I FATTI DEL 1860

I Fatti dal 2 al 10 Agosto 1860

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ANTEFATTI - DECRETI DI GARIBALDI - SITUAZIONE LOCALE - I FATTI DAL 2 AL 10 AGOSTO (1/3) - DIBATTITI E RICOSTRUZIONI
 

Cenni storici sulla Città di Bronte

I Fatti di Bronte dal 2 al 10 Agosto 1860

LA VENDETTA, L'ECCIDIO, LA REPRESSIONE, LA FUCILAZIONE


Gli interessi opposti di classe, le ambizioni deluse, la sete di vendetta, gli inveterati odii covati nel seno dei contadini resero il conflitto inevitabile, fatale

La vendetta

Libertà, di Pietro Annigoni (1988) - Pinacoteca N. Sciavarrello BronteDal 29 Luglio al 6 Agosto, una sequenza impressionante di odio di classe e di violenza si abbatté su Bronte.

La popolazione, allo sbarco dei Mille era divisa in due fazioni: da un lato i "Comunisti" o Comunali (capeggiati dall'avv. Nicolò Lom­bardo, decisi a difendere gli inte­ressi del Comune e dei popo­lani, desi­derosi di dividersi i demani comunali ed avere finalmente ac­ces­so ad un pezzo di terra); dall'altro i "Civili" o Ducali, amici del Duca Nelson e difensori delle sue prerogative (all'epoca dei fatti la Ducea era nelle mani di Charlotte Nelson-Bridport, nipote di Horatio Nelson, sposata a Samuel Hood, secondo visconte di Bridport).

«I ducali, - precisa Maria Serena Mavica - conservatori e sostenitori della proprietà privata delle classi agiate, si affiancavano agli espo­nenti della Ducea ed erano com­posti ovviamente dai proprietari terrieri, dai nota­bili del paese e da gran parte del clero, men­tre i comunisti, fau­tori della comunio­ne delle terre usurpate e per anni fraudolen­temente sottratte alla popola­zione, erano composti ovviamente da villici, dalla parte umile del popolo, da qualche bor­ghese e professionista più liberale, e anche da qualche espo­nente del clero, per così dire, innovatore, rispetto ai colleghi.»

E sebbene fra i due gruppi non si fosse mai venuto ad guerra aperta, pure - scrive lo storico brontese Benedetto Radice - «tramavansi e macchinavansi a vicenda sin dal 1848 atroci calunnie, onde alcuni dei comunisti patirono il carcere. Si calunniavano a vicenda, e nel loro disaccordo, brontolavano i contadini.»

Con decreto del 2 giugno Garibaldi aveva promesso la divisione delle terre, il 14 maggio aveva ordinato lo scioglimento e la ricostituzione dei Consigli civici e la formazione della Guardia Nazionale e con un altro decreto del 17 giugno escludeva dai consigli tutti i favoreggiatori diretti e indiretti della restaurazione borbonica.

Gran parte della popolazione brontese - scrive in Risorgimento perduto lo storico Antonino Radice - «angosciata dai vecchi ricordi ed esasperata ancor di più, al momento, dalla mancata applica­zione dei decreti dittatoriali gari­baldini rimasti lettera morta assieme ad altre provvidenze prome­sse. (...)

La correzione dei mali sociali che da sempre affliggevano le classi più povere non s’era verificata. Speranze deluse e malcontenti antichi e nuovi si erano accumulati senza sosta e si trasformavano ora in ingredienti esplosivi, pronti a produrre deflagrazioni e guasti.

Si profilava il verificarsi di una tristissima verità secondo la quale gli sconvol­gimenti sociali quando avvengono muovono sempre da cagioni remote, cre­scono poi inosservati e si palesano infine d’improvviso allorquando la cecità e la insufficienza di coloro che avrebbero potuto evitare i mali peggiori, nulla han prodotto per impedire il peggio.»

Nella cittadina etnea sembrava non cambiasse niente, tutto restava fermo. «Il popolo, - ci ricorda un protagonista di quei giorni, l'arciprete Politi - (...) fremeva che a vista di Adernò, Biancavilla e Centorbi la legge della divisione delle terre comunali non s’era dato attuare per Bronte, quindi nel bollore degl’interessi e nel desiderio di vendicare torti privati che diceva ricevuti dalla Borghesia, tolto ogni freno alla pazienza, si decisero finirla una volta.»

Intanto, indette nella seconda quindicina di giugno, si erano svolte le ele­zioni, e contro ogni previsione e speranza il partito dei comunisti ne era uscito battuto. Invece del Lombardo era stato eletto a presidente del Muni­cipio Sebastiano De Luca, e il Barone Vincenzo Meli, uomo imbelle, a Pre­sidente del Consiglio.

«Questa sconfitta - continua il Radice - crucciò ed esasperò i proletarii, dei quali crebbe vieppiù l’esasperazione, quando invece del Lombardo venne eletto a giudice l’avv. Cesare; il quale, allargatasi la lotta nei partiti, in quel­l’aspro cozzare, fu non piccola causa del tragico tumulto.»

«Gli interessi opposti di classe, le ambizioni deluse, la sete di vendetta, gli inve­te­rati odii covati nel seno dei contadini resero il conflitto inevitabile, fatale.

Il seme della discordia germogliò generando la mala contentezza del popolo» che male interpretando lo spirito che animava la spedizione garibaldina in Sicilia, resosi conto che si facevano solo promesse, non avendo più fiducia nei tribunali per ope­razioni legali né in chi gestiva il Comune, decise di scendere in piazza armato e compatto, fomentando disordini e creando un clima di terrore.

Già dal mese di luglio un’immensa folla iniziò a percorrere minacciosa le vie della città gridando: Abbasso il Municipio! Abbasso i Borbonici! Viva Garibaldi! Viva Lombardo! Vogliamo la divisione!

Tutti reputarono passeggera quella tempesta, e, imprevidenti non s’affret­tarono a soddisfare i desideri dei contadini che, fiduciosi di potersi liberare dal giogo ducale e sicuri di potersi impadronire dell’immenso patrimonio terriero della Ducea, sfoga­rono il loro odio e la loro rabbia secolari con un aberrante eccidio di "cappelli" (così venivano chiamati i possidenti ed i feudatari brontesi) e di "ducali".

L'eccidio era da tempo nell'aria fin dai primi giorni di agosto ed era stato quasi annunciato: un popolano, Nunzio Ciraldo Fraiunco, ritenuto demente, amplificava, infatti, gridando per le vie del Paese, sotto abitazioni artata­mente indicatigli, la ripetitiva benaugurante cantilena:  - "Cappelli guaddàtivi, l’ura du giudizziu s’avvicina, pòpulu non mancari all’appellu".

«Saliva – continua il Radice - anche sul Casino dei civili e lì, malaugurata Cassan­dra, ripeteva il suo rozzo, minaccioso e fatidico sermone, condito di sali e infarcito di scempiaggini. I galantuomini, veri dementi, ridevano del matto, mentre i popolani affilavano scuri e coltelli e preparavano polveri, aprendo l’anima alla brama di selvagge vendette.»

«La sera del 29 luglio fu grande e macabra serenata. Uno stormo di ragazzi, con torce accese, andavano per le vie, portando una bara, seguita apparentemente da curiosi, cantando Misere e Deprofundis sotto le case dei Borboniani, facendovi sopra il corrotto con grida e strilla lamentevoli, come si usa in morte di parenti: Patrittu meu!! Patrittu meu!! accompagnate da rare fucilate e tocchi di campana. Si diceva che facevano i funerali di re Bomba...»

Forse se l’avvocato Nicolò Lombardo, capitano di una delle tre squadre di Guardia Nazionale e "leader" dei Comunali, avesse avuto dal Governatore di Catania una delle due cariche a cui sicuramente aspirava (Presidente del Municipio o Giudice), forse sarebbe riuscito a fermare in tempo la follia dei contadini.

E la situazione precipitò in pochi giorni: le dimostrazioni di piazza si succede­vano e sfuggirono ben presto di mano al Lombardo e, «per la dappocaggine delle autorità dei capitani del nobile corpo delle Guardie Nazionale», le sorti del paese inclinarono verso il precipizio.

Alcuni capi popolo programmarono un'altra manifestazione per il 5 Agosto, domenica, giorno di festa della Madonna della Catena, perchè non lavorando i contadini nei campi (era periodo di trebbiatura), si potesse levare a tumulto tutto il popolo.

Ma qualcuno, che era obiettivo della vendetta, nel frattempo era fuggito via alla chetichella, si temeva l'arrivo di soldati da Catania ed i caporioni (e non il Lom­bardo) decidevano di cingere d’assedio il paese e, al suono delle cam­pane "a mortorio", di anticipare la manifestazione (la "scanna") al 2 Agosto.

«La mattina del 1 agosto, mercoledì, - scrive il Radice - continuarono le dimo­stra­zioni e le grida. La sera, (...) furono occupati i posti di Salice, S. Antonino, Zotto­fondo, Scialandro, Catena, Colla, Camposanto, dietro S. Vito, Sciarone Lo Vecchio.

Verso le ore 5 della notte si sentirono tocchi di campane dal campanile di S. Anto­nino e della Madonna del Riparo, qualche fucilata e fischi: voci di allarme si rispon­devano da un posto all’altro: Sentinella all’erta! All’erta sto!

«Durante la notte era per le vie un va e vieni affaccendato, un picchiare alle case, un chiamare sommesso i compagni, ignari della novità, un sussurrio che a mano a mano diveniva come rumore di fiume che ingrossa nella sua corsa, e in mezzo a tutto questo un lieto suono di cornamusa. Alcuni civili, atterriti da quei segni, travestiti, ebbero a ventura di trovare scampo nella fuga, facilitata dal denaro o della pietà di amici contadini.»


L'eccidio

«La mattina del 2 ago­sto, giovedì, il paese si trovò militarmente asse­diato da ogni parte. Chi voleva uscire era fatto tornare indietro con le buone o con le cattive: «Dobbiamo dividerci i beni del Comune, gridavasi, questi signori ci hanno succhiato il sangue nostro, ce lo devono restituire».

«La direzione "militare" delle operazioni – scrive S. Lupo (Tra centro e periferia. Sui modi dell'aggregazione politica nel Mezzogiorno contem­po­raneo, Meridiana N. 2, 1988) viene assunta dai carbonai, coloro che più a lungo hanno fronteggiato i campieri della Ducea in difesa degli usi civici. Da questo momento salta ogni gerarchia ed il popolo, sciolto dai vincoli di fedeltà anche verso i civili della propria fazione, può esercitare la sua ven­detta. Svanisce il senso della convivenza civile, si ripetono i più macabri riti».

«In paese - continua il Radice - era grande agitazione e scompiglio; un corre­re qua e là popolarmente, tumultuaria­mente chiamando e invitando alla sommossa.
«Chi non è con noi e contro di noi». «Guai a chi è contro il popolo!».

«Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato»

L'uccisione del notaio Cannata e dei cugini Zappia (Dal film di Florestano Vancini, 1972)

 

Le immagini della pagina (dall'alto): L'anelito di "Libertà" che traspare in un qua­dro di Pietro Annigoni del 1988 ispirato ai Fatti di Bron­te (il di­pinto è esposto nella "Pinacoteca N. Scia­var­rello"); l'orrendo eccidio dei "galantuomini" brontesi (i "cappelli") in un disegno del 1988 del pittore jesino Orfeo Tamburi; tre disegni a china di Bruno Caruso dedicati ai Fatti di Bronte (ispirati alla novella "Libertà" di G. Verga); l'uccisione del giovane Antonino Cannata, figlio del notaio della Ducea, in una scena del film di Vancini "Bronte, cronaca di un massacro...".

LIBERTA', DISEGNO DI BRUNO CARUSOE molti di buone famiglie borghesi, volenti o nolenti, ingrossavano lo stuolo dei faziosi.

«Verso mezzogiorno la piazza vicino al Casino dei civili, era un nero bolli­men­to. Un’onda di popolo incalzava e contrastavasi mugolando e urlando: Vogliamo la divisione delle terre.» «Giunsero dai boschi i carbonari con le loro grandi accette. - scrive un testi­mone oculare, il filo borbonico padre Gesualdo De Luca - Alle ventitre del giorno si uniro­no armati sul largo di S. Vito i masnadieri ed i costretti da quelli. Suonarono quella campana a stormo, e tosto divisi in due falangi sce­sero nel paese. La più grossa scese a sinistra per la via dei Santi, fermossi più volte, tremando verga a verga, pel sospetto di aversi scariche di fuci­late dalle case dei ricchi.

Ma quando tra palpiti e furore percorse libere le strade giunsero al Casino di Com­pagnia dei civili, e lo trovarono sgombro; un delirio febbrile l’invase, guastarono ogni cosa di quel luogo, e corsero agli incendii ed ai saccheggi.»

Fra posti di blocco istituiti per evitare la fuga dei "cappelli" le devastazioni e gli incendi del teatro, dell’archivio del Comune (posto allora nei locali del Collegio di Maria all'epoca adibiti a sede della Cancelleria comunale), della Chiesa del Rosario, del "Casino di Conversazione de' civili" (alla fine furono 46 gli edifici e le case incendiate in una notte), i rivoltosi, come branco di lupi famelici, desiderosi di vendette covate e tramandate di generazione in generazione per secoli, di sangue e di rapine, invasero le strade; sbucavano da ogni vicolo, saccheggiavano, incendiavano, uccidevano.

«Nicolò Lombardo, - scrive Salvatore Scalia - che si è battuto e ha sofferto per la causa dei comunisti, davanti a quell’esplosione incontrollata di ferocia si sente perduto: i suoi seguaci non sono più dalla parte del diritto. La loro causa non può più essere la sua. “Cercò di ammansire quelle belve”, scrive Benedetto Radice che guarda i rivoltosi con gli occhi dell’avvocato.
Ma invano: la rivoluzione, che aveva ardentemente sperato e gli era sembrata a portata di mano con la venuta di Garibaldi, si muta repentinamente in una tragica disillusione.»

La prima vittima del furore popolare fu la guardia municipale, funzionante da guardiano rurale, Carmelo Luca Curchiurella, trucidato vicino al Carcere Bovi, perchè andava prendendo nota dei preposti al funzionamento e custodia dei posti di blocco.

«Stanchi - continua il Radice - irrompono nelle cantine, aperte dai proprietarii per evitare il sacco alle loro case. Mangiano, bevono rinfrescano le arse gole, ed ebbri alla fine di vino e di furore, al comando degl'improvvisati generali, come torrenti di lava, dagli squarciati fianchi d’un vulcano, corrono qua e là a nuovi saccheggi, a nuovi incendi.»

In una fitta sequenza di scene feroci, fra il 3 ed il 4 agosto, furono crudelmente trucidati 16 civili e "cappelli", più un omicidio mancato (D. Nunzio Sanfilippo) e un rivoltoso (Nunzio Fioretto Giosaffat) ucciso perchè colpito per sbaglio da una pallottola vagante. «Ragazzo - scrisse il giudice I. Vasta nella sua requisitoria (vol. VII, foglio 87) - che ebbe a morire perchè si trovò alla fucilazione di Leotta e Compagni per fucilare e si trovò anche lui fucilato» («fu pure ucciso nello scompiglio e nella foga del tirare uno dei ribaldi», scriverà il Radice).

Il bilancio di quei giorni di fuoco si chiudeva con sedici morti, "cappelli" trucidati dalla furia contadina: la guardia municipale Carmelo Luca Curchiarella, il notaio della Ducea Nelson D. Ignazio Giuseppe Maria Cannata e il figlio D. Antonino, D. Vito Margaglio di Ferdinando, D. Nunzio e D. Giacomo fratelli Battaglia figli di D. Giuseppe, Mastro Nunzio e Mastro Antonino fratelli Lupo del fu Mastro Nunzio, D. Mariano Zappia del fu D. Giuseppe, D. Mariano Mauro di D. Salvatore, il cassiere comunale D. Francesco Aidala, l’impiegato del catasto D. Vincenzo Lo Turco di D. Illuminato, D. Rosario Leotta contabile della Ducea, l'usciere D. Giuseppe Martinez, D. Giovanni Spedalieri di D. Gaetano, D. Vincenzo Saitta di D. Vincenzo. (Processo, vol. I, foglio 32).

L'ultimo omicidio fu quello di uno dei fratelli Lupo, mastro Antonino, che – scrive nella sua requisitoria il Giudice istruttore Ignazio Vasta – fu assassinato nella mattinata del 5 Agosto «a quattro miglia lontano da Bronte, e precisamente nell’Ex-feudo Margiogrande, da un branco di arrabiati malettari, che ivi si era rifuggiato scappando da Bronte nei giorni antecedenti» (Processo di Bronte, Vol. I, foglio 12).

Oltremodo crudele l’assassinio del Notaro Ignazio Cannata. Ancora il Giudice Istruttore Vasta scrive (Processo di Bronte, Vol. 7 foglio 8) di un rivoltoso, Antonino Bonina detto Caino di anni 35 da Castiglione, che si spinse fino all’antropofagia «di mangiarsi col pane un pezzo di carne del brucente cadavere di detto Cannata»; riferisce la testimonianza del panettiere mastro Paolo Arcidiacono (Vol. 5, foglio 167) che affermava che il Bonina si avvicinò alla tavola dove teneva il pane da vendere e «uscì fuori per mangiarselo, come fece, colla carne di Notar Don Ignazio Cannata già sulla piazza mezzo arrostito e brucente». Il Radice, però, ritiene più veritiera la dichiarazione fattagli da Giuseppe Longhitano Portella«uno dei caporioni, uscito ora dalle carceri e che era presente al fatto che gli raccontò che il Bonina mangiò del pane con del tonno salato, e che per millanteria diceva di mangiare il fegato

Lo stesso Bonina – secondo D. Gioacchino Spedalieri, un altro testimone (Vol. 4, foglio 23) - aveva partecipato all’uccisione del Notaro dandogli «un colpo di scure come se lo volesse dividere in due parti dalla testa in giù».

Dietro questi eccidi vi erano povertà e fame di terre secolari, odi mai sopiti, soprusi mai scordati, un’estrema miseria, ma anche desiderio di libertà e ansie generose risorte di fronte a quella che appariva la splendida e rapida azione di Garibaldi con le sue promesse di dare finalmente soddisfazione immediata alle rivendicazioni contadine.

Si erano improvvisamente riaccese le speranze dei contadini, quasi tutti poveri braccianti, di riap­propriarsi dei demani e anche dell’immenso patrimonio terriero per due volte palesemente usurpato in quattro ininterrotti secoli dall’Ospedale di Palermo (1494) e dall’ammiraglio Nelson (1799).

E poteva finalmente avere uno sbocco la gigantesca causa legale intrapresa da ben tre secoli dalla comunità brontese contro gli usurpatori (durava dal 1554 ed ancora non era stata conclusa).

L’ira a lungo repressa dei contadini esplose in forme di atroci violenze anche per l’infiltrazione dei molti elementi che erano scappati dalle carceri di tutta la Sicilia e per l’arrivo contemporaneo di altri individui poco raccomandabili piovuti dai paesi circostanti a fomentare vieppiù gli animi.

«Erano ritornati in Bronte dalle carceri  - scrive Benedetto Radice in "Nino Bixio a Bronte" - alquanto malfattori, noti per uccisioni e furti… Il rumoreggiare del popolo attirò pure, come avvoltoi l’odor di carogna, molti altri facinorosi di Adernò, Biancavilla, Pedara, Alcara Li Fusi.»

Va dato merito allo storico brontese di aver correttamente ricostruito i Fatti oscurando la fantasia e gli errori (voluti?) di molti scrittori dell'epoca (Abba, Guerzoni, ...) che parlarono di chierici e monache trucidati, seni di fanciulle recisi e dilaniati coi denti, bambini squartati o, come riportò il 15 settembre 1860 la Civiltà Cattolica nella "Cronaca contemporanea" dedicata al Regno delle Due Sicilie, di «quaranta persone delle più cospicue per probità e per natali.. crudelissimamente straziate ed uccise; le case loro messe a ruba e a sacco, poi date alle fiamme, ardendovi i cadaveri de’ trucidati; né havvi luogo a dubitare che alcuni di que’ mostri selvaggi diedero di morso a divorarne le carni mezzo abbrustolite».

«Dopo tre giorni  - scrive Antonino Radice in Risorgimento perduto - accennava finalmente a chiudersi la vicenda che aveva fatto tremare di paura l’intera popolazione. E come avviene alla fine di molte rivoluzioni, specie quelle prive di sbocchi, che vanno avanti alla cieca, cominciava pure l’altra vicenda della inevitabile resa dei conti e della punizione per coloro che avevano commesso inutili misfatti. E questa ultima arrivò anch’essa alla cieca, per la malvagità di altri uomini chiamati a giudicare, i quali anche loro uscirono dai giusti limiti, esprimendosi in maniera esorbitante e crudele all’ombra e sotto l’alibi, cosa ancor più grave, della causa patriottica.»

Il 4 Agosto giunse a Bronte da Catania una compagnia della Guardia Nazionale (ottanta militi comandati dal questore Gaetano De Angelis) per ristabilire l'ordine, ma i tumulti ed il massacro continuarono. Ma poco dopo «la squadra catanese col suo imbecille Capitano se ne andò via», scrisse un testimone oculare dei Fatti, padre Gesualdo De Luca.

Il 5 Agosto, domenica, comandata dal colonnello Giuseppe Poulet arrivò a Bronte una compagnia di soldati (circa 300 militi ed un pezzo di artiglieria, comandato dall'ufficiale/giornalista Francesco Sempreamore) e la folla cominciò a placarsi.

«Il domani, 6 agosto, - continua il Radice - fu per pubblico bando... SEGUE...

 La repressione  /  La fucilazione
 

Il proclama di Garibaldi

Siciliani!

"Io vi ho guidati una schiera di prodi, accorsi al­l'eroi­co grido della Sicilia, resto delle battaglie lom­barde.

Noi siamo con voi! e noi non chiediamo altro che la liberazione della vostra terra. Tutti uniti, l'opera sarà facile e breve. All'armi dun­que!

Chi non impugna un'arma è un codardo e un tra­dito­re della patria. Non vale il pretesto della man­canza d'armi.

Noi avremo fucili; ma per ora un'arma qualun­que basta, impugnata dalla destra d'un valoroso. I municipi provvederanno ai bimbi, alle donne, ai vec­chi derelitti.

All'armi tutti!
La Sicilia insegnerà ancora una volta, come si libe­ra un paese dagli oppressori colla potente volon­tà d'un popolo unito".

14 Maggio 1860

G. Garibaldi

Altri proclami

I 16 trucidati dai rivoltosi

Mastro Carmelo Luca (detto Curchiarella, di anni 36, guardia boschi del Comune);
Dott. don Ignazio Cannata (di anni 70, notaio del­la Ducea Nelson);
Don Antonino Cannata (di anni 34, figlio del notaio Ignazio);
Don Giacomo Mariano Zappia (di anni 36) figlio di Don Giuseppe;
Dott. Don Mariano Mauro (di anni 22, avvocato, cugino di Mariano Zappia) figlio di Don Salvatore;
I fratelli Don Nunzio Battaglia (di anni 38) e Don Giacomo Battaglia (di anni 33) figli di don Giu­seppe;
Don Francesco Aidala (di anni 48, cassiere comunale);
Don Vito Margaglio di don Ferdinando (di anni 22);
Don Vincenzo Lo Turco (di anni 40, impiegato del Catasto) figlio di Don Illuminato;
I fratelli mastro Nunzio Lupo (di anni 40, falegname) e mastro Antonino Lupo (di anni 54), figli di mastro Nunzio;
Don Giovanni Spitaleri (di anni 40, impiegato del Catasto) figlio di Don Gaetano;
Don Rosario Leotta (di anni 45, segretario della Ducea Nelson);
Don Giuseppe Martinez (di anni 43, usciere);
Don Vincenzo Saitta (, di anni 18, chierico) figlio di Don Vincenzo.

I Garibaldini brontesi

L’elenco dei brontesi che "corsero ad arruolarsi sotto la bandiera" di Garibaldi ci è fornito dallo storico brontese Benedetto Radice nelle sue “Memorie sto­riche di Bronte”.

«Furono Garibaldini: Sebastiano Casella, Schiros Vincenzo, Giovanni Longhitano Cazzitta, Luigi Man­giovì, Nunzio Meli fu Antonino, capraio, Pasqua­le Pettinato, Vincenzo Mazzeo, fab­bro, Nunzio Pinzone, Giuseppe Lombardo Emanuele, Placido Gangi, Giuseppe Gangi, Salvatore Zappia Biuso fu Giovan­ni, che, ferito alla battaglia del Volturno, mutò la ca­mi­cia rossa nel saio del Cappuccino.
I fratelli Mariano ed Arcangelo Sanfilippo che si era­no già arruolati a Palermo e gli altri due fratelli Pietro e Filippo, che, cercati quali promotori del tumulto, trovarono asilo sotto la bandiera.

Si arruolarono pure a Messina i caporioni delle stragi dell’agosto; Giosuè Gangi, Ignazio Quartuccio, Arcangelo Attinà Citarrella, Giuseppe Attinà Citarrella, Nunzio Meli Fallaro, ma la camicia rossa non li salvò dalla galera.»

Proposte di lettura

-- Nino Bixio a Bronte, la monografia dello storico brontese Bene­det­to Radice (tratta dal II° volume delle Memorie storiche di Bronte). Scarica il libro (100 pag., 803 Kb)

 -- Gli atti del Processo dell'Agosto 1860, istruito dalla Commissione Mista Eccezionale di Guerra voluta e nominata da Nino Bixio;

 -- I “Fatti di Bronte” del 1860 - Indagine storico-sociale di Maria Serena Mavica;

-- Il "Processo a Bixio", il convegno, il dibattimento processuale e la sentenza della Corte istituita nel 1985;

-- Il Diario di Nino Bixio, una sorta di taccuino di appunti, dove Bixio nei giorni trascorsi a Bronte elabora i testi dei decreti da emanare, degli avvisi da diffondere alla popolazione, degli ordini da conferire ai suoi subalterni e della corrispondenza da spedire»

 


Vedi  anche in "La vendetta" in "Florilegio delle Memorie storiche di Bronte" di N. Lupo

         Il racconto del sac. Politi

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