Bronte trae origine da un gruppo di casali (erano 24 quelli unificati per ordine di Carlo V nel 1535) popolati da poveri contadini e da pastori, sempre angariati, oggetto di sopraffazioni di ogni genere e perennemente in lotta per l’esistenza. I suoi abitanti hanno conservato quindi una natura fortemente determinata, libertaria e raramente disponibile al compromesso, cosciente e gelosa dei propri diritti, che sa all’occasione rivendicare e far rispettare. Forse non a caso ha dato i natali a chi per primo parlò dei diritti dell’uomo in Italia: il filosofo Nicola Spedalieri, che, a proposito di diritti, scriveva, "più che si vedono conculcati, più si stimano; e, più si stimano, più vivo si sente il desiderio di vendicarli". E di diritti conculcati il popolo brontese ne ha avuto a iosa: - secoli di sfruttamento, di vassallaggio e di malgoverno, liti secolari tra il povero Comune e l'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, primo padrone di Bronte dal 1491; - lotte e azioni giudiziarie contro i discendenti di Horatio Nelson (nuovi e "più raffinati" padroni dal 1799, pronti a difendere i loro presunti diritti e a reclamarne di nuovi); - continui scontri anche contro gli esattori di Randazzo, che manteneva certi diritti, con i relativi introiti, derivanti dall'antico contestato "mero e misto impero". In merito è indicativo il lungo elenco riportato dallo storico brontese Benedetto Radice delle angherie, dei soprusi, degli illeciti e delle estorsioni che i poveri brontesi dovevano subire dagli ufficiali che esercitavano il diritto di mero e misto impero. «Nel secolo XIV e XV - scrive B. Radice - la vita del piccolo casale come degli altri è ignorata completamente. Manca ogni manifestazione di viver civile. I villani semiselvaggi, dediti al lavoro dei campi, vivevano sparsi qua e la nell’ampio territorio. Erano afflitti da guerre, terremoti, carestie e pesti che allora avevano invaso tutta la Sicilia; dai banditi che liberi scorazzavano e infestavano le campagne; da interdetti religiosi che li privavano della comunione della Chiesa per via delle guerre fatte dai re contro i pretesi diritti papali sulla Sicilia; da collette che erano peggio dei banditi e delle cavallette d’Egitto; dalle scorrerie di soldataglie e dalle giornaliere estorsioni e composizioni degli ufficiali di Randazzo.» Cambiava nel corso dei secoli l'avversario contro cui lottare ma la condizione di vassallaggio e di povertà dei contadini brontesi non mutava mai. Non è un caso, quindi, che i siano stati anche protagonisti in buona parte dei moti siciliani tendenti ad affermare i principi dell’autonomia e dell’indipendenza: dalla sommossa del 1636 contro l'oppressione politica ed economica di Randazzo e di Palermo alla ribellione, a fianco di Palermo, contro il governo borbonico del 1820 che auspicava il ripristino della Costituzione siciliana del 1812, ai moti del 1848-1849 (l'anno delle rivoluzioni abortite per l'Italia), a quelli del 1860 (i più tristemente famosi fatti) che procurarono a Bronte l’accusa infamante di "lesa umanità" come sbrigativamente dichiarava Nino Bixio, responsabile artefice di un massacro che soffocò nel sangue l’anelito di libertà da secoli sospirata, per chiudere, infine, con lotte e le manifestazioni per l'applicazione della Legge di Riforma agraria promulgata dalla Regione Siciliana il 12 Dicembre del 1950 ed applicata a Bronte solo dopo oltre un decennio. | «Le istanze di libertà movevano nel comune di Bronte da condizioni in parte diverse da quelle di altri paesi, che pure si sollevarono, del circondario. Da più di tre secoli Bronte lottava per i suoi diritti: fin dal 1491, anno in cui Innocenzo VIII aveva fatto, a danno del comune, larghe donazioni; ancora più larghe, e più pesanti per i brontesi, rese da Ferdinando I nel 1799. Il territorio del comune si era assottigliato fino a sparire sotto le pretese, cavillose e crescenti, dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo prima, e dei duchi di Bronte (che erano, come è noto, gli eredi dell’ammiraglio Nelson: e sono) successivamente. Pesantissime erano le decime ecclesiastiche, tramutate si nel tempo in canoni.» (Leonardo Sciascia, I fatti di Bronte) Scrive Vincenzo Pappalardo che «i dati del 1756 dicono che la proprietà feudale ammonta al 90,48%, distribuita in terre che appartengono all’Ospedale di Palermo, ma anche al marchese delle Favare (Foresta Vecchia e Cattaino), al duca di Carcaci (Placa), al principe di Cutò (Bolo). Il rimanente 9,52 % è di proprietà allodiale, cioè borghese, quantunque i piccoli proprietari fossero tenuti al pagamento di censi e canoni al feudatario. Quanto fosse drammatica la situazione del demanio è detto dal computo del patrimonio totale, che vede Bronte proprietaria di appena lo 0,99%, intendendo per esso la somma dei beni mobili, immobili e delle rendite. Anche l’Etna fece la sua parte, spazzando quei boschi che nella vicina Maletto continuano ancora oggi a dare le noci, le castagne, le mele e le pere selvatiche, con le quali i contadini che le piantarono trovarono per secoli cibo per l’inverno e un surrogato alla farina per impastare il pane.» (La Ducea di Bronte, Postfazione) Nella foto sopra dei primi anni della fine del 1800 (foto Danesi Roma, ricolorata) un gruppo di soldati si riposa in uno spiazzo sito all'ingresso del paese (attuale rifornimento Agip). |
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Gabelle, Censi, Décime, Dazi, Tasse, ...
Oltre alle carestie, alla malaria, alle pestilenze di ogni genere, all'Etna ed ai ladri che infestavano le campagne, i brontesi, veri vassalli, furono costretti a subire per secoli anche numerose angherie, prepotenze e vessazioni di ogni tipo. Odiate e insostenibili erano le gabelle, le decime o le mezze decime: imponevano la trattenuta a favore del padrone di turno di una decima parte (o mezza decima se prodotto fuori territorio) del raccolto di prodotti quali frumento, segala, orzo, legumi, vino, olio, cacio, etc., imposte con la forza dai vari padroni del territorio brontese succedutisi nei secoli (la Chiesa, poi l'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo e, dal 1791, Nelson ed i suoi discendenti). Pagava sempre la povera gente, i ricchi ne godevano i vantaggi e gli introiti andavano in massima parte, quasi la metà, alla Chiesa o alla Gran Corte, cioè al governo di allora o (dal 1491 al 1799) ai "pii" rettori dell'Ospedale grande e Nuovo di Palermo o (dal 1799) ai Nelson: "paga della università (della città di Bronte) alla R. Corte et donativi et laude", onze 300 su 630 di introiti nel 1607; il resto veniva distribuito in poveri salari agli addetti ai pubblici servizi ed a spese quasi ridicole: salario all'organista (8 onze), "al detentore che tiene i libri" (2 onze), al tesoriere o "alla persona che governa l'orologio" (3 onze), elemosine, scascio ai preti, spese di giudizi e... anche una quota a chi andava a pigliare l'olio santo ...a Monreale (2 onze). Ad imporre gabelle avevano iniziato i conquistatori Arabi quando nell'anno mille invasero la Sicilia: «I Musulmani, scrive B. Radice - oltre il Khârag "tassa fondiaria", sottoposero pure i vinti, detti dsimmi (vassalli umiliati), al pagamento della pia, tassa per l'esercizio del culto e per essere lasciati nel possesso dei beni.» «Nonostante però la miseria, le carestie, i dazii, - continua riferendosi ai secoli seguenti - anche la fede traeva dalle tasche dei fedeli altro denaro a beneficio della santa crociata in auxilium et subsidium regiae classis contra turcos et infideles.» Vi diamo alcuni esempi delle tante gabelle in vigore a Bronte dal 1500 al 1800 alcune riportate dallo stesso storico nelle sue Memorie storiche di Bronte (Bronte, 1926), altre riscontrate nell'Archivio storico dei Nelson: | del macinato o della macina | La gabella colpiva il frumento e tutti quei generi portati al mulino per ridursi in farina: "consiste che si paga da ogni persona che macina tarì 4 e grana 16 per ogni salma di frumento, orzo e segala". La "classica" tassa sul pane di infausta memoria. (un "grano" corrispondeva a lire 0,02 del 1862, un "tarì" a lire 0,42 ed un "onza" a lire 12,75). | del salame | "La gabella del salame consiste pagarsi tarì tre per ogni barile d’ogni cosa salata, tarì sei per ogni carico di pescame e tarì uno per ogni cantaro di formaggio, et tari uno per ogni rotolo d’oglio ed altre minuzzarie". | della carne | detta anche del macello o della bocceria (consiste che si paga grana 2 per ogni rotolo) che comprendeva la privativa del macello (jus macelli e jus scannagi) e quella della vendita della carne "nella Bocceria". | del vino | Come la privativa della carne: solo il gabelliere del padrone poteva vendere vino al minuto, gli altri per vere tale facoltà dovevano pagare una tassa al gabelloto. | della panetteria o del pane | "La gabella della panetteria consiste in zagato di non potere fare pane, nè altra cosa di pasta cotta nessuna persona senonchè li gabelloti e suoi sugabelloti con aggregazione di grana 10 per tumino di formento che si smaltisce". | della seta | Diritto di tarì uno sopra ogni libbra di seta che si estrae dalli mangani in Bronte, è la dicitura inserita nell'atto di Donazione a Nelson dello Stato e terre di Bronte. (A.N., vol. 303-d, p. 109) | della statìa | (o della stadera, jus statere seu celandre ponderature, una delle più antiche gabelle introdotta dall'Impertore Federico) che colpiva la vendita all'ingrosso delle merci che dovevano essere pesate con le stadere e altre misure regie. | del maldenaro o mal tolto (male tollectum) | "La gabella del maldinaro consiste di pagarsi tarì uno per salma, così del frumento che dell'orzo, ed altri ligumi, tarì uno per onza del bestiame che si vende, ed ogni altra cosa, così commestibile, come potabile, e dell'estrazione di ogni cosa, et uno per ogni libra di seta". La tabella era detta "maldenaro" perchè odiata da tutti. Veniva tassata anche la neve ghiacciata che i brontesi prelevavano in estate dalle pendici dell'Etna e portavano a Bronte ("per ogni rotolo di neve, grana due"). Questa gabella era stata istituita dal Comune nel 1651 per poter pagare gli interessi di un mutuo ottenuto dall'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo per l'acquisto del diritto di Mero e Misto Impero dal Re. Purtroppo una devastante eruzione dell'Etna avvenuta quell'anno arrecò tali danni al patrimonio brontese da non poter pagare il mutuo e l’Ospedale traendo profitto dalla disgrazia s’impossessò di tutti i beni del Comune. Dieci anni dopo, nel 1661, e nel 1716, si pervenne ad una transazione, con la quale Bronte si obbligava al pagamento del suo debito e l'Ospedale alla restituzione dei beni distratti. Del mutuo insomma non se ne parlò più ma la tassa del maldenaro rimase in vita ancora per alcuni secoli. | del formaggio | Colpiva la vendita di formaggio o ricotta (e anche il vino) fuori del territorio: "consiste di aversi a pagare per ogni persona che vende formaggio fuori il terriere tarì tre per cantaro (80 Kg.) e tarì uno grana dieci per ogni cantaro di ricotta e similmente in caso d’estrazione" | della caccia e della petra | "La gabella della caccia consiste di non potersi uscire nessuna sorte di caccia, aggregata a detta gabella tarì uno per ogni carico di petra s’estrae". E c'era anche la gabella dei canali (delle tegole). | della fogliame | "La gabella della fogliame consiste d’avere a pagare d’ogni sorta di cosa d’ortaggio grana due per carico". | del mortigio | o dei mortizzi o delle primigie, imposta fin dal 1616 su ogni famiglia, “destinata ad aumentare il peculio della comunità del clero”. Era riscossa direttamente dal Comune «per risparmiare al prete riscotitore qualche legnata». Infatti “siccome la tassa era invisa al popolo, il prete riscotitore, invece di denari, riscuoteva villanie e, a volte, bastonate”. Anche quando si moriva non c'era pace, la morte era tassata: la gabella, infatti, non era altro che un contributo forzato a favore del clero per il seppellimento dei cadaveri e l'accompagnamento "vestiti di cotta" al cimitero: "si pagava tarì tre per ogni fuoco, per avere diritto, dopo morte, di essere associato alla chiesa" (solo nell'Aprile del 1880 il Comune iniziò a costruire il Cimitero). La Gabella, odiata dalla popolazione brontese, pur abolita da re Ferdinando nel 1781, continuò ad essere riscossa per quasi tutto il XVIII secolo. |
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| Come si vede niente sfuggiva all'occhio rapace del fisco. Nel 1606 l'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo pretendeva per ogni piede d'olivi un tarì per piede; nel 1718 riscuoteva a Bronte anche le decime «dell'oglio, dei musti, dei formaggi, dei cereali» ed anche «del legno morto» e «delli porci» e per rientrare delle spese notarili anche «la gabella del maestro Notaro».
Il territorio brontese era (lo è ancora) ricchissimo di boschi ma alla popolazione si vietava anche nei più rigidi inverni "il taglio di qualunque specie di legno fosse verde o secco nelli boschi, e territori di essa terra sotto la penale di onze 4". E si poteva finire in carcere anche per un pò di neve: nell'agosto del 1774 «tale Ignazio Vellino, malettaro» era arrestato per contrabbando di neve presa ai piedi dell'Etna, nella Cognera del Leone del Feudo della Nave, senza aver corrisposto la relativa gabella ai "pii rettori" dell'Ospedale. (A.N., vol. 86) Oltre a queste numerose e fantasiose imposizioni fiscali, per mungere e tosare in modo completo i poveri contadini e i pastori brontesi, la mente fine degli "ufficiali" del fisco aveva inventato
- la tassa sull'aratro ("tarì cinque per ogni aratro o pertica", una specie di imposta sugli strumenti indispensabili per il lavoro dei campi), quella sul carbone o sulla legna, - la gabella della Dogana (per le merci d'importazione), - quella dell'Uscitura (o Exitura), un dazio sulle merci esportate che colpiva "li gabelloti, Borgesi, Inquilini ed altri" ed anche tutte le “persone estere” che venivano a Bronte a comprare qualcosa. Es.: "tarì uno per salma sopra il formento e gr. dieci per ogni salma d'orzo che li forestieri estraono da codesta Terra", (bando del 1640, v. Arch. Nelsoln, vol. 75, p. 81). Non sfuggiva niente, si doveva pagare su "animali di qualsisia specie" e su "tutti li generi, cioè formento, orzo, ligume, formaggi, musto, vino, caciocavalli, lane, lino, fogliame, cipolle, carichi di legname e tuttaltro di commestibile che di potabile che si estraevano" (p. 39). - La gabella dello Zagato (o della potia, diritto o privilegio di vendere una cosa, in pratica diritti di "privativa" per poter vendere salami, formaggi, olio e persino il pane, in tempi di carestia), - della buona tenenza (sul possesso di beni stabili, una specie di tassa sul patrimonio) e anche tasse per il trasporto dell'olio santo da Monreale, per l'elemosina del predicatore, - e le Collette, imposte, prima straordinarie da riscuotersi solo in pochi casi (matrimonio delle figlie e sorelle del re, incoronazioni, invasioni), ben presto trasformate in ordinarie (si riscuotevano praticamente ogni anno). «Nel 1443 - scrive il Radice - per la colletta straordinaria detta delle usure contra tutti usereri, tagliaturi, e falsaturi di moneta o meglio per il bisogno che il re aveva di denaro, Bronte fu tassato in onze tre; altre onze tre pago per la colletta ordinaria dello stesso anno. Nel 1646 pagò onza una e tarì sedici, più per li cambi et spisi di lu ambasciaturi tarì nove e grana dieci, e per complimento et contingenze dict brachii militaris tari dieci e grana.» E nella seconda metà del 1700 i rettori dell'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, i padroni assoluti di Bronte dell'epoca, riuscirono a tassare anche i forestieri con «il diritto di grana 1 sopra ogni cavalcatura degli esteri molettieri che saliscono e scendono da Bronti» (foto a destra, tratta dall'Archivio storico Nelson). E non mancavano le collette e i donativi che periodicamente il Parlamento offriva a S. M. il Re. Ogni motivo era buono. Nel 1649, per pagare la rata di onze 47, tari 9 e grana 2 (quota che toccava a Bronte sul donativo di 30mila scudi stabiliti dal Parlamento siciliano), i giurati non sapendo più dove spillarlo stabilirono di far pagare 1 onza a ogni persona che faceva pane in casa. Per un altro donativo stabilito dal General Parlamento di Palermo il 5 Aprile 1778, in relazione alla numerazione delle anime (censimento) del 1748, a Bronte toccò di offrire ben 184 onze, 20 tarì e 15 grani (80.000 € ca.); nel 1758 furono 181.0.19 onze, nel 1794 6.15.17 (A.N., vol. 164). Alla fine, non avendo più nulla da tassare, si riducevano d'autorità i salari e si annullavano le spese per le opere pubbliche. Così il nel 1645 - continua il Radice - il Comune stabiliva che: «1. si discali il loero (pigione) della posata (la posata o pusenta, era il dritto degli ufficiali del regno di albergare gratis, quando venivano in Bronte); 2. che l’orgo (l'orzo) si venda al zagato; 3. che non si facciano più domande per licenze d’acqua, strade, bastardetti, pellegrini; 4. che si paghi solo l’elemosina di una messa da dirsi nella chiesa Madre; 5. che il salario dei giurati, da onze sei, si riduca ad onze quattro ogni anno; il salario dell’organista da onze diciassette ad onze sei. Infine si abolisca il salario dall'avvocato.» Il povero Comune, poi, oltre alle «elemosine» e cioè alle contribuzioni in denaro e generi vari (carne, frumento, legna, carbone) concesse ai conventi del paese in occasione di feste e ricorrenze religiose, doveva pagare pure «lo scasciato» (o scascio): un contributo corrisposto ai sacerdoti, chierici e diaconi ritenuti dalla legge persone privilegiate, non soggette a pagare imposte. Ed erano veramente tanti: si pensi che nel 1681 su una popolazione che non superava le diecimila unità, esistevano 47 sacerdoti, 5 diaconi e 27 chierici. Nel Bilancio del 1717 la voce Scasciati e Franchezze dell'Ecclesiastici (immagine a destra) ammontava a 83 onze sul totale di 2.137 onze (Arch. Nelson, vol. 106, p. 296). «La tabella dei conti del 1681/82 - scrive Vincenzo Pappalardo - mostra come, con lo scasciato e le elemosine varie, il 13,9% degli introiti comunali fosse appannaggio del clero» (Un destino feudale in La Ducea di Bronte di A. Nelson Hood, Bronte, 2005). E - concludendo con il Radice - «come il secolo XVI, così finiva il secolo XVII: tasse, tasse, tasse; nessuna opera pubblica: nè strade, nè acqua e il popolo pagava. Gli Spagnuoli non sapevano fare che mungere e tosare di prima e di seconda mano. Si può ripetere l’epigramma che Francesco Longano ricorda nel viaggio per il Molise e la Capitanata: Se tosan un po’ più le pecorelle Gli uomini in breve si potran dipingere Non senza panni no, ma senza pelle.» E non mancò neanche una patrimoniale ante litteram: per mantenere un agente a Palermo, il 2 aprile 1691 i Giurati venivano autorizzati con lettere viceregie ad applicare «una tassa d’onze cinquanta esigente da tutti li facultosi eu persone commode» escludendo e esentando «li giornateri che campano col suo travaglio senza facoltà nessuna e li poveri e miserabili» (A.N., vol. 150, pag. 11). Giova infine anche ricordare gli altri balzelli inventati dagli amministratori inglesi che dal 1799 reggevano l'immenso feudo della Ducea (benevolmente regalato a Horatio Nelson da Ferdinando I): «Gli amministratori inglesi dissotterrano un polveroso armamentario di jus, gabelle, pedaggi e angherie varie da far invidia alle pagine più sinistre dell'oscurantismo medievale. I feudi di Fioritta, Mangione, Tartaraci, Casitta, le masserie del Roccaro con le difese e terre comuni seminate vengono esclusi dai tradizionali usi civici; viene inoltre introdotto uno jus pascendi, fino a 16 tarì per centinaro, un diritto di sorta per gli animali pascolanti nelle stoppie. Dal forziere degli orrori vengono persino riesumati i balzelli in natura: un mondello in frumento per ogni vacca lattante, la decima sui caci e sui suini.» Nel 1830 una sentenza della Commissione feudale stabiliva che toccava al Duca la decima del prodotto del latte delle pecore e capre pascolanti (...) che consisteva nell'intiero fruttato di una giornata per ogni 10 giorni. Nel 1850 veniva inventata anche una "tassa sulle aperture" (balconi o finestre e ingressi di bottega). Quando poi le "gabelle" cambiarono nome e presero quello di "dazi" e, nel 1911, si tentò l’istituzione di nuovi balzelli (“sul carburo di calcio, mobilia ed altri oggetti manifatturati”) e di aumentare quelli sul vino, il mosto ed il pesce e di istituire un deposito “corrispondente al dazio di ogni animale da allevarsi dentro la cinta muraria” (e cioè lire 50 per ogni animale bovino, L. 12 per ogni suino e L. 2 per ogni pecora o capra), il popolo brontese non ne potè più e, in due ore di vera follia, distrusse e brucio tutti i "casotti" del dazio posti alle entrate del paese. | «... E cadevano contravvenzioni (generalmente per evasioni al balzello del macinato e quasi sempre convertite in carcere), pignoramenti per usure non pagate, tassazioni arbitrarie, accuse di furto (di solito per legna raccolta nei boschi ducali o comunali). (...) Per dare un'idea di come si procedeva nelle tassazioni, stralciamo da due ricorsi: «Come si poté tassare il supplicante per once due e tarì quindici quando i primari del paese, e specialmente i decurioni, possessori di gran vigneti e possessioni si trovano tassati per pochi baiocchi, mentre dovevano essere significati in una grandiosa somma?» «Giuseppe Minio Basciglio viene di sentire di essere stato considerato nel ruolo del vino e vino mosto. Riescirebbe troppo lunga voler raccontare la industriosa maniera per vivere la vita con la sua famiglia. Non possiede vigneti, non possiede terre adatte all'agricoltura, ma solo si adatta a raccogliere e vendere delle erbe sarvatiche in quella pubblica piazza come ognuno potrà farne attestato» (aprile 1853). E quando i guardaboschi della signora duchessa di Bronte o quelli del comune sorprendevano qualcuno a far legna, erano guai grossi: un'ammenda pari al valore dell'albero vivo e non della legna, e non meno di un mese di carcere. Si trovano registrate ammende fino a 39 ducati: somma che il bracciante non riusciva a buscare in tutta una vita.» (Leonardo Sciascia, Introduzione alla ristampa del libro di B. Radice Nino Bixio a Bronte, Edizioni Salvatore Sciascia, Caltanissetta 1963) - Nella foto Guardie della Ducea (1885 circa) |
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