Insieme a quei cinque malcapitati, moriva anche lo spirito battagliero dei brontesi, tradito da Garibaldi, colui nel quale erano state riposte tante speranze
«Data la sentenza, - scrive Benedetto Radice - l’arciprete Politi andò al collegio a comunicare al Lombardo la ferale notizia; altri corsero al carcere a darne la novella al Saitta e ai fratelli Minissale. Ascoltò tranquillo il Lombardo e disse: I miei nemici hanno alfine trionfato. Dieci anni prima o dopo è lo stesso. Era questo il mio destino.»
«Quella sera - scrive Vincenzo Pappalardo - l’avvocato si preparò con serenità alla fine, sposando in articulo mortis una servetta, forse tenuta per amante, certamente bisognosa di quella parte di eredità che le nozze le avrebbero assicurato. Era l’atto di estrema magnanimità di un uomo non privo di ambiguità, eppure animato da una spinta morale e utopica enorme, un gigante rispetto a quegli omuncoli gretti e vigliacchi, meschini e profittatori che sospirarono di sollievo nel mandarlo a morte e nel ricacciare i contadini alla servitù di sempre.» (Un destino feudale, in La Ducea di Brontedi A. Nelson Hood, Bronte, 2005).
I parenti del Lombardo si presentarono al Bixio per implorare da lui di poter dare l’ultimo abbraccio al condannato; ma egli fieramente li respinse; e il povero garzone, andato a portargli delle uova, fu rimandato con dure parole: Non ha bisogno di uova, domani avrà due palle in fronte!»
- Don Nicolò Lombardo del fu Don Francesco di anni 48 (avvocato, la vittima più innocente)
- Nunzio Spitaleri Nunno (del fu Nunzio di anni 40, villico),
- Nunzio Samperi Spiridione (di Spirione di anni 27, murifabbro),
- Nunzio Longhitano Longi (fu Giuseppe di anni 40, villico) e
- Nunzio Ciraldo Fraiunco del fu Illuminato, di anni 40, villico, il cinquantenne scemo del paese totalmente infermo di mente ("simbolo vivente dell'irrazionalità della moltitudine", così lo definì Alberto Moravia),
additati come i provocatori dei saccheggi e delle uccisioni dei "galantuomini", vittime di ragioni per loro incomprensibili, all’alba del 10 Agosto 1860 venivano fucilati in presenza di tutta la popolazione nella piazzetta antistante la Chiesa di San Vito «col secondo grado di pubblico esempio».
"Il domani venerdì, verso le 8, i condannati furono condotti al luogo del supplizio. Una folla immensa di popolo, nei cui occhi leggevasi lo spavento e la compassione, seguiva in ferale silenzio il corteo. L’arciprete Politi e il sac. Radice li andavano confortando. Il Lombardo, aitante della persona, con lo sguardo mesto, con un cappello a cencio, procedeva a passi lenti, fumando un sigaro, lisciando la sua folta e nera barba, che gli scendeva sul petto, invitando i compagni a rispondere alle preci degli agonizzanti. Giunti alla chiesa del Rosario si sentirono grida e pianti. Era una nipote del Lombardo. Alzò egli gli occhi al balcone, li riabbassò, dando un profondo sospiro, e voltosi agli astanti disse: -- Sono innocente come Cristo -- Un fremito e un lungo mormorio accolse le parole del condannato, che, austero, muto continuò il suo cammino. Arrivati sulla piazza di S. Vito i cinque condannati furono posti a sedere in fila. Protestò di nuovo il Lombardo la sua innocenza, chiese in grazia di essere il primo fucilato, e volto ai compagni disse: -- Recitatemi il credo. --
Letta da un ufficiale la sentenza fu ordinato il fuoco. Caddero riversi un dopo l’altro tutti e cinque.
"Un condannato, risparmiato dalla scarica della fucileria, tenendo con la mano l'immagine della Vergine, come un talismano sul petto, gridava: - Grazia! Grazia! -
Era il matto. Gli si avvicinò l'ufficiale e gli diede il colpo di grazia". Stava Bixio con gli occhi fissi, vitrei, a cavallo, come l’angelo della vendetta. [...] I corpi dei giustiziati immersi nel proprio sangue furono lasciati fino a sera esposti al pubblico, spettacolo miserando e ammonitore. Questa esecuzione assai la plebe sbigottì, solo agli offesi soddisfece, quella per timore di peggio, questi per vedersi vendicati del danno e delle ingiurie patite". (Benedetto Radice)
Quel 10 Agosto 1860, insieme ai cinque malcapitati, moriva anche lo spirito battagliero dei brontesi, tradito da colui nel quale erano state riposte tante speranze: dal "liberatore" Garibaldi, dietro il quale anche da Bronte erano partiti dei volontari per "fare" la rivoluzione.
L’azione imposta da Bixio ai giudici della Commissione mista di guerra fu frutto di scelta freddamente calcolata. Sacrificava certamente la giustizia ma rispondeva pienamente alle necessità della politica e alle dure leggi della guerra.
Le fucilazioni dettero ampia soddisfazione alla nazione britannica i cui interessi secolari sulla Ducea erano stati seriamente minacciati dall’ondata rivoluzionaria.
A Bronte non dovevano assolutamente scalfirsi questi privilegi, che il popolo voleva abbattere e che avevano intristito ed avvilito nella miseria per molte generazioni tutta la comunità brontese.
Pochi giorni dopo Bixio annunciava che "gli assassini e i ladri di Bronte sono stati severamente puniti… la fucilazione seguì immediata i loro delitti". E - conclude il Radice - «tal fine ebbe Nicolò Lombardo. Egli andò a morte per i sobillamenti dei suoi nemici, e per soddisfazione della nazione britannica.»
«Il console inglese, affermò il Tenerelli Contessa davanti alla Corte d'assise di Catania, assalì a dispacci il Dittatore, chiedendo pronta ed efficace repressione. E siccome in quei supremi istanti l’uomo sparisce e la vita di lui non si calcola, purché si ottenga il fine, così dovettero offrirsi delle vittime ad un interesse politico momentaneo del rappresentante di una nazione straniera, fiera purtroppo del suo orgoglio e della sua dignità, e Nicolò Lombardo fu fucilato.»
E alla fine tutto tornava come prima: i "signori" al loro posto, i poveri contadini sempre più poveri. «In paese - conclude Verga la sua novella Libertà - erano tornati a fare quello che facevano prima; già i galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Così fu fatta la pace.» E il Radice aggiunge che «così ebbe fine questa sanguinosa sommossa, che ira cumulata di generazioni per soprusi e ingiustizie, mal governo del Comune, pochezza di senno e di animo nelle autorità e nei cittadini, discordia e cupidigia di potere in tutti, fruttò al paese tanto esterminio e tanta morte!»
La tragedia di Bronte si era chiusa, e non era servita a niente.
Nino Bixio avrà per tutta la vita sulla coscienza i morti di Bronte; così si esprimeva in una lettera alla moglie: "Missione maledetta, dove l'uomo della mia natura non dovrebbe mai essere destinato".
Ai brontesi non restavano che le condizioni miserevoli, la fame, il desiderio di "libertà" dalla schiavitù e dalla miseria e l’amara certezza delle promesse non mantenute.
Al primo sommario processo, fatto istruire da Bixio davanti alla Commissione speciale e concluso rapidamente con cinque condanne a morte, ne seguì un altro contro altri 145 - scrive M. Sofia Messana Virga - «imputati per reati minori, per i quali la pena prevista non era la fucilazione; vennero trattenuti in carcere in attesa di essere trasferiti a Messina per essere messi a disposizione delle autorità del luogo, le quali avrebbero stabilito il da farsi.»
Il Consiglio Civico brontese, che continuava ad essere espressione della volontà dei "cappelli", chiese ripetutamente che il processo fosse celebrato a Bronte e dal Consiglio di Guerra. Ma il Governatore di Catania si oppose ed il processo fu celebrato davanti alla Corte d’Assise di Catania tra il 1862 e il 1863.
C'è da notare anche che quando Garibaldi, dopo la vittoria del Volturno, emanò, il 29 ottobre 1860 il decreto d'indulto, lo stesso Consiglio civico dette mandato ai suoi avvocati perché si interessassero a Catania per non fare estendere agli imputati del processo per i fatti dell'agosto i benefici dell'indulto.
«E così - scrive V. Pappalardo in L'identità e la macchia - i contadini servi del Duca e di una miseria senza riscatto, che al grido di Viva l'Italia! Viva Garibaldi! avevano pensato anche loro di essere chiamati a un Paese nuovo e più giusto, venivano esclusi dalla grazia che la nuova Italia concedeva a chi pur sbagliando l'aveva aiutata a nascere.»
Il 12 Giugno 1863 iniziò presso la Corte di Assise del Circolo di Catania il dibattimento contro 51 imputati (dei 145 iniziali) "accusati tutti di attentato avente per oggetto di portare la devastazione, la strage ed il saccheggio contro una classe di persone".
Sessanta giorni dopo ("compresi 4 giorni e 4 notti aspettando il verdetto"), il 12 agosto, la Corte emise la sentenza definitiva con 35 condanne: 23 ergastoli (lavori forzati a vita), 2 condanne ai lavori forzati a tempo per anni dieci e 3 per anni venti, 5 alla pena della reclusione per anni dieci e 2 imputati rimessi in libertà in quanto "compensata col carcere subito la pena dovuta". Gli altri dichiarati "non colpevoli nè come agenti principali nè come complici", assolti da tutte le accuse e scarcerati dopo due anni di ingiusta detenzione (Processo di Bronte, Vol. 13, foglio 526).
L'arringa dell'avvocato Michele Tenerelli Contessa, un catanese che difese davanti alla Corte d'assise di Catania cinque imputati del secondo processo - "appassionata, lucidissima, d'un avvocato colto e intelligente" - è stata pubblicata recentemente dalla "C.u.e.c.m." (Catania, 1989) con una "Introduzione" del brontese prof. Gino Longhitano.
Quindici anni dopo la sentenza, nel 1878, Re Umberto I, con Regio Decreto del 19 gennaio n. 4260, concesse piena amnistia per alcuni reati (fra i quali tutti i reati politici). La Corte di Appello di Catania con sentenza n. 1057 del 1° Ottobre successivo dichiarò non compresi nella Reale amnistia i crimini per i quali 25 brontesi furono condannati ai "lavori forzati perenni" in quanto ritenuti non reato politico. Decisione condivisa anche dalla Corte di Cassazione di Sicilia il 23 Giugno 1889.
Sopra, accanto al titolo, un murales dipinto nella parete di una casa di Bronte (nella via Madonna di Loreto, il cosiddetto "Catoio") ed il Convento di S. Vito (disegno tratto dalla "Storia della Città di Bronte" di G. De Luca del 1883). Il murales, oggi quasi illeggibile, rappresentava la fucilazione dei cinque malcapitati. A seguire una foto di Bronte del 1885, l'edificio in alto è il Convento di S. Vito.
Sul piazzale antistante, vicino al portone della selva (parte destra del disegno, così detto perché immetteva in una spazioso ambiente alberato del Convento), Bixio, seguendo le leggi penali borboniche, fece fucilare l'avv. Nicolò Lombardo e gli altri quattro, ritenuti colpevoli di strage col "secondo grado di pubblico esempio".
«I corpi dei giustiziati - scrive B. Radice - immersi nel proprio sangue furono lasciati fino a sera esposti al pubblico, spettacolo miserando e ammonitore.»
La fucilazione
Dal film di Florestano Vancini «Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato» (1972) la fucilazione dei 5 condannati all'alba del 5 Agosto 1860 "col secondo grado di pubblico esempio"
Conclusione
«Occorre dire che noi, a distanza di 125 anni da quegli eventi, siamo in grado di vederli e giudicarli in rapporto a più ampi e completi accertamenti ed, anche e soprattutto, con una valutazione più serena di uomini e cose. Ma in quei giorni, nell’eccitazione del momento, quando la casa bruciava, l’unica soluzione che era proposta ai giudici era quella della condanna a morte; ma era una soluzione per difetto perché molti, troppi altri imputati, avrebbero dovuto essere dinanzi al plotone di esecuzione.
Ma, ci chiediamo, cosa sarebbe avvenuto se i 13 testimoni a difesa fossero stati convocati ed ascoltati? se si fossero ascoltate le deposizioni del sac. Rizzo, del sac. Gaetano Palermo attestanti che il Lombardo si era attivamente adoperato pel mantenimento dell’ordine pubblico, o le testimonianze dei sacerdoti Giuseppe Di Bella, Vincenzo Leanza e di altri nel senso che, come leggiamo nella comparsa proposta il 9 agosto dal difensore, “diede tutta l’opera sua a poter frenare il tumulto”.
Ma queste testimonianze sarebbero valse a togliere importanza e valore a quelle gravissime formulate, come abbiamo visto, dalle parti lese?
E come mai, ci si chiede ancora, un solo professionista e “civile”, il Lombardo fu portato a morire, assieme a 3 “villici”, quali erano Nunzio Ciraldo Fraiunco, Nunzio Longhitano Longi, Nunzio Spitaleri Nunno ed un murifabbro (Nunzio Samperi Spiridione) mentre per gli altri due “civili” imputati (il medico chirurgo Luigi Saitta e il “civile” Carmelo Minissale) fu ordinato che sul loro conto dovesse prendersi una più ampia istruzione?
Occorre dire che soltanto il cadavere di Nicolò Lombardo era il cadavere eccellente che poteva essere proposto come esempio ai malintenzionati e riottosi, alle popolazioni contadine che la secolare fame di terre poneva in agitazione e poteva facilmente condurre alla rivolta. E i responsabili di questo erano Nicolò Lombardo e i suoi compagni di fede societaria, di cui in questa sede è stata poc’anzi esaltata l’immagine.
Di lì a pochi giorni la divisione Bixio, sbarcata a Melito, in Calabria, costituì la massa di manovra per l’avanzata fulminea verso Napoli.
Bixio adempiva agli ordini ricevuti, ma sarebbe stato inchiodato a Bronte e dintorni qualora non fosse stato dato un esempio terribile ed il cadavere del Lombardo (ben noto fin dal 1848 nella provincia e in Sicilia) non fosse stato d’esempio, così come nell’età medievale ed anche, in tempi a noi più vicini, le teste dei decapitati erano lasciate alla visione del pubblico perché fossero di esempio a tutti quelli che passassero.» Salvatore Candido (Atti del Processo a Bixio, a cura di S. Scalia, Bronte 1985)
L’avv. Lombardo - affermò durante il Processo a Bixio il brontese avv. Armando Radice - «è stato il capro espiatorio che Bixio consegnerà alle nuove classi dirigenti, che hanno trovato alleanze perché non sia turbato il vecchio ordine e perché nulla cambi nella grigia, dolorosa atmosfera della nostra disgraziata terra. La sentenza della commissione di guerra non è altro che il paravento giuridico di una decisione politica che Bixio, non si sa quanto responsabilmente, ha già adottato. La lettura del suo diario, l’esame più attento del suo carteggio, ci danno la prova più indiscussa che Bixio aveva stabilito che i cosiddetti capi sarebbero stati fucilati.»
Le 16 vittime ed i 5 loro presunti carnefici, vittime a loro volta di una sommaria giustizia, furono ben presto dimenticati; nessun ricordo, cerimonia o commemorazione ebbe mai luogo nei decenni successivi.
Anzi qualche solerte amministratore, volle ricordare il Generale Bixio, dedicandogli una stretta stradina di fronte al luogo della fucilazione.
Solo dopo 50 anni, nei primi decenni del 1900, lo storico brontese B. Radice si adoperò per riscrivere questa storia, per portare alla luce lo "scheletro nell’armadio" (come lo definì L. Sciascia),di cui tutti conoscevano l’esistenza, ma di cui nessuno parlava. E ripristinare un pò di verità sui Fatti fu anche lo scopo, nel 1972, del film di Florestano Vancini, "un padano, nato a Ferrara, così lontano da Bronte".
Nel 1985 anche Bronte cercò di attirare l'attenzione sui Fatti rinviando a processo Nino Bixio. Ma la stretta stradina di fronte a San Vito continuava a portare ancora il suo nome. Anzi, in perfetto equilibrismo, a pochi metri, in una villetta antistante fu eretto allora un piccolo monumento ai cinque malcapitati da lui fatti sommariamente fucilare.
Nessun pubblico ricordo, invece, per i sedici "cappelli" trucidati dai rivoltosi. Dovevano passare 150 anni dai Fatti per essere in qualche modo richiamati alla memoria. Nel 2010, nel 150° anniversario dei Fatti, il Comune di Bronte ha fatto murare su una parete del Convento una lapide con i 21 nomi (quelli delle 16 vittime e dei 5 loro presunti carnefici) «tutte vittime del cruento eccidio avvenuto a Bronte nel 1860. Il loro perenne ricordo nella storia e nei nostri cuori a custodia della pace».
Nel 2010, dopo qualche polemica, anche il nome di Nino Bixio è scomparso dalla toponomastica brontese: la stretta stradina di fronte al convento è stata chiamata Via Libertà ("Nino Bixio non merita una via", ha dichiarato il sindaco). In modo analogo si sono comportati anche altri Comuni tra i quali vogliamo citare Rometta Marea che, nel 2018, ha ridenominato via Bixio in via Vittime dell’eccidio di Bronte.
Nessun onore o ricordo invece Bronte ha voluto riconoscere a quel vecchio patriota di educazione liberale, conosciuto in tutta la Sicilia, sostenitore e capo del partito dei «comunisti» (fautori degli interessi del Comune, in contrapposizione con il partito dei «ducali», sostenitori degli interessi della Ducea) fatto fucilare da Bixio per dare un esempio e per soddisfazione della nazione britannica. Bronte si è sempre dimenticato di questo liberale che ha difeso sino alla morte gli interessi del Comune e dei brontesi.
Vedi in merito anche Chi dici Nicò, una canzone dedicata all'avv. Nicolò Lombardo da un cantautore siracusano.
10 Agosto - Il matrimonio di Lombardo
L'atto di matrimonio dell'avv. Nicolò Lombardo con Maria Schilirò celebrato "in articulo mortis" dall'arciprete Salvatore Politi nelle prime ore del 10 Agosto 1860, poco prima di essere fucilato:
«N. 55 D. Nicolaus Lombardo, Die 10 augusti 1860.
Nullo habito canonico impedimento abque dispentatio nobis, quia periculum erat mortis; ego sacerdos D. Salvatoris Politi arcipretis et unicum parrocus I.S.M.E.C.B. (In Sancta Mater Ecclesieae Communis Brontis) interogavi D. Nicolaus Lombardus filium quondam D. Francisci et viventis D. Carmela Dinaro anni 49 et Mariam Schilirò viduam relictam Antonini Calanna filiam quondam magistri Vincentii Schilirò et Dominica Calaciura, anni 44; eorumque mutuo consenzu habito cum verba solenniter presenti matrimonio coniunxit juxta riti Sancta Romana Ecclesiae presentibus testibus notis Sac. D. Benedictus Melis et Magistri Ignazius Pettinato.»
(«55. - D. Nicola Lombardo - Il giorno 10 agosto 1860 Non essendovi nessun altro impedimento canonico che ci dispensi, poichè c'era pericolo di morte, io, Salvatore Politi arciprete e unico parroco I.S.M.C.B. (nella Chiesa Madre del Comune di Bronte), ho interrogato don Nicola Lombardo figlio del defunto Don Francesco e della vivente Donna Carmela Dinaro di anni 49 e Maria Schilirò vedova di Antonino Calanna e figlia di Mastro Vincenzo Schilirò e Domenica Calaciura, di anni 44; avuto solennemente il loro reciproco consenso li ho uniti in matrimonio in presenza dei testimoni conosciuti Don Benedetto Meli, sacerdote e Mastro Ignazio Pettinato secondo il rito della Santa Chiesa Romana.»)
(traduzione di N. Longhitano)
12 Agosto - Gli assassini sono stati puniti
Col proclama del 12 Agosto Bixio annuncia agli abitanti della provincia di Catania che a Bronte giustizia è stata fatta!
ABITANTI DELLA PROVINCIA DI CATANIA
Gli assassini, ed i ladri di Bronte sono stati severamente puniti -- Voi lo sapete! la fucilazione seguì immediata i loro delitti -- Io lascio questa Provincia -- i Municipi, ed i Consigli civici nuovamente nominati, le guardie nazionali riorganizzate mi rispondano della pubblica tranquillità!...
Però i Capi stiino al loro posto, abbino energia e coraggio, abbino fiducia nel Governo e nella forza, di cui esso dispone.
Chi non sente di star bene al suo posto si dimetta, non mancano cittadini capaci e vigorosi che possano rimpiazzarli.
Le Autorità dicano ai loro Amministrati che il governo si occupa di apposite leggi e di opportuni legali giudizi pel reintegro dei demanî Ma dicano altresì a chi tenta altre vie e crede farsi giustizia da se, guai agli istigatori e sovvertitori dell'ordine pubblico sotto qualunque pretesto. Se non io, altri in mia vece rinnoverà le fucilazioni di Bronte se la legge lo vuole. Il comandante militare della Provincia percorre i Comuni di questo distretto. Randazzo 12 Agosto 1860. IL MAGGIORE GENERALE G. NINO BIXIO
12 Agosto - Parla il Generale Sig. Bixio
Governo della Provincia di Catania
Car. 4. Num. 2837 Oggetto: Provvedimenti del Generale Sig. Bixio in Bronte ed altri Comuni Catania 12 Agosto 1860.
Signore, Il Maggiore Generale Comandante la 1.ma Brigata, 15.ma Divisione dello Esercito Nazionale Sig. Nino Bixio, nel darmi ragguaglio di quanto ha praticato in Bronte per ritornarvi l’ordine e la tranquillità, che da una mano di agitatori e faziosi si erano compromessi, disonorando infamemente la santa causa della rigenerazione, mi ha fatto conoscere, come percorrendo egli più Comuni di questa provincia, ha dovuto accorgersi che in taluni paesi le Autorità costituite ed i buoni cittadini, mancano di energia, di accorgimento e finanche di coraggio civile: dapoichè tutti gridano all’armi, egli dice, ma nessuno fa il debito suo, i Delegati, i Presidenti de’ Municipi e i Comandanti delle Guardie Nazionali hanno bisogno di una lezione: sicchè per principale misura di emenda ritiene quella di non più prestarsi a soccorrere i Comuni in disordine, se prima i rispettivi funzionari non provino di stare fermi al loro posto, e segnatamente i Delegati informati di ciò che succede, e de’ soggetti che muovono gl’ignoranti.
Nel disarmo di Bronte, soggiunge il signor Bixio comparvero altri 300 fucili d’individui che in Sicilia si chiamano galantuomini, e che noi chiamiamo vigliacchi: perché non si difesero? Perché non lo tentarono?
Tutti disertano il loro posto griando ajuto, e i pochi ignoranti o tristi, guidati da uomini più tristi ancora, che per essere Presidenti, Delegati o Comandanti delle Guardie azionali, inconsci forse di chi li muove al delitto, si fanno nell’ombra i daci di una guerra infame verso i loro nemici d’influenza, che occupano forse i posti ai quali costoro agognano – Questa sete d’impieghi è in Sicilia una lue disonorevole – Ed io non so comprendere come i buoni dell’Isola non si accorgano che di questo passo, dallo applauso universale si andrà alla compassione – e guai ai popoli che si compatiscono! Da ultimo il Generale Bixio ha dichiarato che dato l’esempio di Bronte, egli non ad altri si rivolgerà con misure di rigore che a’ Capi dell’Amministrazione, ai Delegati, ed ai Comandanti le Guardie Nazionali, che ne’ paesi in fermento non siano al loro posto. Dando poi uno sguardo al Clero, dichiara non rimanerne affatto contento.
Or io partecipo tutto ciò a Lei per la debita intelligenza e per tutti gli effetti di risulta mento.
Per Governatore, Il Segretario Generale Carlo di Geronimo
Dopo i sanguinosi fatti di Bronte, eliminato anche sommariamente uno dei pochi intralci che si erano creati allo svolgimento dell'impresa dei "Mille", la "liberazione garibaldina" continuava, riprendeva il suo corso. Ma malgrado la "liberazione" e l'unificazione italiana del 1861, malgrado le promesse ed i proclami, i Duchi erano rimasti nella Ducea e gli altri privilegiati ai loro posti.
«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» diceva in quei giorni Tancredi al Principe di Salina, suo zio. E, a Bronte, il ceto dominante o agiato si era subito ben adattato alla regola accogliendo la nuova situazione politica e sociale anzi simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e tutti i privilegi. E Bixio aveva facilitato il compito lasciando il terreno sgombro anche del liberale Nicola Lombardo.
Fallita anche la sanguinosa rivolta brontese, chi avrebbe più potuto togliere ai Nelson-Bridport le terre della Ducea per dividerle fra i contadini di Bronte o di Maniace o di Maletto se non il nuovo Stato italiano? Ma anche le speranze di un intervento in questo senso furono presto deluse. Da quella fallita sollevazione popolare, anzi, derivò altra repressione e la secolare lite fra il Comune e i discendenti di Nelson continuò per altri cento anni. Il regime di feudalità vigente a Bronte non fu superato neanche nel periodo fascista, nonostante l'accesa rivalità con la Gran Bretagna.
Pochi mesi dopo la sanguinosa rivolta popolare repressa con tanta violenza da Bixio, nelle elezioni del 21 Ottobre/4 Novembre 1860, i brontesi votarono nella Chiesa di San Giovanni all'unanimità la formazione della nazione italiana unificata sotto Casa Savoia: «Bronte, votanti millenovecentonovantaquattro, tutti pel si». Il prof. Placido De Luca fu eletto nel primo Parlamento italiano (primo nel Collegio di Regalbuto con 334 voti su 455); raggiunse Torino, dopo un lungo viaggio, nel Febbraio del 1861.
- Gli atti del processo istruito a Bronte dalla Commissione Mista Eccezionale di Guerra (7/10 Agosto 1860);
- Il diario di Nino Bixio. Quello che che scrisse nei giorni trascorsi a Bronte, una sorta di taccuino di appunti, dove elabora i testi dei decreti da emanare, degli avvisi da diffondere alla popolazione, degli ordini da conferire ai suoi subalterni e della corrispondenza da spedire.
-Nino Bixio a Bronte, l'integrale monografia di B. Radice (tratta dal II° volume delle Memorie storiche di Bronte);
- L’arringa di Tenerelli Contessa, l’appassionato intervento dell'avv. Michele Tenerelli-Contessa nel processo contro i rivoltosi svoltosi nel 1863 a Catania davanti alla Corte di Assise (37 condanne tra cui 25 ergastoli).