Ecco sfilare dinnanzi ai nostri occhi, abilmente tracciate da Radice, i falsi profeti dell’unità nazionale dinnanzi ai quali, è scritto nella dedica, caddero le aspirazioni della Sicilia e delle popolazioni meridionali a divenire e a sentirsi italiane. Quali le cause di questo fallimento? Prima di tutto gli uomini: Cavour affermava in pieno parlamento subalpino «non solo di aver fino allora creduto che in Sicilia si parlasse arabo ma che di quest’isola ben poco egli conosceva, essendogli invece più familiare la storia dell’Inghilterra». Vere o false che fossero le dichiarazioni del ministro piemontese, esse rivelavano una ben precisa realtà e cioè che nelle intenzioni e nei propositi suoi non trovava posto la constatazione che la Sicilia disponesse di un proprio processo storico di tutto rispetto. «Il Cavour piemontese apparteneva alla ricca classe terriera e nobiliare, della quale egli in fondo condivideva pensieri e umori. Per tali motivi la sua mente era ben lontana dalla ipotesi di rivolgimenti e di avanzamenti sociali apportatori di capovolgimenti di vita in una regione come la Sicilia, e tale sua convinzione alimentava in misura esasperata la diffidenza verso i propugnatori di cambiamenti di natura sociale che da tempo erano invece desiderati dai siciliani». Vittorio Emanuele II colui che senza meriti personali ebbe la sorte di trovarsi in breve tempo dopo i plebisciti dell’ottobre 1860 padrone di un altro buon terzo d’Italia, colui che non stava né con Cavour, né con Garibaldi, ma solo con se stesso, con le sue ambizioni e cogli esclusivi interessi dinastici che non coincidevano con quelli nazionali e patriottici. Garibaldi: scrive Radice: «senza con ciò volere essere irriverenti dobbiamo dire che egli, combattente intrepido e coraggioso nel corso di infinite battaglie militari, ebbe un comportamento irresoluto e di grande remissibilità invece nell’ambito civile e amministrativo della Sicilia... Coi suoi decreti e in particolare con quello del 2 giugno 1860 aveva suscitato fra la gente contadina l’attesa e la fiducia che a molte cose si potesse finalmente porre rimedio... Con questo decreto la questione contadina era stata toccata con indubbia evidenza e qualcosa pur significavano gli ordini dati da Garibaldi di dividere a pro dei lavoratori dei campi i demani comunali e, ove questi non fossero bastati, anche quelli dello Stato... Non gli doveva essere sfuggita la particolare attesa dei contadini.. Ma poi la delusione!» E mi si consenta a questo punto di dire che non solo mi sento in perfetta sintonia con Radice ma che addirittura ho avuto già modo di esprimere analoghe idee sul problema in un mio lavoro apparso a Roma, per i tipi dell’editore Borla nel 1993. I radicali in fondo si appiattirono su quello che Radice chiama in modo opportuno l’errore di Cavour di voler subito che i Siciliani «si sentissero piemontesi ancor prima di essere divenuti italiani» (p. 39). E non solo: Radice insiste, e ne ha ragione, sul quadro negativo dei rapporti che venivano a crearsi fra Piemonte, Cavour e il sud d’Italia, e nei quali si trovavano tutte le premesse per un’unità tradita e per uno scollamento mai più ricomponibile della penisola italiana; un quadro che veniva reso più negativo dalla rozzezza di taluni funzionari piemontesi quali il luogotenente Govone a giudizio del quale “la Sicilia non era ancora uscita dal ciclo che di solito percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”... Non mancarono i piemontesi illuminati come Diomede Pantaleoni, amico del Cavour, inviato nel corso dei primi mesi del 1861 in Sicilia per un’indagine conoscitiva sulle condizioni dell’isola da poco unita all’Italia, il quale osservava: “che la sola cosa che aveva rimarcato fra le popolazioni siciliane era un certo rispetto della loro dignità, del loro carattere, un orgoglio in tutti dell’essere ‘siciliani’, sentimento che ognuno mostrava di coprire sotto una generosa natura”, osservazione in perfetta sintonia con la stampa isolana che in data 5 marzo 1861 così riferiva il disagio dei siciliani: “Ci è doloroso il vederci piemontizzare, il vederci riguardati come pecore conquistate e comprate, quando abbiamo il convincimento della nostra gloria”. A costoro tuttavia non si dette peso come non si colse il senso di quella civile sicilianità che si compendiava nel lamento con cui un vecchio salutava i garibaldini: “Ben facete a venirci a consolare, perché gli è da quando siamo nati che noi piangiamo”. Ed ecco Bronte: il legame forte tra il Risorgimento e una delle pagine più dolorose della nostra piccola storia di Brontesi. Ma che non appartiene soltanto a Bronte. G. Giarrizzo ha recentemente ribadito quanto Gramsci aveva rimproverato al Partito d’Azione (lo abbiamo già visto) e ha rilevato che a Bronte si era consumata una grande tragedia nazionale, nel senso che si suggellava la vittoria dei moderati nel Risorgimento: «Fu il dramma di una parte della sinistra impegnata a decidere in Sicilia il nodo dell’egemonia politica del nuovo stato, ovvero se dovesse essere governato dalla sinistra o dalla destra. Bixio a Bronte reprime i suoi stessi compagni: l’avvocato Lombardo era dalla parte di Bixio». E nel 1910 un grande brontese, Benedetto Radice, pubblicava nell’Archivio Storico per la Sicilia Orientale la sua monografia su Nino Bixio a Bronte, una ricostruzione minuziosa di quei lontani avvenimenti, di grande efficacia descrittiva, sorretta da fortissima passione, che non è partigianeria, ma bisogno di esprimere razionalmente l’indignazione civile. Scrivendo questo saggio il Radice levava la sua voce solitaria per ricordare che, se il processo storico del Risorgimento era una conquista indiscutibile, si doveva però avere il coraggio di guardare dietro le apparenze; nulla infatti giustificava le violazioni del diritto commesse in nome del fine superiore dell’Unità d’Italia. A distanza di parecchi anni un altro brontese, Antonino Radice ritorna su quei temi con la razionalità dello storico ma col cuore del brontese. Leggo integralmente: “Contro i diritti primari della gente siciliana Garibaldi scelse quelli impropri dei cittadini inglesi, che furono anteposti così alle genti della zona etnea. I contadini non sono mai stati sotto ogni latitudine degli idealisti e se lo sono stati, ciò è avvenuto quando il loro idealismo si è accompagnato con qualcosa di corposo e di realistico, legato a interessi precisi e remuneranti... e il padre Carmelo, uno dei personaggi delle “Noterelle di uno dei mille” dell’Abba che non vuole andare dietro Garibaldi: “verrei se sapessi che fate qualcosa davvero, ma ho parlato con molti dei vostri, e non hanno saputo dire altro che volete unire l’Italia”. A lui l’unità interessava ben poco e altrettanto una guerra contro i Borboni: “Tutti vorrebbero invece una guerra degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli, che non stanno soltanto a corte, ma in città, nelle campagne”. E nei conventi?, insinua l’Abba. Risponde il frate: “Anche contro di noi, anzi prima che contro ogni altro! Ma col Vangelo in mano e con la Croce. Allora verrei...” Il sogno dei Siciliani era che quello sbarco di Garibaldi più che dell’unità politica d’Italia fosse portatore della libertà sociale della Sicilia. Il sogno dei brontesi andava oltre: il popolo di Bronte intendeva riappropriarsi di beni dei quali era stato defraudato nel Medioevo, nel 1491, ad opera dell’Ospedale grande e nuovo di Palermo, nell’età contemporanea per effetto della disgraziata cessione borbonica all’ammiraglio Nelson. A Bronte: “La plebe, aveva scritto Benedetto Radice, non vedeva in Garibaldi solo il liberatore dalla tirannide borbonica, ma il liberatore della più dura tirannide, la miseria; ed impaziente aspettava che fosse tolta la tassa sul macinato, fatta la divisione del demanio comunale, già ordinata dallo stesso Borbone e novellamente da Garibaldi col decreto del 2 giugno”. Ma ci fu un ritardo complice e colpevole... malumori tra la gente...” Un ritardo provocato, come avverte chiaramente Antonino Radice, dalla presenza inglese nel circuito locale che aveva prodotto poi la conseguenza di una divisione della popolazione del luogo in due schieramenti, il primo denominato ‘comunista’, perché difensore dei diritti e degli interessi della comunità, e il secondo ‘ducale’ il quale agli ordini dei proprietari inglesi della ducea, nonché degli amministratori di questa, raggruppava anche una folta schiera di impiegati minori reclutati fra la gente del luogo. Garibaldi... non sentì per nulla il bisogno di raccogliere una sia pur minima documentazione su quanto di grave in quelle campagne era successo molti anni prima e aveva costituito un serio motivo per la gente di continuo malcontento... «atteggiamento filo-inglese del momento che lo portava a cedere, senza alcuna contropartita alle pressioni dei consoli inglesi di Catania e di Palermo, danneggiando però nel contempo gli interessi della cittadina etnea» (p. 116). E qui ci si consenta di dissentire in parte: Garibaldi aveva avuto una contropartita, senza la quale forse l’impresa dei Mille non avrebbe potuto avere successo. Le sue azioni non furono frutto del caso, così come frutto del caso non fu l’operazione portata avanti con ferocia a Bronte da Bixio: le fucilazioni da lui volute davano infatti ampia soddisfazione alla nazione britannica i cui interessi sulla Ducea erano stati minacciati dall’ondata rivoluzionaria, né sfuggiva, crediamo, al generale, che un’operazione del genere sacrificava certamente la giustizia ma rispondeva pienamente alle necessità della politica e alle dure leggi della guerra. Non va infatti dimenticato che gran parte dell’Europa guardava con ostilità all’impresa dei Mille; solo l’Inghilterra non era ostile, e per chiari calcoli politici: aveva interesse a che si formasse uno Stato italiano da contrapporre alla Francia. E c’é di più: l’esito favorevole dell’impresa dei Mille, con l’annessione alla nuova formazione politica del Regno delle Due Sicilie, dava corpo ad uno Stato unitario enormemente articolato nella zona costiera e, per ciò, inevitabilmente destinato a soggiacere alla preponderanza navale britannica. In buona sostanza, è stato già in modo opportuno sottolineato che “l’intervento di Garibaldi in Sicilia... era preordinato ed era finanziato non solo da una raccolta di fondi, che stava avvenendo in Italia, ma soprattutto da una raccolta di fondi che proveniva dall’Inghilterra... Da Londra il 12 maggio si apprende che la raccolta di fondi in Inghilterra ha assunto risvolti talmente importanti da discutersene presso la Camera dei Comuni. Rispondendo ad alcuni membri della Camera il procuratore generale esprime le sue simpatie per i siciliani, spera che le sottoscrizioni aperte a Londra per aiutarli non saranno considerate illegali”. Nessuna meraviglia quindi se alle navi della flotta inglese, ormeggiate nel porto di Marsala, sia stato impartito l’ordine di favorire lo sbarco dei garibaldini, che così si effettuò in modo tranquillo ed incruento. E torniamo al bel libro di Antonino Radice e a Bixio: le cause lontane e vicine che avevano dato vita alla rivolta gli erano rimaste così assolutamente estranee né egli cercò di trovarle. Di certo tali cause, se conosciute, lo avrebbero portato a decisioni meno precipitose e drastiche di quelle che egli prese in quei momenti e nei giorni a seguire, e non mi sento di concordare in pieno questa volta e non mi sento di concordare per quello che lo stesso Radice afferma in altro luogo del suo libro, quando si rifà al diario di Bixio: Bixio scriveva: “Secondo il Presidente del consiglio la causa è la divisione voluta dei beni comunali, la stessa opinione hanno il Delegato e il Presidente del Consiglio Municipale. Secondo il Delegato di Catania, il presidente del Municipio, sig. Nicolò Lombardo sarebbe il capo della rivoluzione comunista”. Le prime testimonianze, raccolte frettolosamente, avevano messo il generale sulla retta via per la comprensione degli avvenimenti: chi conosceva la realtà di Bronte gli aveva spiegato che l’insurrezione era legata alla mancata divisione dei beni comunali... Bixio deve ammettere, in privato, che i fatti di Bronte hanno la dignità e la nobiltà di un problema sociale; e che sono avvenuti in linea con i proclami di Garibaldi. Se l’insurrezione è esplosa, ciò è avvenuto perché qui si era tardato ad applicare i provvedimenti emanati dal Dittatore. Lo lascerà capire lui stesso in un proclama del 22 agosto indirizzato agli abitanti della provincia di Catania. Annunciando che “gli assassini e i ladri di Bronte sono stati severamente puniti” esorta le autorità affinché “dicano che il governo si occupa di apposite leggi e di opportuni legali giudizi per il reintegro dei demani”. ... Ma quella rivoluzione comunista mirava ai possedimenti inglesi della Ducea di Nelson... e ciò non era compatibile con i precisi ordini di Garibaldi, e non solo: arrivavano le notizie delle insurrezioni di Nicosia, Resuttano, Caronia, Alcara Li Fusi, Mistretta. La situazione era esplosiva anche a Linguaglossa, Castiglione di Sicilia, Adrano, Randazzo, e Centuripe. Si dovevano soffocare le aspirazioni dei Brontesi perché si doveva dare un chiaro segnale. Si trattava di un’operazione vile e chiaramente fuori dai principi della giustizia, ma serviva, almeno così si pensava, alla causa e sarebbero venute menti illuminate a giustificarla. E infatti la mistificazione iniziò subito: Leggiamo da Abba e dalle sue Noterelle...: “Case incendiate coi padroni dentro, gente sgozzata per le vie; nei seminari i giovanetti trucidati a pie’ del vecchio rettore; uno dell’orda è là che lacera coi denti il senno di una fanciulla uccisa”... naturale l’orrore e naturale la punizione: “Fra gli esecutori della sentenza v’erano dei giovani dolci e gentili, medici, artisti in camicia rossa. Che dolore! Bixio assisteva cogli occhi pieni di lacrime”. Abba ha costruito la contrapposizione tra i nemici dell’umanità, con a capo l’avv. Lombardo, e gli spiriti belli i quali, animati dall’altissimo e nobilissimo ideale dell’Unità d’Italia, erano venuti a combattere in Sicilia; e ora avevano il compito di giustiziare i capi di quei mascalzoni sanguinari. Nessun accenno alla Ducea, alla spocchia e all’arroganza dei galantuomini, alla dura lotta di classe e alla sopraffazione subita dai poveri cui aveva accennato padre Carmelo. Sui fatti di Bronte anche Verga, che pure aveva la religione del vero, ha fatto ricorso ad aggiustamenti di prospettiva, aderenti più alla sua ideologia reazionaria che alla realtà. Nel 1882 nella novella Libertà, utilizza l’espediente retorico della purezza giovanile contrapposta alla furia selvaggia. Lo scrittore catanese, monarchico e crispino, descrive con rara maestrìa la folla che massacra i galantuomini ma elimina dalla scena l’avv. Lombardo e il processo. La chiave della mistificazione di Verga è stata vista assai recentemente da Sciascia nel fatto che Verga avesse trasformato lo scemo del paese, Nunzio Ciraldo Fraiunco, in un nano. Al nano la tradizione popolare attribuisce caratteristiche di perfidia e di malvagità, mentre la pazzia è circondata da un alone di sacralità. Un espediente, è già stato rilevato, che mutava il rispetto per la follia nel disprezzo per il difetto fisico. Ci avviamo verso la conclusione e volendo cogliere le motivazioni che sono alla base dei movimenti di Bronte mi si consenta di citare ancora una volta me stesso, in sintonia perfetta con quanto afferma Antonino Radice: io scrivevo a p. 13 della Prefazione al libro Il Real Collegio Capizzi, di Antonio Corsaro: Si trattava a Bronte di esplosioni spontaneistiche, speso slegate tra loro, ma tutte nate dalla rabbia dei contadini i quali vedevano le possibilità di riscattare finalmente le violenze patite contro gli averi e contro le persone. Ha scritto Leonardo Sciascia (Verga e la libertà, in La corda pazza, Milano 1992): «senza dire delle libertà che i galantuomini si concedevano con le ragazze del popolo: e basti considerare che nel 1853 c’erano a Bronte (su circa 10.000 abitanti) 38 balie comunali, nutrici cioé dei bastardi di ruota... E quando i guardaboschi della signora duchessa di Bronte o quelli del Comune sorprendevano qualcuno a far legna, erano guai grossi: un’ammenda pari al valore dell’albero vivo e non della legna, e non meno di un mese di carcere. Si trovano registrate ammende fino a 39 ducati: somma che il bracciante non riusciva a buscare in tutta una vita». «Sotto i colpi dei rivoltosi, prevalentemente carbonai, i soli che possedessero armi, cadono il notaio e la guardia municipale, il cassiere comunale e l’impiegato del catasto e il segretario della Ducea, tutti espressione di un potere che aveva affamato i corpi e immiserito le coscienze... E’ un mondo di frustrazioni che ha trovato il varco per esplodere. Ed è tutto sommato un’esplosione che, pur nella sua logica feroce, ha un suo orgoglio e conserva una sua dignità...: Rosario Leotta, segretario della Ducea, e Giovanni Spedalieri, condannati a morte dalla folla tumultuante e in attesa del supplizio, offrono ad un popolano del denaro per la loro vita. La risposta è carica di fierezza, quella che nasce dalla consapevolezza di stare combattendo per recuperare la dignità vilipesa: “no... voi ci avete succhiato il sangue, voi dovete morire”. Chi “aveva succhiato il sangue” dei poveri non poteva comprarne la pietà col denaro: il popolo non voleva essere ulteriormente avvilito. |