I Fatti del 1860

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ANTEFATTI - DECRETI DI GARIBALDI - SITUAZIONE LOCALE - I FATTI DAL 2 AL 9 AGOSTO - DIBATTITI E RICOSTRUZIONI

Cenni storici sulla Città di Bronte

I Fatti di Bronte in VERGA, ABBA e GUERZONI

 

GIovanni Verga

"Libertà"

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LIBERTA', DISEGNO DI BRUNO CARUSOLasciarono stare i campieri. - I campieri dopo! - Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono.
Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata - e le stanze erano mol­te. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume.

Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch'esso, puntellava l'uscio colle sue mani tremanti, gridando: - Mamà! Mamà! - Al primo urto gli rovesciarono l'uscio addos­so. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano.

Non gridava più. Sua madre s'era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza.

L'altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avute cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri.

Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bam­bino lattante.

L'altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpesta­vano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più.

Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria. E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio. Fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, in quel paese di turchi.

Infine si sbandarono, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.

Aggiornava; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s'era rintanato; di preti non se ne trovavano più.

I primi che comincia­rono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino.

Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare, ciascuno accusando l’altro.
 – Neppure la messa di domenica, come in paese dei cani! -

Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana.

Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio. E come l'ombra s'impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto.

Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza:
- Viva la libertà!

Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galan­tuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche, le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.

- A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! - Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie.

- A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l'anima! - A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! - A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! - A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!

E il sangue che fumava ed ubriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di san­gue!

- Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli!

Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede.

- Perché? perché mi ammazzate? - Anche tu al diavolo! - Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro.

- Abbasso i cappelli! Viva la libertà! - Te'! tu pure! - Al reverendo che predicava l'inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll'ostia consacrata nel pancione.

- Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! - La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l'inverno della fame, e riempiva la Ruo­ta e le strade di monelli affamati! - Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sul ciottoli della strada a colpi di scure.

Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia.
- Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse - lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia - don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del soma­rello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna.

Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. - Paolo! Paolo! - Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure.
Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sangui­nante al martello.

 

GIOVANNI VERGAGiovanni Verga,
a distanza di vent'anni, riprende e racconta i Fatti di Bronte nella novella “Libertà”.
La novella fu pubblicata il 12 marzo 1882 nella "Domenica Letteraria" e compresa poi nella raccolta Novelle rusticane.

La novella si ispira ad un fatto realmente accadu­to. A Bronte, un paese non lontano da Cata­nia, nei giorni dal 2 al 5 agosto 1860 la popolazione, forma­ta in gran parte da poveri contadini, si sollevò con­tro i locali proprietari terrieri.

Il periodo storico è quello della spedizione dei Mille in Si­cilia, al comando di Garibaldi e Nino Bixio.

Dopo la ca­du­ta del governo borbonico, c'erano stati vari pro­clami rivoluzio­nari, secondo i quali la terra, già di pro­prietà di pochi galantuomini (così veni­vano detti i proprietari terrieri), doveva essere distribuita ai capifa­miglia contadini.

Queste le ragioni della rivolta, quindi: le condizioni mise­revoli dei contadini, la fame, il desiderio di «li­bertà» dalla schiavitù e dalla miseria.

Si tenga anche presente che la popolazione sicilia­na, in gran parte, aiutò Garibaldi ed i Mille nel­la vit­toriosa guerra contro i Borboni, proprio perché vede­va in questa la pos­sibilità di un miglioramento della sua condizione di vita.

La rivolta di Bronte fu sanguinosa, e si risolse in un eccidio tremendo. Venne repressa personalmente da Nino Bixio, che fece fucilare alcuni dei rivoltosi (talvolta, come accade in queste circostanze, pren­den­do quasi a caso quelli che dovevano essere giustiziati). Gli altri vennero condannati e incarcerati a vita.

Verga riferisce con esattezza la storia con il suo conte­nuto drammatico. Descrive le uccisioni, la psicologia della folla impazzita, i drammi.

Si noti, ad esempio, l'uso di paragoni tratti dalla natu­ra: i rivoltosi sono come un «torrente», come la «piena del fiume», e travolgono tutto senza ormai rendersi conto di ciò che fanno.

Passata la follia e finito l'eccidio, il giorno che sorge por­ta una calma strana e piena di paure; i soldati che arriva­no e fucilano sono accolti quasi con un senso di libe­ra­zione; la tragedia che si è consu­mata ha lasciato tutti stravolti ed esterrefatti.

Alla fine, tutto torna come prima: i «signori» al loro po­sto, i poveri contadini sempre più poveri. La trage­dia si è chiusa, e non è servita a niente. Solo i con­dan­nati continueranno a chiedersi il per­ché, gridan­do che loro vole­vano solo «la libertà».

E un mondo senza speranza, che neppure la vittoria gari­baldina ed il cambio di Re riescono a mutare.

(Da Giovanni Verga - “Novelle” a cura di Roberto Fedi - U. Mursia editore, Milano,1988)

  IL COMMENTO DI LEONARDO SCIASCIA

Il disegno accanto al titolo è una china di Bruno Caruso per la no­vella Libertà. Gli altri dipinti e disegni della pagina sono tratti dalla mostra dedicata alla novella del Verga ("alla libertà o alla repres­sione") organizzata dal prof. Nunzio Sciavar­rello e tenutasi a Bronte dal 21 al 31 Luglio 1988 nei locali del Castello Nelson.

Ma il peggio avvenne appena cadde il figliuolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l'oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di trascinarsi a finire nel mondezzaio, gri­dan­dogli:
- Neddu! Neddu! -

Domenico Spinosa: "Libertà", 1988Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare.

Lo rovesciarono; si rizzò anch'esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò disopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e gliel'aveva sfracellata; nonostan­te il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. - Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; - strappava il cuore! - Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant'anni - e tremava come una foglia. - Un altro gridò: -Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!

Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! - Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che face­vano ribollire la collera. Era il sangue innocente.

Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando d'ira in falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti.

- Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta! - Tu che avevi a schifo d'inginoc­chiarti accanto alla povera gente! - Te'! Te'! - Nelle case, su per le scale, dentro le alco­ve, lacerando la seta e la tela fine.

Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d'oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure!

La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle almeno.

La folla chinava il capo alle schioppettate, perché non aveva armi da rispondere.
Prima c'era la pena di morte per chi tenesse armi da fuoco.
- Viva la libertà! - E sfondarono il portone. Poi nella corte sulle gradinate, scaval­cando i feriti.

Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell'Etna.
Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra di sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino.
- Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! -

Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! - Se non c'era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa!
- E se tu ti mangi la tua parte all'osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? - Ladro tu e ladro io. - Ora che c'era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! - Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.

Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente al solo guardarla. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall'alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma chi?

Gli uomini erano già fuggiti in gran parte, al monte o al piano; e le donne, quelle che prima erano più feroci, ora facevano festa ai giovanetti colle camicie rosse che arrivavano stanchi e curvi sotto il fucile; e battevano le mani a quel generale che sembrava più piccolo sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo, con certi occhi che si mangiavano la gente.

Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. Ma la mattina, prima dell'alba, se non si levavano al suono della tromba, entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco.

Questo era l'uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono.

Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glielo strapparono dalle braccia.

Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schiop­pettate in fila come mortaretti della festa. Dopo arrivarono i giudici di professione, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, dicendo - ahi! ahi! - ogni volta che si movevano.

Vancini, Bronte cronaca di un massacro..., il processo Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne dietro, correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d'oro, trafelate, zop­pi­cando, chiamando a nome i loro uomini ogni volta che la strada faceva gomito, e si pote­vano vedere in faccia.

Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate.

Ma il processo andò per le lunghe: coloro che aspettavano la forca, chiusi in carcere, e le loro donne per le strade, lì intorno, lacere e affamate a guardare quelle inferriate esse pure, sotto la minaccia delle sentinelle, senza tetto.
E i poveretti divenivano sempre più gialli in quell'ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno.

Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile.

Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull'uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano.

A poco a poco se ne tornarono a casa, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla.

Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima; già i galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Così fu fatta la pace.

L'orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru – almeno giocargli quel tiro a chi gli aveva ucciso il padre! – E a lei che aveva di tanto in tanto degli scrupoli, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all'uscire dal carcere, diceva:
- Sta tranquilla ché non ne esce più! -

"Libertà", di Alberto Gianquinto,1988Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarella, se gli correvano gli occhi verso la pianura dov’era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all'aria vanno i cenci.

Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicchè quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia - che capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru, doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s'era imparentato a tradimento con lui!

Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. - Voi come vi chiamate? - e ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto.

Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmana­vano, facevano la schiuma alla bocca, se l’asciugavano col fazzoletto, o ci tiravano su una presa di tabacco. I giudici sul loro scanno, dietro le lenti, in soggolo e toga.

E anche dal­l’altro lato, seduti in fila sui loro scanni, dodici galantuomini che sbadigliavano e si gratta­vano la barba, o ciangottavano fra di loro.

Certo, pensavano, forse l'abbiamo scampata bella a non essere stati fra i galantuomini del paesetto, lassù dove s’era fatta la libertà.

E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro e gli imputati aspettavano pallidi e cogli occhi fissi su quell'uscio chiuso.

Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, ed era quasi pallido al pari degli accusati e disse: - Sul mio onore e sulla mia coscienza! ...

Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava:

- Dove mi conducete? - In galera? - O perché? Se non ho avuto nemmeno un palmo di terra! … Se avevano detto che c'era la libertà! ...



Giuseppe Cesare Abba

Da Quarto al Volturno: Noterelle di uno dei Mille

L'eccidio di Bronte raccontato dal garibaldino Giuseppe Ce­sare Ab­ba nel suo libro "Da Quarto al Vol­turno: Note­relle di uno dei Mil­le". L’opera (la più nota di Abba), redatta in forma di diario, rievoca la vicenda garibaldina in toni quasi celebrativi; il tempo intercorso tra i fatti e la stesura (fu scritta “dopo vent’anni”) contribuisce a dare un tono idea­liz­zato e rievocativo alla storia.

Ancora lo stesso autore, nel suo "Vita di Nino Bixio", dedica alcune pagine riscrivendo l'eccidio di Bronte, con qualche tocco di fantasia in più (chierici e monache trucidati, seni di fanciulle recisi e dilaniati coi denti, un fucilato in più, ...)
 

15 agosto

… Bixio in pochi giorni ha lasciato mezzo il suo cuore a brani, su per i villaggi dell'Etna scoppiati a tumulti scellerati. Fu visto qua e là, apparizione terribile. A Bronte, divisione di beni, incendi, vendette, orgie da oscurare il sole, e per giunta viva a Garibaldi. Bixio piglia con sé un battaglione, due; a cavallo, in carrozza, su carri, arrivi chi arriverà lassù, ma via.

Camminando era un incontro continuo di gente scampata alle stragi. Supplicavano, tendevano le mani a lui, agli ufficiali, qualcuno gridando: - Oh non andate, ammazzeranno anche voi!

Ma Bixio avanti per due giorni, coprendo la via de' suoi che non ne potevano più, arriva con pochi: bastano alla vista di cose da cavarsi gli occhi per l'orrore! Case incendiate coi padroni dentro; gente sgozzata per le vie; nei seminari i giovanetti trucidati a pié del vecchio Rettore.
- Caricateli alla baionetta!
Quei feroci sono presi, legati, tanti che bisogna faticare per ridursi a sceglier i più tristi, un centinaio.

Poi un proclama di Bixio è lanciato come lingua di fuoco: "Bronte colpevole di lesa umanità è dichiarato in istato d'assedio: consegna delle armi o morte: disciolti Municipio, Guardia Nazionale, tutto: imposta una tassa di guerra per ogni ora sin che l'ordine sia ristabilito".

E i rei sono giudicati da un Consiglio di guerra. Sei vanno a morte, fucilati nel dorso con l'avvocato Lombardi, un vecchio di sessant'anni, capo della tregenda infame. Fra gli esecutori della sentenza v'erano dei giovani dolci e gentili, medici, artisti in camicia rossa. Che dolore! Bixio assisteva cogli occhi pieni di lagrime.

Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi, ed altri villaggi lo videro, sentirono la stretta della sua mano possente, gli gridarono dietro: Belva! ma niuno osò più muoversi. Sia pur lontano quanto ci porterà la guerra, il terrore di rivederlo nella sua collera, che quando si desta prorompe da lui come un uragano, basterà a tenere quieta la gente dell'Etna. Se no, ecco quello che ha scritto: "Con noi poche parole; o voi restate tranquilli, o noi, in nome della giustizia e della patria nostra, vi struggiamo come nemici dell'umanità".

Vive chi ricorda d'una sommossa avvenuta per quei paesi lassù, sono quarant'anni. Un generale Costa v'andò con tremila soldati e quattro cannoni, ma dové dare di volta senza aver fatto nulla.

E sul finire del secolo passato, il titolo di duca di Bronte, fu dato a Nelson. Bixio che titolo gli daremo? Non questo che fu di chi strozzò Caracciolo!"


"Si parlava persino di divisione dei beni..."

Le lacrime di Bixio

tratto da “Vita di Nino Bixio” di Giuseppe Cesare Abba (Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, Torino-Roma, 1905, pagg. 109-112)

"Libertà", di Saro Mirabella, 1988[...] «Su per i villaggi dell’Etna, a Bronte, a Randazzo a Castiglione, erano scoppiati dei tumulti, non si sa ancor bene forse neppure adesso per quale spirito. Ci doveva entrare un po’ di tutto. Odio tra famiglie, passioni da tiranni, passioni di libertà, sentimenti feudali, cecità di coscienze; e forse ciò che volessero non lo sapevano neppure i capi di quel movimento.

Ma intanto, specie a Bronte, erano venuti gli incendi, i saccheggi, le stragi. Eppure Bronte era patria di quel Nicolò Spedalieri, che cent’anni innanzi aveva meditato e scritto sui diritti dell’uomo alla felicità, sui mezzi che la società aveva di assicurarla a sé e all’individuo-, primo fra tutti il sentimento della religione cristiana che bisognava far rifiorire. Chi potrà dire che nulla dello spirito di Spedalieri non fosse rimasto per delusione offeso e sviato tra quelle genti?

Già nel 1820, durante la rivoluzione di Napoli, era succeduto lassù qualche cosa di simile a ciò che vi accadeva nel 1860, e un generale Costa, v’era stato mandato con tremila soldati e quattro cannoni, ma aveva dovuto tornarsene quasi sconfitto.

Ora s’era di nuovo in rivoluzione, e i figli di quelli di quarant’anni prima credevano di poter farsi uno stato da sé, distruggere gli avversari, stabilire una società nuova. Si parlava persino di divisione dei beni.

Allora Bixio da Giardini pigliò con sé due dei suoi battaglioni; gli altri l’avrebbero seguito. E su a piedi, a cavallo, in carrozza, su carri, giungesse chi vi giungesse, marciò due giorni, coprendo la via dei suoi, ma alla fine fu Bronte. E vide cose da cavarsi gli occhi per l’orrore. Case incendiate con entro i padroni; gente sgozzata per le vie, nei seminari i chierici trucidati, e nei conventi le monache lo stesso. Uno dell’orda mentre il Bixio prorompeva in piazza, dilaniava coi denti un seno di fanciulla reciso.

Bixio fece caricare alla baionetta quei dementi, che storditi a vederselo addosso nemico, pareva che invece avessero aspettato il suo aiuto. Rapido colse gli autori principali di quei delitti, primo fra i quali il capo del Municipio, li fece giudicare da una commissione speciale, e questa, coi modi di guerra, ne condannò sei a morte. Furono fucilati nel dorso. Il capo, che era uomo di sessant’anni, soltanto ferito, rovesciato dagli spari, si rimise sulla sedia, volle esser finito.

Tra i volontari del drappello che fucilava, v’erano giovani dolci e gentili, studenti, medici, avvocati, artisti: uno che si chiamava Cantoni da Pavia, e che era studente di medicina, narrava d’un compagno che non aveva sparato, e soggiungeva che l’occhio suo s’era incontrato in quel momento con quel di Bixio, e che gli era parso vedervi brillar le lacrime.»



Giuseppe Guerzoni

Il 1860

tratto da "La vita di Bixio" narrata da Giuseppe Guerzoni (Firenze, G. Barbera Editore, 1875, pagg. 215 e segg.)

Giuseppe Guerzoni (1835-1886), nel 1860 seguì Garibaldi in Sicilia nella Spedizione dei mille. Combatté fino alla fine della campagna al fianco del generale. Fu deputato, professore di di letteratura italiana presso le università di Palermo e Padova. Scrittore di drammi, di studi critici e di biografie, tra le quali quella di Nino Bixio, dal quale abbiamo tratto il brano.

Ha scritto anche una attenta e documentata biografia di Garibaldi che egli pubblicò in due volumi a Firenze nel 1882.
 

Bixio «… giunto senza notevoli peripezie a Catania, orrendi fatti vennero a funestare la serena letizia di quella patriottica corsa. Nel paese di Bronte alle falde dell’Etna, odi vulcanici di famiglia lungamente covati, or giovati dal naturale disordine della rivoluzione e dal tumulto dell’inesperta libertà, soffiati da un doppio mantice di reazione fratesca e borbonica, e stretti in lega colle passioni più ingorde, della rapina e del saccheggio, erano sanguinosamente scoppiati. Ne era principale motore e ministro il presidente stesso del municipio.

Per mandato e istigazione sua, bande di efferati sicarii s’erano avventate sulle case de’ rivali mettendole a ferro ed a, metà della terra mandando in fiamme, non perdonando né a età, né a sesso, stuprando le donne, orribile ma storico, squartando i bambini.

E la catena di questi odii era sì lunga, e l’esempio di Bronte sì contagioso, che anche le terre circostanti di Randazzo, Castiglione, Maletto, Linguaglossa, avevano dato i primi segni degli stessi furori. Alto fu il grido di dolore delle popolazioni , ma fiacche e quasi imbelli le opere per difendersi da sé.

Comunque, importava spegnere tostamente le cinque vampe; e Bixio non aveva mestieri di lungo consiglio a delibe­rare. Si reca a Bronte con un battaglione de’ suoi: pone le mani sopra i più noti capi del misfatto; mette la terra in stato d’assedio ed emana il Decreto seguente …»

E tutti questi ordini furono colla rapidità fulminea dell’uomo che li bandiva eseguiti.

La commissione speciale perse il processo, giudicò con forma sommaria ma regolare, e condannati sei dei malfattori riconosciuti capi e rei principali alla fucilazione gli altri inviò al Supremo tribunale di guerra del­l’eser­cito sedente a Messina, per esservi più regolarmente esaminati. In quest’opera apparve sovra ogni altra la fiera vigoria di Nino Bixio, ma nulla della violenza e brutalità che l’ignoranza de’ gazzettieri lontani, e la malignità d’avversari partigiani gli hanno imputata.

Certo chi ha lume di buon senso non vorrà sostenere che innanzi a un villaggio metà distrutto dal ferro e dalle fiamme, in faccia a quello scatenamento delle più ree passioni che minacciavano alle fondamenta la Società e velavano di lugubre velo il volto della nascente libertà, si dovesse, o si potesse anche volen­dolo, procedere con delicatezze giuridiche e con timidità umanitarie.

L’umanità stava nel proteggere gli onesti, non già nel risparmiare gli assassini! […]»

«Ma non era a siffatte battaglie che Bixio era venuto. – Si rodeva anzi d’essere forzato a quella parte più grata a sgherro di tirannide che a milite di libertà: s’accorava a dover mettere le mani sopra cittadini italiani e far scorrere sangue civile. […]»

«Egli pensava a ben altro: pensava al suo mandato militare, ad organizzare le sue truppe, soprattutto ad andare avanti, ad essere primo, almeno non secondo in quella impresa del continente ormai da tutti presentita e nella quale nemmeno Garibaldi nascondeva la mèta.»



Riccardo Bacchelli

Nino Bixio a cavallo

Riccardo Bacchelli (Bologna, 19 aprile 1891 – Monza, 8 ottobre 1985) è stato uno scrittore, drammaturgo, giornalista, traduttore e critico teatrale italiano, fra i principali autori di romanzi storici del Novecento.
Alternò ricerche storiche e analisi contemporanee diventando figura di rilievo nella cultura italiana del '900 (decisivo il suo appoggio per la fondazione dell’Istituto Rizzoli). Accademico d'Italia e dei Lincei, ricoprì amche incarichi nell’amministrazione provinciale e fu deputato al Parlamento dal 1909 al 1913.

Questo suo scritto sulla novella di Verga “Libertà” e la figura di Nino Bixio fu pubblicato il 14 Maggio 1955 sul giornale La Stampa di Torino.


Uno di questi giorni rileggevo, nel volume raccolto e commentato da Luigi Russo, la «novella rusticana» di Verga, Liberta:
«Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti.

Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo. Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire" i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima, dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo».

Il paese era Bronte, alle falde dell’Etna; quando le «berrette bianche » dei contadini e dei taglialegna proletari, nella antica illusione che libertà significasse spartizione delle terre e vendetta di pur antiche miserie le angherie, avevan fatto «carneficina » dei «cappelli », ossia di nobili e di borghesi, in quel carnevale furibondo del mese di luglio» del 1860, e di quelle insurrezioni contadinesche.

Il generale era Nino Bixio, che fece giustizia sommaria e diede, come aveva proclamato, esempio tremendo, in quello e in altri paesi, a ristabilire l’ordine: Quanto alla novella di Verga, la sua materia, evidentemente, anzi troppo evidentemente, è desunta ed esemplata dalle testimonianze e sui fatti reali, più di cronaca raccapricciante che non di tragica poesia. E il tono della rappresentazione realistica risulta, in quell’eccesso di evidenza materiale, eccessivo e ad un tempo sommario, indistinto, mentre la vena umana e poetica profonda, che vorrebbe rappresentare la tragedia di quella rabbia e ubbriacatura e foia di vendetta e di sangue, e di quell’inganno «quando avevano fatto la libertà», e del risveglio attonito, trasognato, spaventoso, in una finale incapacità di comprendere e la colpa e l’espiazione, e il delitto e la giustizia, anzi, e se medesimi e i fatti propri, e il disordine non men che l’ordine; cotesta vena poetica e tragica non trova l’espressione piena. Resta piuttosto cronaca penosa e abbagliata, a frammenti e frantumi, di un vero materiale, che non perviene ad attingere alla poesia tragica, ed a suo modo anche storica, per esempio, dello scorcio potente della morte di Luca, nel grande ed umile poema dei Malavoglia, alla battaglia di Lassa.

In tale scorcio, la poesia esprime, con forza antica, quel ch’è fato e storia, quel ch’è fato di dolore per quegli umili nella storia. La quale, in altri scorci, per esempio nel Mastro don Gesualdo, avrà tutt’altre, e pur piene e bellissime espressioni, umoristiche e grottesche, di quell’umorismo e grottesco verghiano che in tutt’altro modo, per esempio, nella lettera amorosa del «baronello» Rubiera alla « comica » signora Aglae, con le «agglomerate cerimonia » e le « melenzose sue riga», stilizza quella che per me è la più buffa lettera del genere, dopo la missiva a Dulcinea del Toboso dell’immortale don Chisciotte. (La citazione mi è anche suggerita dal trovarmi in così completo disaccordo col parere negativo su quella lettera, espresso da un insigne studioso verghiano, come il Russo).

Insomma, il carattere, e il difetto medesimo, della novella rusticana di cui discorro, esprime e raffigura, sto per dire garantisce, un Bixio dal vero, descritto di fresco al Verga da testimoni oculari recenti, sentito come gli sciagurati e sventurati di Bronte lo sentirono arrivare: «quello che faceva tremare la gente»; e lo videro «piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo».

E anche la nota di quelle pietre pericolose, ha indiretta conferma in una referenza dell’Abba nelle sue Noterelle, come ve l’ha tutto l’episodio dell’arrivo di Bixio a Bronte stupefatta e interrorita. E si sa dei suoi modi paterni e furiosi.

Tanto più è curioso, e evidentemente veridico, il particolare dell’averlo visto minuscolo, «piccino sopra il gran cavallo nero». E contrasta con le altre impressioni di Nino Bixio a cavallo, o a piedi o sul ponte di comando, che non gli attribuiscono statura particolarmente alta, ma tutte concordano, anche quella del Bandi, familiare e vivacissima, come di solito tutte le sue, quando ebbe a fare alle braccia con lui su una branda a Marsala per impedirgli una delle non di rado troppo sommarie sue giusti zie, nel riferire la straordinaria e imperiosa vigoria della persona, del piglio, degli atti, del viso che « tagliava come una sciabolata», dice l’Abba.

A cavallo doveva saperci stare magnificamente, benché uomo di mare; o forse ci s’era fatto a cavalcioni dei pennoni alle manovre veliche in burrasca.
Li sceglieva i suoi destrieri, simili a quel «bel cavallo bianco, grande e feroce» che, «avendo annasato tra le cavalcature qualche fémmina, una bestia selvaggia parve e non un cavallo», narra il Bandi; ed «erano due forsennati a combattere», ma la bestia dovette rinunciare a buttar giù l’uomo. E fu il cavallo col quale Bixio cavalcò in battaglia a Calatafimi, «agitando la bandiera di Garibaldi. Le gran schioppettate che ebbe quel demonio sono impossibili a ridirsi; ma e’ pareva fatato, e corse e ricorse e sventolò la bandiera sul viso ai nemici».

L’Abba poi, a Catania, e proprio nei giorni di quel luglio in cui Bixio dovette castigar Bronte, lo vide su un’altro cavallo, che, stando alla data e al colore, dovette essere quel medesimo grande e nero dei miseri paesani: «uno stallone pece, che gli brillava sotto leggero come una rondine ».

Forse fu questa impressione di spigliata e lieve agilità equestre a tradursi, nelle pupille e nelle memorie degli interroriti, in un’immagine di cavalcatore minuscolo di persona? Forse fu il contrasto con la grandezza dell’animale, nel sole e nella luce di luglio delle regioni etnee, nero pece, fatto più nero e più grande dallo splendore abbagliante e dall’abbagliante terrore.

Insomma, quell’aggettivo verghiano, disadorno e così cavato dal vero, è curioso. Ed è preciso, particolare; anche, riflettendoci, immaginoso, come mi pare d’aver indicato chiaramente.

Ma, di tutti i particolari della novella si può dire altrettanto, e specie di quelli più singolari e peculiari, di una psicologia strana e primitiva, fra spiritata e stupefatta.

Perché siano immaginosi e parlanti, è per altro un fatto che bisogna rifletterci e ripensarli, quasi integrarli. Allora si rivelano anche storici, e fanno chiare molte particolarità di quella e d’una più ampia storia sociale, economica, politica, dell’isola. E quella stessa ch’è una specie d’ambiguità e di confusione fra rappresentazione e giudizio, ossia difetto d’arte, ad analizzarne gli elementi, compresa fra di essi quell’ambiguità in se stessa ch’era poi anche, del Verga nello stendere tale novella, risulta feconda di considerazioni.

Vuol dire, parlando esteticamente, che Libertà, non unico caso nell’opera intensa, di cosi strenua e delicata e originale intimità stilistica e inventiva, linguistica e umana del grande siciliano, è un abbozzo di opera più vasta e spiegata, che non fu scritta.

Riccardo Bacchelli

  

Verga ed i Fatti di Bronte

di Salvatore Scalia

Sui fatti di Bronte, anche uno scrittore con la reli­gione del vero come Verga ricorre ad aggiustamenti di prospet­tiva, aderenti più alla sua ideologia reazio­naria che alla realtà.

Anche lui, due anni dopo Abba, nella novella Li­bertà del 1882, utilizza l’espe­diente retorico della purez­za giovanile contrapposta alla furia selvaggia.

Lo scrittore catanese, monar­chico e crispino, de­scrive con rara maestria la folla che massacra i ga­lantuomini in­du­giando minuzio­samente sulla morte del figlio del notaio.

“Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginoc­chio co­me suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chie­deva ancora grazia colle mani. - Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; - strap­pava il cuore! - Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi aves­se dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni - e tremava come una foglia. - Un altro gridò: Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui”.

Era “un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro”. Il figlio del notaio Cannata nella realtà era un uomo fatto e padre di due figli, anzi Benedetto Radice met­te in scena an­che la moglie ad implorare i rivoltosi che lo rispar­mias­sero.

Ma all’aristocratico Verga più della verità cronachi­stica, importa im­pres­sionare il lettore producendo un effetto arti­sti­co ma soprattutto un senso di ripul­sa verso la cru­deltà dei villici inferociti; a tal fine è magistrale quel­l’escla­ma­zione di disprezzo noncu­rante di uno dei rivoltosi per la morte atroce di chi sarebbe divenuto un oppressore.

Lo scrittore indugia poi sulla scena straziante di un lat­tan­te strappato dalle braccia del­la baronessa, la quale viene scara­ventata giù dal balcone, mentre l’altro figlio, dopo aver tentato invano di difenderla, viene trucidato. Anche qui l’invenzione di bambini delicati e puri, e donne inermi davanti alla crudeltà di contadini e boscaioli.

In Verga, accanto al pessimismo sulle possibilità di riscat­to dell’uomo e degli umili che invocavano terra e libertà, agi­va la falsa coscienza della classe sociale aristocra­tica cui apparteneva, che era poi la stessa dei galantuo­mini scam­pati al massacro e dei giudici, a cui, nel pro­ces­so del 1863, fa tirare un sospiro di sollievo per non essere stati tra i “cappelli” di Bronte in quei giorni di tempesta.

Ma prima di quel respiro di sollievo, che sentiamo esplo­dere fragorosamente anche nei polmoni di Verga per aver la sua prosa acquistato un’andatura scorrevole, abbiamo sen­ti­to l’ansimare spasmodico dello scrittore nel perio­dare franto, contratto, doloro­samente contratto.

Quegli avvenimenti doveva conoscerli molto bene, nel ‘60 aveva vent’anni, per poter ipotizzare tradi­menti della memo­ria. Anzi quei cupi fantasmi di tru­ci conta­dini in rivolta doveva­no aver popolato di incu­bi il suo tranquillo benessere di ric­co proprie­tario terriero. E Bixio, come Crispi, li esorcizza.

Lo scrittore, quando vuole, sa ricordare perfetta­mente: coe­rente con la realtà, e con l’arte che sca­va nell’abie­zione del­l’uomo, è la descrizione del ritrova­mento in un leta­maio e dell’uccisione del no­taio Cannata. Quel processo davanti alla Corte d’Assise di Catania aveva interes­sato l’opinione pubblica, Verga doveva esserne sta­to profonda­mente coinvolto.

La chiave della mistificazione dello scrittore cata­nese, Leo­nardo Sciascia l’aveva trova­ta nel fatto che aveva trasf­ma­to lo scemo del pae­se, fatto fucilare da Bixio, in un nano, essere a cui la tradi­zione popolare attribuisce carat­teristi­che di perfidia e malva­gità, mentre la pazzia è cir­condata da un alone di sacralità. Un espediente retorico anche questo che mutava il ri­spet­to per la follìa nel disprezzo per il difetto fisico. E non a caso Sciascia citava la nana protago­nista del­l’omo­nimo romanzo di Navarro della Mira­glia.

Nunzio Ciraldo Fraiunco, alla sua pazzia, aveva da­to sicu­ramente una dimensione tragica e rispetta­bilis­sima, dal momento in cui aveva annunciato l’av­vicinarsi del giorno del giudizio. “Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, pri­ma dell’alba, se non si levavano al suo­no della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un tur­co. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fuci­las­sero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i pri­mi che capitarono”.

Verga ha eliminato dalla scena l’avvocato Lombardo e il pro­cesso: due omissioni che testimoniano del perpetuar­si di una mistificazione. Il mite intellet­tua­le riformatore, la vit­tima di cui nei circoli libe­rali di Cata­nia si presumeva l’inno­cenza, avrebbe tur­bato lo schema ferreo del rac­conto a tesi conservatrice.

Ma soprattutto con l’eliminazione del processo, Ver­ga am­mette che fu tale da non meritare di es­sere preso in consi­derazione. Anzi, in questo caso, diventa persi­no esplicito: quella fu giustizia somma­ria: “E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei ...”.

Alla fine dunque la verità si finisce con il trovarla an­che nel­le trasfigurazioni letterarie, o meglio nelle con­tor­sioni ideo­lo­giche dello scrittore catanese che pretendeva di spogliar­si delle sue vesti di aristocra­tico per fotografare impassibil­mente il mondo.

Salvatore Scalia (Il processo a Bixio)

1860, I FATTI di BRONTE
proposte di lettura

Di Leonardo Sciascia: Verga e la libertà, Quel bagno di sangue per un pezzo di sciara

I Fatti di Bronte e “un monumento” del realismo letterario: Libertà di Giovanni Verga. Relazione presentata dal prof.  A. Manganaro nella giornata di studi Bronte 1860. Libertà da Verga a Vancini, tenutasi a Bronte al Real Collegio Capizzi, il 4 Marzo 2023, nell’ambito delle celebrazioni del centenario verghiano 

Gli Atti processuali. Gli atti del processo istruito dal 7 al 9 agosto 1860 dalla Commis­sione Mista Eccezionale di Guerra per i Fatti di Bronte

Nino Bixio a Bronte. Monografia di Benedetto Radice (tratta dal 2° volume delle Memorie storiche di Bronte)

Il Diario di Nino Bixio. Quello che che scrisse nei giorni trascorsi a Bron­te, una sorta di taccuino di appunti, do­ve elabora i te­sti dei decreti da emanare, de­gli avvisi da dif­fon­dere alla popolazione, degli ordini da conferire ai suoi subalterni e della corrispondenza da spedire.

1985, Bronte processa Bixio. Gli atti del convegno, il dibattimento e la sentenza della Corte

Antonino Radice, Risorgimento perduto. Una analisi dei Fatti "origini antiche del malessere nazionale"

Bronte, Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, il film di Florestano Vancini

Bronte: Storia di ingiustizia e ribellione. Da Verga a Mancini (di F. M. Pistoia, Universidad de Salamanca)

I Fatti di Bronte visti da: Benedetto Radice, La Civiltà Cattolica, Leonardo Sciascia, M. Sofia Messana Virga, Gino Longhitano, Lucy Riall, Antonino Radice


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