Cenni storici sulla Città di Bronte I Fatti di Bronte dal 2 al 10 Agosto 1860 LA VENDETTA, L'ECCIDIO, LA REPRESSIONE, LA FUCILAZIONE
Gli interessi opposti di classe, le ambizioni deluse, la sete di vendetta, gli inveterati odii covati nel seno dei contadini resero il conflitto inevitabile, fatale La vendetta Dal 29 Luglio al 6 Agosto, una sequenza impressionante di odio di classe e di violenza si abbatté su Bronte. La popolazione, allo sbarco dei Mille era divisa in due fazioni: da un lato i "Comunisti" o Comunali (capeggiati dall'avv. Nicolò Lombardo, decisi a difendere gli interessi del Comune e dei popolani, desiderosi di dividersi i demani comunali ed avere finalmente accesso ad un pezzo di terra); dall'altro i "Civili" o Ducali, amici del Duca Nelson e difensori delle sue prerogative (all'epoca dei fatti la Ducea era nelle mani di Charlotte Nelson-Bridport, nipote di Horatio Nelson, sposata a Samuel Hood, secondo visconte di Bridport). «I ducali, - precisa Maria Serena Mavica - conservatori e sostenitori della proprietà privata delle classi agiate, si affiancavano agli esponenti della Ducea ed erano composti ovviamente dai proprietari terrieri, dai notabili del paese e da gran parte del clero, mentre i comunisti, fautori della comunione delle terre usurpate e per anni fraudolentemente sottratte alla popolazione, erano composti ovviamente da villici, dalla parte umile del popolo, da qualche borghese e professionista più liberale, e anche da qualche esponente del clero, per così dire, innovatore, rispetto ai colleghi.» E sebbene fra i due gruppi non si fosse mai venuto ad guerra aperta, pure - scrive lo storico brontese Benedetto Radice - «tramavansi e macchinavansi a vicenda sin dal 1848 atroci calunnie, onde alcuni dei comunisti patirono il carcere. Si calunniavano a vicenda, e nel loro disaccordo, brontolavano i contadini.» Con decreto del 2 giugno Garibaldi aveva promesso la divisione delle terre, il 14 maggio aveva ordinato lo scioglimento e la ricostituzione dei Consigli civici e la formazione della Guardia Nazionale e con un altro decreto del 17 giugno escludeva dai consigli tutti i favoreggiatori diretti e indiretti della restaurazione borbonica. Gran parte della popolazione brontese - scrive in Risorgimento perduto lo storico Antonino Radice - «angosciata dai vecchi ricordi ed esasperata ancor di più, al momento, dalla mancata applicazione dei decreti dittatoriali garibaldini rimasti lettera morta assieme ad altre provvidenze promesse. (...) La correzione dei mali sociali che da sempre affliggevano le classi più povere non s’era verificata. Speranze deluse e malcontenti antichi e nuovi si erano accumulati senza sosta e si trasformavano ora in ingredienti esplosivi, pronti a produrre deflagrazioni e guasti. Si profilava il verificarsi di una tristissima verità secondo la quale gli sconvolgimenti sociali quando avvengono muovono sempre da cagioni remote, crescono poi inosservati e si palesano infine d’improvviso allorquando la cecità e la insufficienza di coloro che avrebbero potuto evitare i mali peggiori, nulla han prodotto per impedire il peggio.» Nella cittadina etnea sembrava non cambiasse niente, tutto restava fermo. «Il popolo, - ci ricorda un protagonista di quei giorni, l'arciprete Politi - (...) fremeva che a vista di Adernò, Biancavilla e Centorbi la legge della divisione delle terre comunali non s’era dato attuare per Bronte, quindi nel bollore degl’interessi e nel desiderio di vendicare torti privati che diceva ricevuti dalla Borghesia, tolto ogni freno alla pazienza, si decisero finirla una volta.» Intanto, indette nella seconda quindicina di giugno, si erano svolte le elezioni, e contro ogni previsione e speranza il partito dei comunisti ne era uscito battuto. Invece del Lombardo era stato eletto a presidente del Municipio Sebastiano De Luca, e il Barone Vincenzo Meli, uomo imbelle, a Presidente del Consiglio. «Questa sconfitta - continua il Radice - crucciò ed esasperò i proletarii, dei quali crebbe vieppiù l’esasperazione, quando invece del Lombardo venne eletto a giudice l’avv. Cesare; il quale, allargatasi la lotta nei partiti, in quell’aspro cozzare, fu non piccola causa del tragico tumulto.» «Gli interessi opposti di classe, le ambizioni deluse, la sete di vendetta, gli inveterati odii covati nel seno dei contadini resero il conflitto inevitabile, fatale. Il seme della discordia germogliò generando la mala contentezza del popolo» che male interpretando lo spirito che animava la spedizione garibaldina in Sicilia, resosi conto che si facevano solo promesse, non avendo più fiducia nei tribunali per operazioni legali né in chi gestiva il Comune, decise di scendere in piazza armato e compatto, fomentando disordini e creando un clima di terrore. Già dal mese di luglio un’immensa folla iniziò a percorrere minacciosa le vie della città gridando: Abbasso il Municipio! Abbasso i Borbonici! Viva Garibaldi! Viva Lombardo! Vogliamo la divisione! Tutti reputarono passeggera quella tempesta, e, imprevidenti non s’affrettarono a soddisfare i desideri dei contadini che, fiduciosi di potersi liberare dal giogo ducale e sicuri di potersi impadronire dell’immenso patrimonio terriero della Ducea, sfogarono il loro odio e la loro rabbia secolari con un aberrante eccidio di "cappelli" (così venivano chiamati i possidenti ed i feudatari brontesi) e di "ducali". L'eccidio era da tempo nell'aria fin dai primi giorni di agosto ed era stato quasi annunciato: un popolano, Nunzio Ciraldo Fraiunco, ritenuto demente, amplificava, infatti, gridando per le vie del Paese, sotto abitazioni artatamente indicatigli, la ripetitiva benaugurante cantilena: - "Cappelli guaddàtivi, l’ura du giudizziu s’avvicina, pòpulu non mancari all’appellu". «Saliva – continua il Radice - anche sul Casino dei civili e lì, malaugurata Cassandra, ripeteva il suo rozzo, minaccioso e fatidico sermone, condito di sali e infarcito di scempiaggini. I galantuomini, veri dementi, ridevano del matto, mentre i popolani affilavano scuri e coltelli e preparavano polveri, aprendo l’anima alla brama di selvagge vendette.» «La sera del 29 luglio fu grande e macabra serenata. Uno stormo di ragazzi, con torce accese, andavano per le vie, portando una bara, seguita apparentemente da curiosi, cantando Misere e Deprofundis sotto le case dei Borboniani, facendovi sopra il corrotto con grida e strilla lamentevoli, come si usa in morte di parenti: Patrittu meu!! Patrittu meu!! accompagnate da rare fucilate e tocchi di campana. Si diceva che facevano i funerali di re Bomba...» Forse se l’avvocato Nicolò Lombardo, capitano di una delle tre squadre di Guardia Nazionale e "leader" dei Comunali, avesse avuto dal Governatore di Catania una delle due cariche a cui sicuramente aspirava (Presidente del Municipio o Giudice), forse sarebbe riuscito a fermare in tempo la follia dei contadini. E la situazione precipitò in pochi giorni: le dimostrazioni di piazza si succedevano e sfuggirono ben presto di mano al Lombardo e, «per la dappocaggine delle autorità dei capitani del nobile corpo delle Guardie Nazionale», le sorti del paese inclinarono verso il precipizio. Alcuni capi popolo programmarono un'altra manifestazione per il 5 Agosto, domenica, giorno di festa della Madonna della Catena, perchè non lavorando i contadini nei campi (era periodo di trebbiatura), si potesse levare a tumulto tutto il popolo. Ma qualcuno, che era obiettivo della vendetta, nel frattempo era fuggito via alla chetichella, si temeva l'arrivo di soldati da Catania ed i caporioni (e non il Lombardo) decidevano di cingere d’assedio il paese e, al suono delle campane "a mortorio", di anticipare la manifestazione (la "scanna") al 2 Agosto. «La mattina del 1 agosto, mercoledì, - scrive il Radice - continuarono le dimostrazioni e le grida. La sera, (...) furono occupati i posti di Salice, S. Antonino, Zottofondo, Scialandro, Catena, Colla, Camposanto, dietro S. Vito, Sciarone Lo Vecchio. |