nel dibattito sulla strage del 1860, Maimone Editore, Catania, 2009, pagg. 63-64, edizione fuori commercio)
Leonardo Sciascia
Quel bagno di sangue per un pezzo di sciara |