«Il paragone del serpe che depone la spoglia è ornai vecchio arnese retorico, e pure non ne trovo di meglio a significare il villano che, durante la messe, dà un calcio alla mitezza dell'indole, alla tranquillità abituale, al rispetto verso le classi più rispettate, e assume il ghigno feroce, il linguaggio a fil di rasoio, gli atti provocatori di un demagogo. Il villano quando si reca a mietere porta con sé l'asino, il cane, la moglie o una parente, e se non ne ha, ne fitta qualcuna; guarda dall'alto al basso, insulta, provoca, satirizza sul vino, sul pane, sul companatico che imbandisce il proprietario del fondo, e pure non cessa dal mangiar cinque volte, e dal bere ventiquattro in un giorno; e a spese del proprietario deve mangiare anche la moglie, che spigola pel marito, e il cane che in un mese si rifocilla delle astinenze di un anno, e l'asino che spesso è legato in modo da sbocconcellare i covoni. Il padrone sputa amaro come il veleno, ma guai se sbocchi in un rimprovero, in una rimostranza, in un semplice avvertimento: il mietitore alza la voce, risponde agro e superbo, e, slegando l'asino, s'incammina a partire: e allora il padrone a supplicarlo, e quasi quasi a chiedergli scusa. Quando passa qualcuno per quei viottoli, uomo o donna, prete o cappello, si alza un sonorissimo concerto di urli, tramezzo ai quali si armonizza una sfuriata d'ingiurie ... Se poi passa uno sbirro, povero lui! Più non son urli, ed ingiurie, ma una tempesta di fischi e di pietre». Così Serafino Amabile Guastella nell'introduzione ai Canti popolari del circondario di Modica (Modica, 1876). E allo stesso Guastella dobbiamo la trascrizione di un canto della messe, cioè della mietitura, che è il più straordinario documento, il più diretto, in cui ci si possa imbattere relativamente al contadino siciliano qual era nel secolo scorso e fino alla seconda guerra mondiale: qual era effettivamente, sotto le apparenze di una religiosa rassegnazione all'immutabile destino. […] È il canto della scatenata anarchia contadina, dell'odio verso ogni altra classe e categoria sociale, della devastazione di ogni valore, anche del valore stesso cui il mondo contadino dava, e continuava a dare, tragico tributo: la fedeltà della donna, l'onore. Al Guastella pare di trovarsi di fronte ad un altro uomo; ad un uomo ben diverso - nelle esigenze, nel comportamento, nel linguaggio - da quello che per tutta un'annata ha curvato la schiena nel lavoro di zappa, ha pagato le decime e i balzelli, ha tremato davanti ai padroni e ai campieri, si è inginocchiato davanti al prete, ha implorato bottegai e mastri di fargli credito. Ma è, in realtà, l'uomo che poteva venir fuori dalla pelle dell'altro: solo che Serafino Amabile Guastella, nobile di Chiaromonte Gulfi, non è in grado di accorgersene; di capire che sotto l'apparente mitezza, la tranquillità, il rispetto non poteva non nascondersi l'affilato disprezzo, il bruciante rancore, la feroce rivolta. Le condizioni del bracciale di campagna erano tali, e tale la considerazione in cui gli altri - dal nobile allo sbirro, dal prete al conciapelli - lo tenevano, che viene perfettamente in taglio questo passo di La Bruyère: « Si vedono certi animali selvaggi, maschi e femmine, in giro per le campagne, neri, lividi, nudi e bruciati dal sole, curvi sul terreno che rimuovono e scavano con una straordinaria ostinazione. La loro voce, però, è quasi del tutto articolata e quando si drizzano, mostrano un viso umano: ché in effetti sono degli uomini, e a notte sopraggiunta si ritirano nelle loro tane, dove vivono di pane nero, di acqua e di radici. Essi risparmiano agli altri uomini la fatica di seminare, di arare e di raccogliere per vivere; e meritano cosi di non mancare di quel pane che hanno seminato». Giustamente Courier avvertiva: «badate che egli parla delle persone felici, di quelle che avevano del pane»; e lo stesso avvertimento vale per quanto riguarda il contadino siciliano: dai tempi di La Bruyère fin quasi ai nostri. Il decurionato civico di Bronte, cioè il consiglio comunale, riteneva infatti felici le persone che si trovavano nella condizione descritta dal La Bruyère. Il raccogliere le galle di quercia e i fichi selvaggi, i capperi, i funghi, le mignatte e le rane, non solamente per uso proprio ma anche per farne «discreto mercimonio, a prezzo vantaggioso» era, secondo i decurioni, nell'anno 1842 di nostra redenzione, il massimo di felicità cui il bracciale disoccupato potesse aspirare. I periodi di occupazione del bracciante agricolo erano quelli della semina, della prima e della seconda zappa, della mietitura e trebbiatura: non più di cento giorni all'anno, e con un salario miserevole, di solito anticipato dai padroni, in grano e legumi, al principio dell'inverno, e poi per tutta l'annata scontato col lavoro: spietata forma di usura generalmente esercitata dai proprietari fino a pochi anni addietro. Per il resto, al bracciante non restava che dedicarsi all'industria: ché industrioso o industriale era chiamato chi a quel «discreto mercimonio» si dedicava. Ma non pare che gli interessati sentissero la felicità di una tale condizione, come i decurioni (non soltanto quelli di Bronte) credevano; e ne troviamo esempio in un tal Carmelo Giordano che, uscendo da una taverna, pronunciava queste, per lui fatali, parole: «Se gira la palla, le bocce ed i cappellucci devono andare per aria», che il commissario Cacciola, trovandosi per caso a passare, sentì e nel giusto senso interpretò: «Riflettendo che quelle parole - se gira la palla - possono alludere a cambiamento di politica, e quell'altre - le bocce ed i cappellucci per aria - sembrano riferirsi alle teste degli uomini attaccati al Governo, ho creduto mio dovere fare arrestare...» (gennaio 1850). |
| Il brano "Verga e la libertà" di Leonardo Sciascia è tratto dal libro Memorie storiche di Bronte di B. Radice (ed. Banca Mutua, Bronte, 1984, pagg. 407-421). Era stato scritto nel 1963 come Introduzione nella ristampa del libro "Nino Bixio a Bronte" di B. Radice (Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta, 1963). Con il titolo "Verga e la Libertà" è stato incluso anche ne La corda pazza, scrittori e cose di Sicilia dello stesso Sciascia (Adelfi Edizioni, Milano 1991, pagg. 89-106) |
1860, I FATTI di BRONTE proposte di lettura | Libertà La novella di G. Verga | I Fatti di Bronte
Quel bagno di sangue per un pezzo di sciara di Leonardo Sciascia | I Fatti di Bronte e “un monumento” del realismo letterario: Libertà di Giovanni Verga Relazione presentata dal prof. A. Manganaro nella giornata di studi Bronte 1860. Libertà da Verga a Vancini, tenutasi a Bronte al Real Collegio Capizzi, il 4 Marzo 2023, nell’ambito delle celebrazioni del centenario verghiano | gli Atti processuali Gli atti del processo istruito dal 7 al 9 agosto 1860 dalla Commissione Mista Eccezionale di Guerra per i Fatti di Bronte | Nino Bixio a Bronte Monografia di Benedetto Radice (tratta dal 2° volume delle Memorie storiche di Bronte) | Il Diario di Nino Bixio Quello che che scrisse nei giorni trascorsi a Bronte, una sorta di taccuino di appunti, dove elabora i testi dei decreti da emanare, degli avvisi da diffondere alla popolazione, degli ordini da conferire ai suoi subalterni e della corrispondenza da spedire. | 1985, Bronte processa Bixio Gli atti del convegno, il dibattimento e la sentenza della Corte | Antonino Radice, Risorgimento perduto Una analisi dei Fatti "origini antiche del malessere nazionale" | Bronte, Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato Il film di Florestano Vancini |
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I dipinti e disegni che accompagnano la pagina sono tratti dalla mostra dedicata alla novella del Verga ("alla libertà o alla repressione") organizzata dal prof. Nunzio Sciavarrello e tenutasi a Bronte dal 21 al 31 Luglio 1988 nei locali del Castello Nelson. | La fame è cattiva consigliera. E se al Giordano ispirava quel feroce vagheggiamento delle teste (con cappelli) per aria, in Gaetano Spitalieri provocava più selvagge reazioni: «Rosalia Catania in Spitalieri per sua querela a carico del proprio figlio Gaetano Spitalieri, si dava ad esporre che questi, la sera del giorno 11 suddetto mese, contro i sentimenti di natura osava percuoterla a pugni, e gettandola a terra la malmenava pei capelli, ciò pel motivo di non aver trovato cosa da mangiare. L'incolpato Spitalieri nel suo interrogatorio nemmeno sapeva negarlo, ma si assillava dicendo che era ubriaco» (febbraio 1850). Su gente come questa cadevano contravvenzioni (generalmente per evasioni al balzello del macinato e quasi sempre convertite in carcere), pignoramenti per usure non pagate, tassazioni arbitrarie, accuse di furto (di solito per legna raccolta nei boschi ducali o comunali). Senza dire delle libertà sessuali che i galantuomini si concedevano con le ragazze del popolo: e basti considerare che nel 1853 c'erano a Bronte (su circa 10.000 abitanti) 38 balie comunali, nutrici cioè dei bastardi di ruota. Per dare un'idea di come si procedeva nelle tassazioni, stralciamo da due ricorsi: «Come si poté tassare il supplicante per once due e tarì quindici quando i primari del paese, e specialmente i decurioni, possessori di gran vigneti e possessioni si trovano tassati per pochi baiocchi, mentre dovevano essere significati in una grandiosa somma?» e «Giuseppe Minio Basciglio viene di sentire di essere stato considerato nel ruolo del vino e vino mosto. Riescirebbe troppo lunga voler raccontare la industriosa maniera per vivere la vita con la sua famiglia. Non possiede vigneti, non possiede terre adatte all'agricoltura, ma solo si adatta a raccogliere e vendere delle erbe sarvatiche in quella pubblica piazza come ognuno potrà farne attestato» (aprile 1853). E quando i guardaboschi della signora duchessa di Bronte o quelli del comune sorprendevano qualcuno a far legna, erano guai grossi: un'ammenda pari al valore dell'albero vivo e non della legna, e non meno di un mese di carcere. Si trovano registrate ammende fino a 39 ducati: somma che il bracciante non riusciva a buscare in tutta una vita. La signora duchessa stava in Inghilterra: e a Bronte, ad amministrare il gran feudo che graziosamente Ferdinando (III di Sicilia, IV di Napoli, I delle Due Sicilie) aveva donato all'ammiraglio Nelson, stavano, come già il loro padre, Guglielmo e Franco Thovez, inglesi ma ormai così bene ambientati da poter essere considerati notabili del paese. Ed è a loro che si deve il particolare rigore che Garibaldi raccomandò a Bixio per la repressione della rivolta di Bronte e che Bixio ferocemente applicò: alle sollecitazioni del console inglese, a sua volta dai fratelli Thovez sollecitato. Sui fatti di Bronte dell'estate 1860, sulla verità dei fatti, gravò la testimonianza della letteratura garibaldina e il complice silenzio di una storiografia che s'avvolgeva nel mito di Garibaldi, dei Mille, del popolo siciliano liberato: finché uno studioso di Bronte, il professor Benedetto Radice, non pubblicò nell'«Archivio Storico per la Sicilia Orientale» (anno VII, fascicolo I, 1910) una monografia intitolata Nino Bixio a Bronte; e già, a dar ragione delle cause remote della rivolta, aveva pubblicato (1906, «Archivio Storico Siciliano» ) il saggio Bronte nella rivoluzione del 1820. E non è che non si sapesse dell'ingiustizia e della ferocia che contrassegnarono la repressione: ma era come una specie di «scheletro nell'armadio»; tutti sapevano che c'era, solo che non bisognava parlarne: per prudenza, per delicatezza, perché i panni sporchi, non che lavarsi in famiglia, non si lavano addirittura. E non è che il Radice avesse della storia del risorgimento e del garibaldinismo una visione refrattaria a quella che il De Sanctis chiama la sfera brillante della libertà e nazionalità: soltanto era mosso dalla «carità del natio loco», gratuitamente marchiato d'infamia dagli scrittori garibaldini, e dall'umana simpatia e pietà per quell'avvocato Lombardo che Bixio sbrigativamente aveva fatto fucilare come capo della rivolta: ed era stato sì il capo della fazione comunista, ma della rivolta, e specialmente dei sanguinosi eccessi in cui sfociò, non si poteva considerare più responsabile dei suoi avversari della fazione ducale. Ma mentre andava raccogliendo testimonianze, ricordi, documenti, il Radice veniva acquistando, almeno nei riguardi di Bixio, traboccante indignazione morale; lasciando a noi, suoi lettori di oggi, un elemento di più per quella indignazione storica in cui involgiamo il presente in quanto frutto del passato, di quel passato. Ed è vero che si adopera, il Radice, a non sottrarre del tutto la figura di Bixio al mito «lampo e fulmine», alla leggenda di «Ajace dell'età nostra»; ma quando scrive, con giusto e fine giudizio, che «la rivoluzione gli fu propizia per salvarlo forse da una vita ignobile », ben poco resta di quel mito, di quella leggenda. Sui fatti di Bronte, pur non tacendo a carico di Bixio anche i più rivoltanti dettagli (come, per esempio, l'atroce risposta al ragazzo che chiedeva il permesso di portare al Lombardo delle uova, alla vigilia dell'esecuzione: «Non ha bisogno di uova, domani avrà due palle in fronte»), il Radice insomma si china come su «un'ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano»: così come il Manzoni, cui questa frase appartiene, sul processo degli untori. E dire al Radice che l'ingiustizia di Bronte poteva anche esser veduta da quelli che la commettevano ma non per ciò essere evitata, che era nell'ordine di una concezione dello Stato -padronale, di classe - cui il garibaldinismo più o meno coscientemente concorreva, sarebbe stato come dire al Manzoni che il processo agli untori appunto veniva a provare l'assenza, nelle cose umane, nella storia, della sua Provvidenza. Il Radice aveva sei anni nel 1860; Giovanni Verga ne aveva venti: e i suoi ricordi della rivolta di Bronte e del circondario etneo, della repressione garibaldina, del processone che poi si tenne a Catania, dovevano essere ben vivi quando, nel 1882, scrisse la novella Libertà. Non sarebbe per noi una sorpresa, anzi, se dalle sue carte venisse fuori qualche redazione della novella di data più remota; o degli appunti, delle note, che in qualche modo dessero conferma a questo nostro sospetto: che in Libertà le ragioni dell'arte, cioè di una superiore mistificazione che è poi superiore verità, abbiano coinciso con le ragioni di una mistificazione risorgimentale cui il Verga, monarchico e crispino, si sentiva tenuto. Tale mistificazione, e addirittura una radicale omertà, consigliava il sentimento della nazione (anche di quella parte della nazione che poteva effettualmente considerarsi vinta), oltre che il proprio di galantuomo, nel senso che lo stesso Verga dà alla parola galantuomo; senza dire dei protagonisti: da Bixio, che alla Camera, appena due anni dopo i fatti, dava di sé immagine ben diversa da quella che il popolo di Bronte ricordava «Potrei citare fatti dolorosi in cui mi son trovato nella necessità di far fucilare. Nel fatto di Bronte potrei provare che ho impedito, ho minacciato quelli che volevano la fucilazione … gli accusati sono stati giudicati dai tribunali del paese … e solo quando il tribunale ebbe pronunziato, dico, furono dolorosamente fatti fucilare da me»), al maggiore De Felice, presidente della commissione di guerra che giudicò il Lombardo e gli altri, che nel suo diario non scrisse nota sull'avvenimento, al colonnello Sclavo che così scriveva al Radice: «Egregio professore, io vorrei che riuscisse a provare l'innocenza del Lombardo, ed anche di tutti gli altri, il che sarà assai difficile! ... Non rivanghiamo su quel triste passato! Ciò che a Lei occorrerà lo troverà nella vita di Nino Bixio di G. Guerzoni, a pagina 212 copiato fedelmente dal diario dell'Eroe. Io spero che pensandoci bene non ritornerà ai fatti dell'agosto 1860. La riverisco e sono il suo dev.mo servitore Sclavo Francesco colonnello già con Bixio nel 1860, nel 6, 7, 8, 9 agosto a Bronte» (data della lettera: 8 aprile 1907)(1). A darci la chiave della mistificazione di Verga è un piccolo particolare, che non si può cogliere se non si conosce la realtà dei fatti. Ecco il passo della novella da cui questo particolare vien fuori: «Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell'alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l'uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono». Abbiamo messo in corsivo il nano: ché è questo il punto. Verga sapeva bene che non si trattava di un nano ma di un pazzo: il pazzo del paese, un innocuo pazzo soltanto colpevole di aver vagato per le strade del paese con la testa cinta da un fazzoletto tricolore profetizzando, prima che la rivolta esplodesse, sciagura ai galantuomini; quel Nunzio Ciraldo Fraiunco che non ci sarebbe stato bisogno di una perizia per dichiarare totalmente infermo di mente e la cui fucilazione costituisce la pagina più atroce di questa atroce vicenda. E si vedano le Memorie di uno dei Mille di Francesco Grandi, che il Radice non poté conoscere (sono state in parte pubblicate sul «Ponte» qualche anno fa): dove si racconta che per tutto il percorso dalla prigione al luogo della fucilazione il Fraiunco non fece che baciare uno scapolare che portava al collo e dire al garibaldino che gli stava vicino «La Madonna mi salverà»; e non fu colpito dalla scarica, per cui si gettò ai piedi di Bixio gridando «La Madonna mi ha fatto la grazia, ora fatemela voi»; e Bixio, al sergente Niutti: «Ammazzate questa canaglia». Ci si può obiettare che, a carico di Bixio, Verga fece di peggio, nella novella: eliminò quel simulacro di processo, gli fece sbrigativamente ordinare la fucilazione dei «primi che capitarono»; ma in effetti non è così: ché la rappresentazione, sia pure in una sola frase, del processo, lo avrebbe obbligato a caricare il generale di feroce ipocrisia; e voleva invece, a conferma della leggenda, darlo soltanto, e con indulgenza, come un intemperante. E come la sua coscienza, certamente, era turbata, non volle turbare quella del lettore scrivendo «il pazzo»; e scrisse «il nano», dissimulando in una minorazione fisica la minorazione mentale; e anche in ciò, si noti bene, affiorando quel suo profondo sentire popolare: il pazzo investito di sacertà e il nano ritenuto invece essere pieno di malizia e cattiveria. Ancora una obiezione, e fondamentale: e se Verga non avesse avuto dei fatti che una conoscenza vaga, approssimativa; una versione qua e là raccolta e con gli anni, nel ricordo, vivissima come sintesi tragica ma sbiadita ed incerta nei dettagli reali? A parte il fatto che la fucilazione di un pazzo è elemento senza dubbio mnemonicamente più forte della fucilazione di un nano (o di uno detto il nano per soprannome: come la nana che dà titolo a un romanzo del siciliano Navarro della Miraglia), il ricordo di Verga non è per niente offuscato in altri dettagli. Anzi, noi che abbiamo familiarità con le carte del processo, siamo portati a credere che lo scrittore lo abbia seguito da spettatore, e ne abbia conservato in appunti o indelebilmente nella memoria un intenso ricordo. Quei giurati Verga certamente li ha visti, quei giudici che «sonnecchiavano dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore», quegli avvocati; e gli imputati stipati nella gabbia. Oltre l'arte, che in questa novella è grande, si sente l'evento fisico, ottico; la «cosa vista». E c'è un particolare che poteva sì, da quel grande scrittore che era, inventare o intuire, ma il fatto è che è stato detto nel processo, da uno degli imputati (giudici e giurati avranno sogghignato di incredulità, ma il giovane Verga ne avrà sentito la profonda e tragica verità): «Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant'anni - e tremava come una foglia». L'uccisione, questa, del giovane figlio del notaio: il notaio Cannata, uno dei più odiosi notabili di Bronte. Ed esattamente Verga ricorda come il notaio morì - «si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio» - come esattamente ricorda l'esclamazione di uno dei rivoltosi, a scrollarsi del rimorso di avere ucciso il ragazzo incolpevole: «Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!». Ma la mistificazione più grande (in cui, ripetiamo, le ragioni della sua arte venivano a coincidere con le ragioni diciamo risorgimentali, cioè di una specie di omertà sulla effettuale realtà del risorgimento) è nell'avere eliminato dalla scena l'avvocato Lombardo: personaggio che non poteva non affascinarlo in quanto portatore di un destino, in quanto vinto. Né poteva, Verga, confonderlo col personaggio che ne fece la letteratura garibaldina (Abba: «l'avvocato Lombardi, un vecchio di sessant'anni, capo della tregenda infame»): ché il Lombardo era ben conosciuto negli ambienti liberali catanesi, e nessuno a Catania avrebbe mai creduto alla storia, accreditata presso Bixio dai notabili di Bronte e diffusa a scarico di coscienza tra i garibaldini, di un Lombardo reazionario, o «realista» (cioè partigiano di Francesco II: quasi i siciliani non stessero per avere un altro re). E diamo qui, poiché nel saggio ha ritenuto di non dover riportarla per intero, la lettera che il senatore Carnazza-Amari diresse al Radice: «Gent.mo Signore, in risposta alla Sua dell'11 corrente mi permetto significarle che io sono figlio di Sebastiano Carnazza, e che è possibile che l'avvocato Sanfilippo abbia inteso leggere a mio padre lettere al medesimo dirette da Nicolò Lombardo, perché entrambi erano amici e in corrispondenza epistolare, ma queste lettere io ora non possiedo. È possibile, ma io non so, almeno non mi ricordo, se mio padre abbia difeso alla Corte d'Assise del 1863 i brontesi. Ricordo benissimo che Nicolò Lombardo era molto amico di mio padre e da lui e da contemporanei era ritenuto come il capo del partito Liberale a Bronte. Anzi, benché io era ragazzo, poiché le impressioni dell'infanzia restano indelebili, ricordo che nei primi giorni della rivoluzione del 1848 il Lombardo venne in Catania da mio padre dicendogli che la rivoluzione era scoppiata in Bronte ed egli veniva in Catania per prendere opportuni accordi con mio padre e con i liberali. Non posso certamente ricordare tutta la conversazione avvenuta, anche perché alla mia età non poteva comprenderla interamente, ma restommi impresso il fatto; e parmi di vedere ancora il Lombardo tutto animato, aitante della persona, con folta barba, nera come l'ebano, lo sguardo scintillante, parlare animosamente. Durante e dopo la rivoluzione egli fu frequentemente da mio padre. Quando fu fucilato nessuno sospettò che ciò fosse avvenuto perché reputato borbonico, ma invece come eccessivamente rivoluzionario; e molti ebbero ragione di credere che quella fucilazione abbia avuto causa in un fatale errore di Bixio, il quale in quel momento febbrile accolse come verità iniqui istillamenti fattigli dai nemici del Lombardo». (Ma ad evitare il «fatale errore» Lombardo aveva detto a Bixio: «Domandi a Catania chi sono io»). L'avvocato Lombardo, quel personaggio che effettivamente il Lombardo era stato, avrà inquietato e la coscienza civile e la coscienza artistica di Verga. Dal punto di vista dell'arte, l'apparizione del Lombardo avrebbe dissolto l'atroce coralità della novella; né d'altra parte il Verga era portato ad assumere personaggi intellettuali, e per di più eccessivamente rivoluzionari: Dal punto di vista dell'intendimento civile, cui per condizione sociale e culturale era legato, gli sarà poi parso che la rappresentazione di un simile personaggio, e delle circostanze di cui fu vittima, venisse a minacciare di leggenda nera la storia, dopotutto gloriosa, dell'unità d'Italia. Ed il fatto che di un tale personaggio si sia liberato del tutto, che l'abbia così decisamente rimosso, ci fa congetturare in lui una inquietudine, un travaglio. O forse questa nostra congettura muove dal grande amore che abbiamo per Verga, dalla profonda pietas che Lombardo ci ispira. Chi sui fatti di Bronte aveva chiarissime idee (anche se le espresse con contorto linguaggio) era l'avvocato Michele Tenerelli Contessa, difensore degli imputati. La sua arringa veniva a tradurre in termini rigorosamente giuridici, in argomentazione di diritto, le più profonde istanze della vera, effettiva, concreta rivoluzione liberale (e diciamo liberale nel senso gobettiano). Poiché nemmeno il Radice ha tenuto conto di questa arringa (e a noi proviene dalle sue carte) ne diamo di seguito quello che ci pare il passo fondamentale: «Or quando proverò che le stragi perpetrate in Bronte dal 2 al 5 agosto 1860 anziché rivelare opposizione al diritto obiettivato nella legge rivoluzionaria, rivelano piuttosto una brutale convalidazione, una feroce affermazione di una legge scritta a caratteri di sangue, il sangue sparso da Calatafimi a Milazzo, la vittoria della difesa sull'accusa non sarà più dubbia. Ci troviamo nel caso di considerare un'azione, la quale malgrado porga le apparenze di un fatto criminoso, pure era una conferma, una brutale convalidazione della rivoluzione; fatto che non era conseguenza del movimento ma s'inviscerava nella riscossa medesima. In una parola, ci troviamo nel caso ove non si può considerare reato un'azione la quale, quantunque porga le apparenze di un fatto criminoso dinanzi alla giustizia, pure è comandato dalla legge - è permesso dalla legge. Ciò posto, la teorica della impunità dei reati commessi contro gli eslege o pubblici nemici – la teorica della legittimità della propria difesa, saranno da me applicate onde escludere la caratteristica di reità in un'azione che se sarà punita da Dio perché inumana, non può non condannarsi da voi. Alle prove. «Il programma di Marsala chiamava il popolo ad insorgere colle armi in pugno, contro il comune nemico. Or bene, chi era questo nemico? Il Borbone. Ma desso era fuori, né poteva cadere sotto i nostri artigli per poterne fare un altro Luigi XVI; gl'inimici erano tutti coloro che con qual si sia mezzo contrastassero il trionfo della rivoluzione. Ma fin qui la riscossa esprimeva un concetto confuso di tanti principii in lotta, quello di nazionalità splendeva di maggior luce, ma il popolo lo spalleggiava senza comprenderlo, si batteva con entusiasmo per il fascino di una grande idea, per l'istinto di vincere o morire sotto gli occhi del Dittatore, dell'idolo suo. Fino a questo momento non erasi sviluppato nessuno dei suoi interessi, la rivoluzione marcia avanti seguendo come ombra il suo eroe. Ebbene, tramontano alcuni giorni e senza abdicare l'elemento nazionale, si fa intellettiva: ed un decreto destituisce tutti gl'individui che avessero servito lungo la restaurazione; e a questa misura logica e rivoluzionaria i principii del movimento si analizzano, la sfera dei nemici si estende e si rende comprensibile. Ma l'elemento nazionale ed intellettivo, procedendo vittorioso fra mille ostacoli, non poteva completare la rivoluzione, né questa monca nelle sue aspirazioni avrebbe potuto sbarazzarsi di tutti gl'intoppi morali e materiali che ne ingombrassero i passi gloriosi: fu mestieri farsi ancora democratica, allorché il Dittatore ordinò la divisione delle terre comunali ... Tutti coloro che ostacolavano l'attuazione di questi principii, tutti erano intrinsecamente dichiarati rei di lesa nazionalità: poiché che altro faceva la rivoluzione se non tradurre in atto quelle giuste idee, quei giusti desiderii che non avevano voluto concretare regolarmente i governi abbattuti? Quindi le leggi rivoluzionarie mentre realizzavano i principii della rivoluzione, condannavano coloro che ostacolavano la manifestazione obiettiva e reale di tali principii, come quei brontesi che si erano opposti a riconoscere questi diritti della plebe, malgrado che il governo borbonico li avesse voluto soddisfare! «Signori giurati, la borghesia brontese, non paga di avere per vent'anni avversato con tutti i modi ingiusti l'attuazione di questi bisogni, taluni dei quali erano stati riconosciuti e soddisfatti dal Borbone, come si è detto, e poi mercé l'opera loro avversa, rea ed inumana non effettuati; oggi, dopo essere stata dichiarata nemica della rivoluzione in virtù delle leggi dittatoriali medesime, seguiva a contrastare l'esecuzione della legge rivoluzionaria ... Un esempio metterà suggello alle mie argomentazioni. Immaginiamo che una banda di briganti invada oggi (badate, oggi) un comune del napoletano, e per sorpresa si impadronisca della pubblica amministrazione; e in seguito esca e armata mano arresti chi le si potesse opporre, covrendo questo atto reazionario colla bandiera tricolore come prima aveva ingannato nell'afferrare il potere servendosi del medesimo vessillo ... Tutti i ladri insomma che con la loro opera corrisposero a capello con i principii della restaurazione e, mediante la corruttela e la immoralità, la puntellarono, tutti erano briganti, tranne quelli che servirono, ripeto, la restaurazione come governo di fatto, al pari dei toscani che servirono il granduca...».(2) Evidentemente, questa arringa non convinse né i giudici né i giurati, quei «dodici galantuomini» che «certo si dicevano che l'avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà ». E venticinque imputati si ebbero l’ergastolo, uno vent'anni di lavori forzati e due dieci, cinque i dieci anni se li ebbero di semplice reclusione. Forse parve anche a Giovanni Verga, questa difesa del Tenerelli Contessa, un armeggiare d'avvocato, una chiacchiera. Leonardo Sciascia 1963 Note: (1) Questo documento ed altri che qui pubblichiamo, li dobbiamo alla cortesia dell'avvocato Renato Radice. (2) L’arringa del Tenerelli Contessa fu pubblicata nel 1863 dalla Tipografia La Fenice di Musumeci, Catania: Difesa pronunziata d'innanzi la Corte d'Assise del Circolo di Catania per la causa degli eccidi avvenuti nell'agosto 1860 in Bronte. Nel passo che abbiamo riportato, ci siamo permessi qualche lieve correzione: formale, di ortografia.
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Una voce contro
«Il processo istruttorio che lo Sciascia fa al Verga muove per itinerari strani e difficili. Riesce a costruire una accusa di estrema gravità: che egli, cioè, scrivendo la sua novella, abbia voluto mistificare la verità storica» Verga non ha mistificato la storia Recensione di Gaetano Falzone al libro di B. Radice «Nino Bixio a Bronte» con introduzione di Leonardo Sciascia, apparsa su «Nuova Rivista Storica» (1963, fascicolo V-VI). «La strada aperta di recente da Indro Montanelli e da Marco Nozza con una novella e disinvolta interpretazione di Garibaldi è parsa suggestiva a Leonardo Sciascia che ha voluto, da parte sua, accollarsi la interpretazione dei fatti di Bronte del 1860. Che in questo clima di rivalutazione e di scoperta degli aspetti sociali del Risorgimento non potesse mancare un interesse per i fatti di Bronte era cosa da ritenersi scontata. Allo Sciascia (o al suo editore) va, nel confronto col Montanelli e il Nozza, attribuito, comunque, il merito di avere riprodotto un saggio critico su quei fatti che meritamente sopravvive alla usura del tempo (cfr. B. Radice, Nino Bixio a Bronte, in «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», 1910), mentre al contrario il Montanelli dichiara di avere attinto a uno sconosciuto archivio bergamasco e passa oltre, menando vanto di essersi "astenuto dal citare le fonti e dall’apporre a piè di pagine quelle note che tanto seducono i professori di storia quanto infastidiscono il lettore comune". Il lavoro del Radice sui fatti di Bronte è mirabile esempio di compostezza di giudizio, di ricchezza di ricerca, e di comprensione umana. Un lavoro che poteva risentire, e non risentì, di ripercussioni di famiglia e di ambiente, specie se si tiene presente che il padre del professore Benedetto Radice si era trovato, per alcuni spaventosi momenti, nelle mani di gente che voleva scannarlo, e che lo avrebbe fatto se non fossero intervenuti uomini coraggiosi e provvidenziali; e che lo stesso autore del saggio, che all’epoca contava appena sei anni, era stato minacciato con la scure da un energumeno, e sarebbe rimasto come una ostia insanguinata sulla terra di Bronte a documentare la più in sana fra le infamie di quei giorni, se due uomini - di cui egli poi invano cercherà di apprendere il nome - non lo avessero salvato. Aver ripubblicato le pagine del Radice, sepolte in un Archivio storico di carattere provinciale, e averle immesse in un più ampio circolo di lettori, è stata iniziativa provvida, giusta, utilissima, perché quel saggio ancor oggi propone, senza sottili intenzioni, un giudizio non tanto su un fatto singolo, sia pure notevole per le sue atroci dimensioni, quanto addirittura sul significato di una intera rivoluzione. Il lavoro del Radice dovrebbe anzi essere tenuto presente, proprio per questo, da lutti gli studiosi del Risorgimento come quello che, nulla sottacendo, anche di più infame e impressionante, nulla tuttavia mostra di voler volgere verso fini studiati. Lo Sciascia, nel ripresentarci il saggio del Radice, si è attenuto allo esempio offerto da questi? Purtroppo, no. Le ragioni possono essere varie. Intanto, lo Sciascia è un romanziere che sta scalando con fortuna le vie del successo editoriale. Egli, come tale, ama farsi leggere, e, in verità, vi riesce col sussidio del suo stile emozionale e della sua scaltrita fantasia. Basti leggere il «Consiglio di Egitto» in cui senza dubbio egli riesce a scolpire incancellabilmente due figure storiche, l’abate Vella, il noto falsificatore dei codici martiniani, e l’avvocato Di Blasi, lo sfortunato iniziatore di congiure repubblicane. In quanto ad aderenza alla verità storica il discorso sarebbe lungo a farsi, e qui non c’entra. Qui si vuol vedere solo ciò che lui scrive a commento e introduzione del saggio del Radice: un compito in cui la natura di romanziere dovrebbe o adeguarsi alla responsabilità assunta, o rinunziare. Lo Sciascia non rinunzia, non si adegua, e ci dà, con una disinvoltura che lo stesso toscano Montanelli gli invidierebbe, una... polemica col fantasma di Giovanni Verga. E Verga che c’entra? Il Verga non scrisse mai saggi storici, e tampoco sui fatti di Bronte, ma nel 1882 scrisse la novella «Libertà» che a molti è sembrata scaturire dal ricordo di quei fatti. D’altro canto il Verga aveva venti anni quando si celebrò il processo ai facinorosi. Nulla di più legittimo che pensare cha il Verga abbia avuto di fronte come modelli quella strage e quegli uomini. Ma tutto ciò cosa interessa lo storico? Verga testimone non è. Ma Sciascia che romanziere è, solo coi romanzi può combattere, non con gli storici o i testimoni. Altra mentalità, altra fatica. Pertanto prende di petto il Verga. Non si può negare che abbia saputo scegliere un avversario che, per la sua statura, non può che fargli onore. Dopo la polemica invisibile (ma non troppo) col Tomasi di Lampedusa, adesso quella col Verga. Per ora, soltanto contro il «galantuomo» Verga, contro l’esponente monarchico e crispino, l’uomo d’ordine, il ben pensante. Per ora solo contro le sue reazioni più o meno coscienti, ma pur sempre intime e indicative di un suo stato personale che aborre la rivoluzione, e, siccome la rivoluzione di Bronte era, nelle sue ispirazioni, rivoluzione per la giustizia, di aborrimento conseguentemente della giustizia insieme alla rivoluzione. Il processo istruttorio che lo Sciascia va facendo al Verga muove per itinerari strani e difficili. E’ una investigazione non tanto nel documento scritto e nella manifestazione intelligibile quanto nelle intenzioni. Su queste indicazioni così labili ed opinabili lo Sciascia riesce a costruire una accusa di estrema gravità per il Verga: che egli, cioè, scrivendo la sua novella, abbia voluto mistificare la verità storica. Seguiamo i sottili ragionamenti dello Sciascia. Dato per certo che il Verga non poteva, per la sua formazione sociale, politica e culturale, che rendersi complice della storiografia garibaldina, perché mai, nella novella «La libertà», egli scrive che il Generale appena arrivato nel paese ordinò, «che gliene fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello i primi che capitarono»? Si potrebbe obiettare che un processo vi fu, sia pure col rito marziale, condotto dalla commissione mista eccezionale di guerra comandata dal maggiore De Felice, fatta venire appositamente da Adernò, ma lo Sciascia ha pronta la sua spiegazione. Se il Verga avesse dato atto di tutto ciò il Bixio - il Generale della novella - sarebbe apparso come un intemperante, ma non come un ipocrita feroce, perchè questa sensazione, e non altra, avrebbero avuto i lettori, considerato che era evidente che il Generale voleva dare un esempio. Il Verga ha voluto quindi difendere il Bixio liberandolo da una colpa più grave. Il Verga è, dunque, un mistificatore. E. poi, perché parla di un nano fra i condannati? Nani non ce ne erano, c’era invece un pazzo, o tale ritenuto: Nunzio Ciraldo Fraiunco. Il Verga ha avuto pudore di dire che un pazzo è stato fucilato, ed ha preferito dire che è stato fucilato un nano «dissimulando - come opina lo Sciascia - in una minorazione fisica la minorazione mentale; e anche in ciò, si noti bene, affiorando quel suo profondo sentire popolare: il pazzo investito di sacertà e il nano ritenuto invece essere pieno di malizia e di cattiveria». Dal che si potrebbe evincere che Leonardo Sciascia ritiene il Verga, escogitatore di questa frode, più malizioso e cattivo della stessa credenza popolare. E’ un peccato che lo Sciascia, dopo averci decifrato il mistero del nano, non ci decifri anche il mistero di Pippo e di Pizzanello. Certamente sotto tali nomi dovevano dissimularsi altri disgraziati e capovolgersi altre situazioni umane sotto l’infernale regia del Verga al servizio dei padroni crispini del suo tempo. I cinque fucilati intanto furono: Lombardo Nicolò, Nunzio Sampieri, Nunzio Ciraldo Faiunco, Nunzio Longhitano Longi, Nunzio Spitaleri Nunno. Chi fra tanti Nunzi, era il Pippo e chi il Pizzanello? Leonardo Sciascia non ce lo spiega. A lui adesso preme invece di far rilevare che nella novella «Libertà» non si parla dell’avvocato Lombardo, il personaggio più importante, più discusso e più lacrimato. E perchè mai non se ne parla? Perchè così potesse, da parte del Verga, compiersi la mistificazione più grande. Il Lombardo era, secondo lo Sciascia, personaggio inquietante per la coscienza del Verga. Si trattava di un liberale che era stato scambiato per borboniano; di un galantuomo che era stato associato alla masnada. Come introdurlo sulla scena? Non avrebbe la sua evocazione appesantito la colpa di Bixio e trasfigurato anche il volto di quei moti, dato che un avvocato, un uomo rispettabile, vi rimaneva coinvolto? Il Verga, secondo lo Sciascia cosa fa? Si libera del tutto di tale personaggio affinché la leggenda garibaldina della Unità d’Italia potesse sopravvivere. Omertà, quindi, che si spinge fino alla distruzione delle prove di colpevolezza. Giova, dopo aver riferito di questo duello contro il bonario fantasma del Verga, raccogliere gli elementi sparsi qua e là dallo Sciascia, e tentare una sintesi di ciò che l’autore della introduzione pensa personalmente dei fatti di Bronte. Egli ragiona pressappoco così: la rivolta era nello spirito dei primi proclami garibaldini, era nel solco della rivoluzione, ogni atto contro i borbonici era autorizzato. Perchè si calcò la mano sui brontesi che quei nemici schiacciavano in definitiva? La risposta è: perché essi reclamavano la divisione dei beni demaniali, e pretendevano che si ponesse fine alle usurpazioni che degli usi civici erano state fatte dai «cappeddi». Perchè essi turbavano i sonni degli amministratori della ducea di Bronte, e potevano disgustare l’Inghilterra amica dei garibaldini. Sotto questa singolare luce interpretativa dell’impresa garibaldina - che dovrebbe quindi ritenersi come la mistificazione più grande riservata ai siciliani, tale da fare scomparire addirittura nelle sue pieghe le modeste esibizioni del tenerello apprendista Giovanni Verga - non ci può naturalmente che essere pollice verso nei confronti della letteratura garibaldina sull’argomento (Abba, Sclavo, Guerzoni etc.), Noi sappiamo il candore di Abba, ma appunto nel suo candore egli non poteva che chiamare «tregenda infame» quei fatti, e duramente giudicarne il capo, l’avvocato Lombardo. Codesto Lombardo suscita certamente pietà. Egli può sembrare una nuova figurazione dell’antico Curzio che si buttò volontariamente nella voragine, ma, in verità, egli era un facinoroso che non conosceva bene le arti dello stregone e i pericoli connessi a tale pericolosa professione. Valga ricordare: il Lombardo interviene a favore di quel Matteo Torcetta e con la sua druda aveva ucciso il marito di questa. Il Lombardo lo difende, e assolve il suo dovere di avvocato. Sta bene, ma non si comprende perché si rifiuti di accettare il giudizio del tribunale che corrisponde anche a quello della pubblica opinione, e cerchi di opporsi alla esecuzione rivolgendosi per aiuto a una schiera di garibaldini messinesi di passaggio per Bronte. E c’è altro. Il Lombardo favorì l’evasione di alcuni carcerati che dovevano venire tradotti a Catania. Ma chi erano costoro? Il Radice ce né dà i nomi e le qualità:«malfattori noti per uccisioni e per furti» riuscitisi a liberare dalla galera cui erano stati legalmente condannati. C’è ancora di più. Il Lombardo pur essendo uno dei quattro comandanti la Guardia Nazionale, sobilla i contadini, passa loro parole d’ordine, dà loro puntamento il 5 agosto, festa di S. Maria della Catena, data indicata, anche dal fratello medico che va in giro a visitare gli ammalati, come quella della sollevazione generale. L’atmosfera di Bronte consentiva codesti discorsi? Impunemente potevasi seminare l’odio? No, non si poteva. I borghesi certamente furono gran parte scempi, e impari al compito fu anche il barone Meli presidente del consiglio. Indubbie le usurpazioni, certe le evasioni fiscali da parte della cricca al potere, albagiosi notari, avvocati, proprietari, baroni. Dementi dinanzi alla tempesta più di quell’innocuo mattoide che il Bixio pare abbia associato al gruppo dei condannati a morte, e poteva benissimo risparmiarlo. Ma il Lombardo solo per tali considerazioni può venire scagionato dalle gravi responsabilità che gli derivano dalla sua dissennata propaganda a favore della sollevazione? D’altro canto, alla radice del suo atteggiamento c’era una profonda delusione politica per non essere stato eletto, come faceva affidamento, alla carica di presidente del Municipio cui era stato chiamato invece Sebastiano De Luca. Umane ragioni aveva il Lombardo per dolersi di tutto ciò, egli che era stato liberale, e aveva patito nel ‘48. Ma la tutt’altro che partigiana e concitata prosa del Radice ci tramanda un quadro così terribile, disumano, vergognoso di Bronte abbandonata alla violenza, alla rapina, al più belluino sfogo degli istinti che non possiamo non chiedere ragione ai responsabili morali, oltre a quelli materiali, dell’accaduto. Sull’onda di questo naturale sentimento il Bixio che vide comparirsi di fronte il Lombardo come se nulla avesse a temere solo perché, straripati i moti, egli aveva cercato di infrenarli inutilmente, non è meraviglia che lo abbia chiamato «presidente della canaglia», fatto mettere in ceppi, e candidare al plotone di esecuzione. Dice bene Emilia Morelli, presentatrice dell’epistolario del Bixio: «Con poche esecuzioni riuscì a pacificare tutto un distretto. Si era pensato per questo di far manovrare una divisione, ed invece riuscì a sistemare correndo in carrozza con pochi ufficiali... per evitare di condurre le truppe (Epistolario di Bixio, I, p. XIX). I facili detrattori di Bixio dovrebbero soppesare tutti gli elementi e considerare che la sedizione, se non fosse stata spenta a Bronte, mentre già divampava anche a Maletto e a Regalbuto, e correva minacciosa verso Catania, avrebbe finito col compromettere le operazioni militari di Garibaldi e la liberazione dell’Isola. Non è rivolgendosi a una seducente letteratura di tendenza, o cercando motivi che possano suscitare una piacevole curiosità, che si possono dare contributi alla verità storica. Il lavoro di fioretto che il presentatore di questo libro esegue verso il fantasma del Verga può divertire per le risorse dialettiche, ma non può lasciarci estranei. La nostra indifferenza non può però spingersi fino al punto di rinunziare a proporre ai lettori un giudizio sulla utilità o meno di schermaglie come queste che, presidiate dalla intelligenza e dallo stile letterario, indubbiamente seducente, acquistano pericolosità maggiore. Se una voga siffatta dovesse generalizzarsi la confusione regnerebbe sovrana, e tutto si ridurrebbe a un giuoco. Per quanto riguarda il Radice concluderemo dicendo che gli studi successivi alla apparizione del suo saggio ne hanno confermato la validità e perspicuità. Codesto professore di provincia che meriterebbe più larga rinomanza si è dimostrato un attento, prudentissimo ricercatore ed analizzatore. La lettera che Bixio mandò senza data al Consiglio Municipale di Cesarò era stata ritenuta da storiografi contemporanei come scritta il 6 agosto; il Radice invece con risorse logiche non la accetta, e propone quella del giorno 8 che è poi la data che è stata ad essa attribuita dalla Morelli nella sua pregevole edizione dell’Epistolario di Bixio». Gaetano Falzone |
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