Stando a quanto riferisce l’ex Provinciale e Custode Generale cappuccino, P. Gesualdo De Luca (Storia della città di Bronte, Milano 1884, p. 285), nei libri battesimali della Chiesa Matrice di Bronte sotto la data del 29 settembre 1729 è scritto: Ego Dr. Vincentius Dinaro Syndacus Apostolicus Terrae Sanctae, Capellanus huius S. Majoris Ecclesiae Brontis civitatis sub titulo SS. Trinitatis ex licentia Parochi baptizavi infantem natum ex aromatario D. Modesto Pittalà et D. Rosa Raimondo jugalibus, cui nomen imposui Antoninum, Vincentium, Oratium. Patrini fuere Notarius D. Nuntius Mancani, et D. Francisca uxor Pace. Ortum habuit hodie. Il piccolo Pittalà nacque quindi in Bronte il 29 settembre del 1729 da don Modesto, forse farmacista, il testo del battesimo dice aromatarius, e da donna Rosa Raimondi; furono padrini il notaio don Nunzio Mancani e sua moglie donna Francesca Pace. Da ciò emerge che don Modesto Pittalà apparteneva alla ricca borghesia del luogo. Dopo di questo cenno più nulla nelle carte di Bronte su questo suo figlio. E di ciò giustamente si rammarica il padre De Luca: “intorno alla puerizia, gioventù ed età virile di questo gran Servo di Dio nulla se ne conosce in Bronte, nulla posso narrarne io”(op. cit., p. 285). Preminente e seria appare la mancanza di dati che servano a far luce sul luogo della sua primitiva formazione: avvenne essa in Bronte o altrove? In un recente studio di Enzo Filomena (P. Tommaso Pittalà da Bronte) pubblicato nel 1987 a Martina Franca si ipotizza la possibilità che il Pittalà abbia compiuto il suo noviziato nel Convento dei frati Minori Osservanti di S. Vito dove nel 1736 operavano ben 10 frati. Ma non pare ipotesi convincente. Il convento di S. Vito sembra che sia stato già operante in una data di poco anteriore al 1592 stando alla sovvenzione concessa per la sua costruzione dal viceré, conte di Olivares, sovvenzione resa necessaria per integrare le spese sostenute dai buoni cristiani e dall’Università di Bronte. Nel censimento del 1714 sono presenti 8 monaci e nel 1736, già lo abbiamo detto, 10. Il convento aveva quindi una propria vita, forse anche autonoma dal punto di vista economico, dato che i monaci vivevano prevalentemente di elemosine ma avevano anche altri mezzi di sussistenza: nel 1595 avevano chiesto e ottenuto di potere aprire una “bucceria” (B. Radice, Memorie storiche di Bronte, Adrano 1984, rist. ed. Bronte 1936, p. 296) la quale dovette assicurare un minimo di entrate nel panorama di miseria generalizzata nel quale si dibatteva la comunità brontese, fatta in prevalenza di braccianti agricoli, posti nel gradino più basso della gerarchia sociale, braccianti “puri”, detti così perché non possedevano nemmeno un pezzo di terra e rappresentavano i proletari della campagna. Costoro, senza assistenza di alcun tipo, vivevano con salari di fame, nella miseria più assoluta e si vestivano di stracci. Riuscivano a trovare lavoro solo per una parte dell’anno: durante la semina, la mietitura e la trebbiatura nei terreni cerealicoli e durante la vendemmia, il raccolto del pistacchio e di altri prodotti nelle zone trasformate. Per il resto dell’anno soffrivano la miseria e il degrado più totale. Quando avevano la fortuna di lavorare si spostavano a piedi per 10 chilometri o anche più e pernottavano sui fondi prevalentemente in rozzi dormitori o nelle stalle dopo essersi cibati, e non sempre a sazietà, di pane e cipolla. In siffatto contesto, in un contesto cioè fatto prevalentemente di miseria e di sconfitta, il convento di S. Vito ebbe certamente non pochi meriti nell’opera di irradiazione dell’idea francescana, ma non sembra che si sia distinto anche per opera di irradiazione culturale. Le fonti, che pure parlano delle scuole dell’Abbazia benedettina di Maniace dove i ricchi brontesi già in età medievale inviavano i loro figli a studiare, nulla ci dicono di S. Vito e nulla ci dicono dell’importanza dell’istruzione a Bronte in età moderna. Anzi tutto lascia supporre che del movimento di studi e del fervore culturale che si manifestava nel Settecento anche in Sicilia in Bronte non giungessero nemmeno gli echi più fievoli. Non è un caso che l’alba del nuovo giorno si aprisse ai Brontesi solo nel 1778, il 4 di ottobre, quando Ignazio Capizzi inaugurava il convitto e le scuole del collegio, disegno ardito e luminoso volto a non consentire che gli ingegni dei suoi concittadini intristissero nell’ignoranza e si aprissero piuttosto ad orizzonti meno oscuri. Nel clima culturalmente buio del primo cinquantennio del ‘700 brontese il giovane Pittalà non poteva ricevere se non i primi rudimenti del sapere. Per il resto ignoriamo tutto, sia quando abbia fatto il suo ingresso nell’ordine, sia quando e dove abbia ottenuto il grado di Lettore Giubilato, ossia la Laurea in Sacra Teologia. Per insegnare tale disciplina fu inviato ancora giovane in terra d’Otranto e quindi restituito alla provincia monastica siciliana, dove tuttavia non si fermò a lungo. Certamente sul suo desiderio di trasferirsi nuovamente in terra di Puglia avrà pesato il ricordo degli anni giovanili ivi trascorsi, ma forse anche l’immagine di una realtà culturalmente più viva. E’ un fatto che nel 1777, a 48 anni, dopo avere ottenuto il nulla osta del Provinciale di Sicilia, fu incorporato nella provincia di S. Antonio di Lecce e assegnato al Convento di S. Maria delle Grazie di S. Vito dei Normanni, in terra d’Otranto. E S. Vito costituiva un mondo diverso da quello di Bronte e non perché mancassero in quella comunità di 4000 persone i problemi acuti di ordine sociale ed economico: anch’essa non era stata risparmiata della crisi che aveva investito l’intero regno napoletano e soprattutto la Puglia, né ne agevolava la fioritura il governo feudale locale che, forte dei diritti sanciti dalle antiche consuetudini, imponeva balzelli e pretendeva tributi assai gravosi. In S. Vito sorgeva però un Convento di Domenicani e questo, accanto a quello dei Francescani faceva sì che quella piccola cittadina si segnalasse come il centro propulsore delle dispute dottrinarie circa il senso e l’importanza da attribuire agli scritti di Agostino e di Tommaso d’Aquino. Anche ciò dovette contribuire a spingere il Padre Pittalà a preferire la destinazione pugliese. Non è un caso che di quelle dispute egli fece molte volte parte come relatore, segnalandosi sempre per acutezza di giudizio ma anche per modestia e umiltà di sentire. Non interruppe comunque mai i suoi rapporti con Bronte, oltre alle origini la lontana cittadina etnea conservava anche i suoi affetti più cari: si racconta, anche per dare un esempio delle sue doti straordinarie, di un giorno che fu visto piangere sconfortato; interrogato del perché di quelle lacrime rispose che proprio in quei momenti moriva in Bronte la sorella. Lettere giunte da Bronte immediatamente dopo confermarono il fatto. La fama della sua saggezza varcò certamente i confini della Provincia religiosa d’appartenenza tanto che il pontefice Pio VI lo nominò, motu proprio, Definitore Generale, ossia Assistente del Superiore Generale dell’Ordine. Ma non era questa l’ambizione di Padre Pittalà al quale meglio si addiceva una vita fatta di temperanza e di sobrietà, di digiuni e di rigorosa umiliazione del corpo: dormiva raramente nel letto, più spesso sopra una sedia o la nuda terra e il suo corpo era costantemente tormentato dal cilizio ai lombi. Padre Pittalà rinunciò al prestigioso incarico al quale non si sentiva adatto, ma non si sentì di rinunciare nel 1785 alla carica di Guardiano del Convento di S. Vito, carica che gli fu confermata per altre due volte, né poté rinunciare 10 anni dopo alla carica di Provinciale per la provincia monastica di S. Antonio di Lecce. Nel convento di S. Antonio ebbe in effetti la sua residenza. Appena due anni dopo, anzi prima che si completasse il biennio della carica di Provinciale, il 14 febbraio 1797, padre Tommaso moriva: Ante completum biennium Provincialatus e vivis decessit, dicono i testi conservati nell’Archivio provinciale dei frati minori a Lecce. Anche gli ultimi momenti della sua vita non furono meno intensi e meno ricchi: riverso sul suo modesto giaciglio salutò ed ammonì i frati che lo circondavano e quindi, ricevuti i Sacramenti, volle tra le mani il Crocefisso e volse lo sguardo al cielo. Il volto fu irradiato da grande splendore prima che il suo corpo si scuotesse e si irrigidisse nella rigidità della morte. Era il 14 febbraio del 1797. Francesco Epifani che sul finire del 1883 scriveva una Vita del Padre Tommaso Pittalà (Brevi cenni sulla vita del P. Tommaso Pittalà, Lecce 1883), così ricorda gli ultimi suoi momenti: “Padre Tommaso Pittalà non si sgomentò quindi dinanzi agli artigli della morte, e ricevuto il Sacratissimo Viatico e fattosi poscia recare fra le mani il Crocifisso che teneva in cella, si riconcentra in quei supremi momenti in se stesso per attendere a Dio; e giacente sul povero suo letticciolo, parve come rapito da estasi celestiale e così astratto dai sensi rimase sino alla morte”(p. 34). Esposto in Chiesa il suo cadavere, si rese necessario rivestirlo tre volte per soddisfare la pietà dei devoti che ne richiedevano le reliquie. E non solo: i fedeli chiesero ed ottennero dalla Curia di Ostuni che il sacro cadavere restasse per tre giorni alla vista dei fedeli, quindi furono celebrati funerali assai solenni ai quali parteciparono oltre al Capitolo di S. Vito, i PP. Domenicani e parecchi sacerdoti dei vicini paesi. Il corpo del servo di Dio, sepolto quindi nella Chiesa minoritica di S. Maria delle Grazie in S. Vito, rimase per tutto il tempo in cui si celebrarono i riti funebri, bello del suo nativo colore. Il padre Michele da Massafra in una sua lettera del 1882 attesta che nel 1838 recatosi in S. Vito mons. Consiglio, arcivescovo di Brindisi, fu aperto il sepolcro del P. Tommaso Pittalà, e fu trovato il suo corpo intatto coi capelli, le unghie, tutte le membra e l’abito così fresco da sembrare lì lì tagliato e cucito; al contrario si trovò incenerito il lenzuolo di lino che lo ricopriva. Il confronto del lino disfatto col panno di lana fresco vuole significare, a giudizio del biografo del Padre Pittalà, che dall’immediato contatto di quella lana col corpo del servo di Dio proveniva l’interezza e freschezza dell’abito. Allo stesso modo fu rinvenuto il cadavere del servo di Dio da Mons. Planeta siciliano, arcivescovo di Brindisi in tempi a noi vicini. Nel 1964 una signora di S. Vito, Franca Sgarrella esprimeva il desiderio di potere ornare con una nuova lapide il sepolcro di padre Tommaso. Il 12 novembre in Chiesa si dettero appuntamento autorità civili ed ecclesiastiche. Tolta la pietra che copriva il sepolcro di P. Tommaso, si notò una bara in legno grezzo sigillata con gli stemmi in ceralacca di mons. Salvatore Palmieri, arcivescovo di Brindisi dal 1893 al 1905. Era probabilmente il segno di un’altra ispezione sul cadavere compiuta forse nel 1901 e voluta, secondo quanto riferisce agli inizi del secolo uno storico pugliese, G. Leo (San Vito de’ Normanni già Santovito degli Schiavi, Napoli 1904, p. 37), dall’arcivescovo Palmieri appunto. Sul centro della bara era depositata una pietra con sopra scolpito: P. Tommaso da Bronte, sacerdote dei minimi osservanti, morì li 14 febbraio 1797. Prima di concludere riteniamo che si impongano talune considerazioni. Non abbiamo voluto ripercorrere le tappe dei molti fatti straordinari verificatisi per intercessione del Servo di Dio, né abbiamo voluto porre l’accento sulla carità che esplicò sempre nei confronti dei più poveri, carità che alimentò parecchie narrazioni miracolistiche, come quella relativa ai pesci: si racconta che un giorno fu necessario che gli si recasse il pranzo in cella dal momento che non poteva scendere in refettorio. |