Le Recensioni
Sciascia recensì il film di Vancini subito dopo l'uscita con il seguente articolo pubblicato l'8 Agosto 1972 dal quotidiano La Stampa
Bronte perché di Leonardo Sciascia Giustamente Florestano Vancini ha detto che, in ordine alla verità storica, il suo film sui fatti di Bronte è inattaccabile. Ma è stato attaccato, e anche furiosamente. E ne è seguita una polemica che direi (anche per quel che mi riguarda) fuorviante, incentrata tutta sulla figura di Bixio: se eroe purissimo, costretto da maggior forza a un crudele e inevitabile atto, o se — come scrisse con sottile giudizio Benedetto Radice, storico di quei fatti — «uomo che la rivoluzione salvò forse da un destino ignobile». Ora il problema non è questo: il proposito del film non era quello di degradare Bixio da eroe a carnefice, ma, di dare attraverso un fatto determinato, sicuro, accertato in ogni dettaglio, l’immagine di un errore già sufficientemente analizzato e definito nelle opere di più avvertita coscienza risorgimentale e meridionalista. Evidentemente questo errore, scontato in sede diciamo culturale, è tutt’altro che scontato negli intendimenti e nella pratica di una larga (e maggiore) parte della nazione. Innanzi tutto, la domanda: perche le popolazioni contadine del circondario etneo si sollevano in così sanguinose rivolte, mentre nella Sicilia occidentale l’esercito garibaldino si trova di fronte a problemi di normale, o appena più accentuato, disordine pubblico? La risposta credo si trovi in una pagina del Viaggio in Sicilia di Tocqueville (1827): «Qui (nella zona dell’Etna) si direbbe che non vi sia angolo di terra sprecato: dovunque coltivazioni arboree, intramezzate da capanne e da graziosi villaggi; dovunque un’aria di prosperità e di abbondanza. Potei rilevare, così, che nella maggior parte dei campi coltivati il grano, le viti e gli alberi da frutta crescevano e prosperavano insieme: e fui indotto a chiedermi da dove potesse derivare una così grande prosperità. E’ evidente che non la si può attribuire soltanto alla ricchezza del suolo perché l’intera Sicilia è un paese fertilissimo... «La prima ragione che mi venne in mente per un tale fenomeno è questa: le terre intorno all’Etna, essendo poste tra due delle più grandi città della Sicilia, Catania e Messina, trovano in queste due direzioni vasti mercati per la vendita dei loro prodotti, che non esistono affatto nel centro dell’isola o sulla costa meridionale. «La seconda ragione, che accettai con maggiore difficoltà, finì, poi, col parermi la migliore. Le terre che circondano l’Etna erano soggette a distruzioni spaventose, e i signori feudali e i monaci se ne liberarono ben volentieri, sì che il popolo ne e divenuto proprietario. Ora la divisione della terra vi e quasi senza limiti, ed ognuno ha qualche interesse alla terra, per piccolo che sia tale interesse. Questa è la sola parte della Sicilia in cui il contadino sia proprietario. Pure, a questo punto dobbiamo porci una domanda: perché questo spezzettamento della proprietà, che tante persone sensate considerano in Francia un male, deve essere consideralo un bene, anzi un gran bene, in Sicilia? «Mi sembra facile dare una spiegazione a questo fenomeno, ed anzi la situazione siciliana mi sembra costituire un nuovo esempio da aggiungere a tutti gli altri, i quali provano che sotto il sole non ci sono principi assoluti. Si capisce perfettamente, infatti, che in un paese molto avanzato, nel quale il clima porta all’attività e tutte le classi sono possedute dal desiderio di arricchirsi, come in Francia e soprattutto in Inghilterra, l’estrema divisione della proprietà terriera possa nuocere all’agricoltura e conseguentemente alla prosperità interna, poiché essa toglie grandi mezzi di migliorie ed anche di azione a uomini che avrebbero la volontà e la capacità di farne uso. «Al contrario quando si tratta di risvegliare e stimolare una popolazione infelice e paralizzata per metà, per la quale il riposo è un piacere e presso la quale i ceti elevati sono come sepolti nella loro pigrizia ereditaria e nei loro vizi, non c’è mezzo più efficace che la divisione della terra». Questa risposta vale anche per l’altra domanda, frequentemente formulata e mai nettamente esaudita, sul perché non si registrano fenomeni propriamente mafiosi nella Sicilia orientale. Intanto, rispetto ai fatti di Bronte e di altri paesi etnei nell’estate del 1860, ci dice come il feudo, che nella Sicilia occidentale appariva una realtà inamovibile, quasi un fatto di natura più che di storia, in quella orientale era già un anacronismo, una sopravvivenza. E del resto le rivendicazioni erano rivolte verso le terre dei demani comunali, e da ciò la denominazione di «comunisti » assunta da coloro che ne propugnavano la divisione. Ma alla divisione si opponevano i galantuomini, e per tante ragioni. Non ultima, quella che prima di dividere bisognava ricostituire il catasto demaniale che avevano roso e usurpato da ogni parte. Non tutti i galantuomini, in effetti: ma per quelli che stavano dalla parte dei «comunisti» è difficile dire se davvero erano di diversa pasta degli altri, e se lo stare dalla parte del popolo non tosse per loro spregiudicato giuoco di potere. Ma chi vuol saperne di più, sulla situazione economica, sociale e politica di quella zona, cerchi l’esemplare studio di Giuseppe Giarrizzo: Un comune rurale della Sicilia etnea. Che dice di un solo paese, Biancavilla, e ne svolge i fatti, e le cause, dal 1810 al 1860: ma si può considerare come un campione, e forse più probante di Bronte, dell’intera zona. A Bronte la presenza degli inglesi, il coagularsi intorno a loro degli interessi più retrivi, confonde un po’ le cose, il giudizio, così come allora «precipitò» diversamente i fatti. Certo è che per Biancavilla, per Bronte, per tutti gli altri comuni (anche per quelli che non sollevarono atroci jacqueries), la conclusione cui arriva Giarrizzo è esattissima: «... l’angustia municipale della protesta non può nascondere il carattere generale della sconfitta politica dei "liberali" di Biancavilla. Questi languiscono in carcere, mentre gli "antiliberali" riprendono il timone della cosa pubblica, e la turpe storia dei furti, delle malversazioni, delle usurpazioni ricomincia... Non c’è ormai posto per altri valori, per altre ragioni ideali: la roba, col suo peso esclusivo, domina la realtà morale, politica, psicologica di questo piccolo mondo. Ed è sull’amarezza di questa disfatta, sulla insensatezza della lunga tensione cospirativa che sorgono i dubbi più seri sul carattere liberale del nuovo regime... La torbida eredità di delusioni e di sconfitte in loro, il senso della giustizia offesa nei comunisti, la certezza orgogliosa del potere che vuol dire profitto e prevaricazione nei civili, costituiscono il bagaglio morale con cui la nostra piccola comunità è entrata nella vita nazionale». «La giustizia offesa»: e dirci che, in prevalenza sugli altri, questo è il punto dell’interesse che ho sempre avuto ai fatti di Bronte. Doppiamente offesa: e nella legalità rivoluzionaria che i «comunisti» brontesi credevano di dover legittimamente difendere, e nella legalità processuale cui Bixio e il tribunale di guerra avrebbero dovuto attenersi. Sul primo punto svolse poi la sua arringa l'avvocato Michele Tenerelli-Contessa, difensore di altri imputali nel processone che si svolse a Catania tre anni dopo. Ovviamente, non convinse (e non si può non ricordare Verga: I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesello lassù, quando avevano fatto la libertà»). Sul primo e sul secondo, Florestano Vancini ha svolto il suo film. Dopo cento e dodici anni, non si può dire che abbia convinto. E non è buon segno.» [Leonardo Sciascia, La Stampa - numero 170 dell'8 Agosto 1972, Pagina 3] Bronte, il lato oscuro del Risorgimento
Capolavori ritrovati: a Bellaria ricompare il film «rimosso» di Florestano Vancini (... ) Ora che Bronte torna a circolare, Vancini ha tutti i motivi di ricordare come sia stato, per anni, «un film rimosso, perché sgretolava il mito secondo il quale l’Italia era stata fatta a tavolino da 4-5 brave persone: Cavour, Garibaldi, Mazzini, il re. Anche la storia del cinema italiano l’ha, in qualche modo, cancellato. E invece si tratta, se posso dirlo, del “secondo” film importante sulla spedizione dei Mille. Il primo è ovviamente Il gattopardo di Visconti, che racconta il 1860 vissuto dai nobili siciliani; Bronte è l’esatto opposto, il 1860 visto dai poveri, dai vinti, come li chiamava Verga. Ci sarebbero altri film, che però sarebbe meglio dimenticare. Viva l’Italia è celebrativo in modo squallido - ed è un peccato che un regista come Rossellini l’abbia firmato - e il vecchio 1860 di Blasetti è una sorta di fiaba. Semmai, mi piace ricordare un altro film rimosso, Quanto è bello lu morire acciso di Lorenzini, che raccontava l’impresa e la morte di Carlo Pisacane. Comunque è vero, il Risorgimento è stato poco trattato dal cinema italiano e sarebbe bello riportarlo in auge. Ma in modo critico. I santini risorgimentali non servono a nessuno». (di Alberto Crespi, L'Unità, 9 giugno 2002)
L'episodio della storia che ha ispirato il film di Vancini
Il popolo di Bronte L'atteggiamento dei braccianti e quello dei «cappelli» quando i Mille sbarcarono in Sicilia Antiche e nuove ragioni di malcontento fecero esplodere la collera collettiva - La repressione di Bixio e la «cronaca di un massacro» - Le polemiche di oggi Il popolo di Bronte fu tra i primi, in Sicilia, a insorgere e a far sventolare il tricolore per le strade quando i mille di Garibaldi, sbarcati a Marsala l'11 Maggio del 1860, cominciarono la liberazione della Sicilia (...) Non si tratta di mettere in discussione il Risorgimento e l'Unità d'Italia. Si tratta di affrontare, invece, senza mitologie e senza falsificazioni, le ragioni profonde di classe, per cui l'ltalia è rimasta divisa; borghesia del Nord e feudalità del Sud, spartendosi il potere, hanno mantenuto una spaccatura nel Paese che ancora oggi richiede una rivoluzione da compiere. (di Massimo Felisatti, L'Unità, 7 agosto 1972) Quel Film sull'Ingiustizia trionfante
di Paolo Rastelli Siamo nel 1972, quattro anni dopo quel biennio ’68-69 che aveva messo in discussione i tradizionali rapporti politici, economici e sociali e stravolto la società italiana. Il vento del cambiamento aveva investito anche il mondo dell'arte, a cominciare dal cinema: proprio nel 1968 c'era stata la violenta contestazione, da parte di attori e registi, della Mostra Internazionale di Venezia, due giorni di fuoco che colpirono al cuore la manifestazione, poi addirittura sospesa per tre anni. Il cinema , cominciò a tentare di rileggere con occhi nuovi, quelli degli oppressi, la storia italiana, dando più spazio a tematiche «di sinistra». E in quel clima che, appunto nel 1972, esce Bronte, storia di un massacro che i libri di Storia non hanno raccontato, di Florestano Vancini. Il film è un tentativo di sfrondare dal maquillage patriottico l’epopea garibaldina, andando a ripescare un episodio dell'invasione della Sicilia da parte delle Camicie rosse: la fucilazione dei capi di una rivolta contadina. Una brutta storia conosciuta da pochi eruditi, ricordata solo nella novella Libertà di Giovanni Verga. Il Corriere della Sera se ne occupa il 28 aprile 1972 con una breve recensione di Giovanni Grazzini, critico cinematografico del giornale: il film di Vancini fa pensare «al tragico rapporto corrente tra rivoluzione e repressione e trasmette un senso di angoscia: ieri e oggi l'ingiustizia è destinata a trionfare, la vera libertà è irraggiungibile». [Paolo Rastelli, Corriere della Sera, 31 Luglio 2010]
LO STRANIERO IN ITALIA
Sulla cronaca d’un massacro di Jacques Nobécourt Si può parlare di capolavoro, quando per un film ci sono non più di una decina di spettatori, il sabato pomeriggio, in un enorme cinema che cinquant’anni fa era un music-hall? Quanto «terrà» il film? Poche settimane. Verosimilmente. Poi partirà per l’estero, e il pubblico italiano verrà a sapere con stupore di aver perduto l’occasione di conoscere una delle opere più significative della cultura contemporanea. Non sarà la prima volta, né l’Italia ne ha l’esclusiva. Verità d’ogni tempo Il film in questione è l’ultimo lavoro di Florestano Vancini: Bronte, cronaca di un massacro. Ad essere giusti, il film avrebbe dovuto essere presentato a Cannes, e ricevervi i più alti onori. Al suo confronto, Fellini sembra folkloristico, e Petri un autore di cinema di consumo. I più fastosi e i più festeggiati registi, paragonati a Vancini, finiscono per suscitare quasi compassione, con i loro piccoli mondi personali, con i loro problemi esibiti in una storia «che piace al pubblico». Vancini, invece, non cerca affatto di piacere, ne di «apparire» personalmente nel suo film. Dignitoso, riservato, in disparte, come senza volerlo, è riuscito a raggiungere, attraverso la realtà di un piccolo gruppo umano, verità drammatiche che sono di ogni tempo. Rimettendo lo spettatore con le spalle al muro, imponendogli la sua lucidità — che, in questo caso, non è certo autolesionismo, — Vancini suscita la stessa qualità di fervore che negli adolescenti di Parigi, all’indomani della guerra, creava la scoperta del giovane cinema italiano, nelle salette del Quartiere Latino. Roma, città aperta, Paisà o Umberto D erano visti e sentiti come drammi che toccavano tutti gli europei, di là dalla testimonianza che davano sulla realtà italiana. Bronte si pone allo stesso livello. La trama è nota: Bixio reprime una rivolta di contadini, a Bronte, in Sicilia, durante la spedizione dei Mille. Già a questo punto, la proposta è coraggiosa. Vancini ha scelto di analizzare due miti, quello di Garibaldi e quello della partecipazione contadina al Risorgimento, nell’unificazione d’Italia. Cronisti e storici ne avevano dato già un quadro sfumato. Ma farla vedere, questa realtà, e tutt’altra cosa, ben più esplosiva di una riflessione erudita. Il regista non è caduto nel piacere gratuito della demistificazione, che può diventare un’altra forma di manicheismo. Il suo Bixio è convincente e suona giusto, alla pari dei suoi avversari. L’onestà di Vancini è allo stesso livello di quella di Pontecorvo nella Battaglia di Algeri: Bixio è come il colonnello dei paracadutisti, senza deformazioni ne caricature. La straordinaria sobrietà del dialogo ne sottolinea l’efficacia. Non c’è posto per il sentimento. Dopo un secolo, il patriottismo unitario, la fedeltà piemontese, debbono ancora prevalere sulle tragedie realmente avvenute? Il processo di riesame della storia del passato, per quanto possa essere scomodo per gli spiriti gregari, è necessario alla comprensione della storia d’oggi. Il significato della parola «libertà» per i contadini siciliani del 1860 è proprio tanto diverso da quello d’oggi? In alcune immagini, Vancini lo fa capire con ben più forte realismo di Blasetti o Visconti. Libertà, rivoluzione? E’ così che egli ci tiene un discorso indiretto sul «gauchisme», sull’anarchismo che deborda nello spontaneismo e nell’esplosione della violenza. La sopravvivenza delle reazioni del sottoproletariato, fondate su una sete autentica di giustizia sociale e una non-politicizzazione assoluta, non e promossa dalla sopravvivenza delle cause che le generano? Di là dai riferimenti precisi a un tempo, a un luogo, a un’analisi politica, Vancini si pone al livello dei classici della tragedia. Tocca l’universale, le eterne domande senza risposte: la libertà, la rivoluzione, sono possibili? L’obbligo di valersi anche dell’oppressione per vincere l’oppressione, di transigere con l’ingiustizia per sradicare l’ingiustizia: non è, questa, la scoperta sconfortante che fa l’avvocato Nicola Lombardo capo dei liberali di Bronte, che ha voluto la pace? Albert Camus, anch’egli avrebbe potuto descrivere questa morte di un giusto: non avrebbe saputo esprimere, meglio di Vancini, questa evidenza tragica dell’inutilità d’ogni utopia, rivoluzionaria o riformista, oltraggiata dalla bassezza della realtà. L’assenza di pathos nella seconda parte del film, la sua secchezza di processo verbale, il più alto pudore espressivo, aprono tuttavia una prospettiva, al di là delle ultime immagini del plotone d’esecuzione: «ma comunque, bisogna continuare». E’ ancora una volta la lotta di Sisifo... Senza fede religiosa, l’avvocato Lombardo muore con una fiducia disperata nell’uomo. Decisamente, è proprio a Camus che bisogna richiamarsi. Le domande che lo scrittore poneva nel 1954. Vancini, con altri strumenti, le solleva per altri giovani. Il suo avvocato Lombardo s’inserisce nella linea degli eroi tragici, quali li ha conosciuti la cultura mediterranea, dalla giovane Antigone fino ai personaggi de «La peste». Dopo tanti lavori imperfetti, incoerenti o troppo adulatoli del gusto dello «spettatore medio», come non salutare con il titolo di «capolavoro» questa testimonianza di Florestano Vancini, che sfronda di ogni banalità la domanda essenziale: «L’uomo, per fare cosa?». [Jacques Nobécourt, corrispondente di «Le Monde», La Stampa, numero 145 del 23 Giugno 1972, pagina 2] Rinasce ‘Bronte’, il film verità sull’altra faccia del Risorgimento
di Alberto Bonanno “Bronte”, ovvero quando il cinema si fa storia. Il film di Florestano Vancini, la controversa “Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato”, come spiega il sottotitolo, risorge adesso dopo trent’anni. La pellicola originale è stata appena restaurata dalla Cineteca nazionale (...). Ed è l’occasione per riportare lo sguardo su una delle opere simbolo più significative del cinema italiano del dopoguerra, l’unica - insieme ai dialoghi di “La smania addosso” di Marcello Andrei - sceneggiata dal «maestro di Regalpetra». Cessate le pruderie storiche e le reticenze con cui la verità fu celata nel buon nome di Garibaldi, è proprio il film di Vancini a raccontare la vera storia del massacro, ordinato nell’agosto 1860 da Nino Bixio, in cui 150 contadini vennero passati per le armi (furono solo 5 i condannati alla fucilazione, gli altri 145 furono rinviati a processo, ndr) dopo un processo neppure sommario. Erano colpevoli di una insurrezione contro la borghesia latifondista che rischiava di ostacolare l’impresa garibaldina. “Bronte” (il cui cast comprende Ivo Garrani, Mariano Rigillo e un nutrito drappello di attori slavi dovuti alla coproduzione istriana), è film ma anche, se non soprattutto, documento puntiglioso, realizzato con l’attenzione di chi «ha sempre amato andare in fondo alle cose - spiega Vancini, 75 anni e la verve di chi non ha mai spento il cervello - e si è sempre interrogato per capire cosa ci fosse dietro i fatti. E con la cura di chi per la storia, vista nell’ottica della verità, o di ciò che sia a essa più vicino, nutre una vera passione». Così per anni e anni lo stesso Vancini lo ha raccontato alle scuole italiane. Documento scomodo e dalla gestazione difficile, che rende l’idea di cosa significasse fare la controstoria seppure «con il solo intento di raccontare i fatti con il massimo rigore» appena cinquanta anni fa. Vancini attese infatti più di dieci anni per vedere realizzato un film che soffrì le defezioni dei produttori - Rai compresa, che ne volle fare uno sceneggiato televisivo, poi mai trasmesso e ritrasformato in film - e scontò la pena di trovarsi «fuori dal giro dei potentati» delle lobby che aprivano le porte dei principali festival («Come Cannes - racconta Vancini - dove il film non fu neppure visionato»). «L’ idea di un film sui fatti di Bronte è nata da Verga, un autore per il quale presi una cotta memorabile - spiega Vancini - e risale ai primi anni Cinquanta, quando in Sicilia stavo girando dei documentari. Fu la novella “Libertà” che mi colpì in modo particolare. Era l’unica pagina di Verga velata da una certa vaghezza. Lui, che descriveva ogni particolare minuziosamente, quella volta parlava di “un generale”, “un paese”~ Chiesi lumi a un professore catanese di lettere che conosceva bene Verga, e mi spiegò che “Libertà” si ispirava ai fatti di Bronte». Era un episodio buio, un massacro compiuto durante l’avanzata garibaldina a danno di un gruppo di miserabili ridotti alla fame dai latifondisti che spalleggiavano la dittatura. Furono uccisi 150 rivoltosi (furono solo 5 i condannati alla fucilazione, gli altri 145 furono rinviati a processo, ndr), e tra essi c’erano avvocati di idee liberali e poveri mentecatti che avevano preso parte alla rivoluzione quasi per gioco. Fatti che rimasero a lungo assenti dai libri di storia, oscurati dalla figura eroica di Garibaldi. «Ricostruire l’accaduto fu un’ impresa - racconta Vancini - perché su quanto era realmente successo regnavano silenzio e reticenza di cui era stato vittima persino Verga. Tra il 1960 e il ‘61, quando il progetto divenne concreto, con Fabio Carpi e Benedetto Benedetti avevamo condotto una ricerca molto accurata. Ci sentivamo preparati al massimo sia su quei fatti storici, che anche sulla cultura e sulla letteratura siciliana, che conoscevamo a fondo. Benedetti aveva rintracciato gli atti dei processi, quello di Bronte che volevamo raccontare e quello ai responsabili del massacro, che si era celebrato a Catania nel 1863. Trovò anche il volume di un brontese, Benedetto Radice, che raccontava minuziosamente l’accaduto, e scritti che aggiungevano dettagli alla vicenda. Tuttavia, c’era qualcosa che continuava a sfuggirci. Era qualcosa di inafferrabile, di indefinito, che ci sfuggiva perché sia Fabio che io eravamo due cittadini del Nord. Ci voleva la capacità di leggere tra le righe di quegli atti e di quelle cronache, di farlo come avrebbe fatto un siciliano. E il contributo determinante lo diede Leonardo Sciascia. Sia le “Parrocchie di Regalpetra” che “Gli zii di Sicilia” erano suoi libri che non ci erano sfuggiti. Leonardo partecipava alle riunioni in silenzio, parlava appena. Poi tornava l’indomani con un po’ di pagine dattiloscritte. Illuminanti». Oggi Vancini parla di “Bronte”, che alla fine vide la luce nel 1972, come di «un’opera riuscita, indubbiamente, al di là della visione pessimistica o meno della storia. Certo è - prosegue - che non amo il cinema celebrativo, agiografico e così come per “Il delitto Matteotti”, altro mio film di argomento storico, ho solo cercato di raccontare le cose dal rovescio della medaglia».. E chissà quanti altri “Bronte” potrebbero nascere se la storia venisse riletta con obiettività. Ma la storia andrebbe allora riscritta, e sarebbe forse troppo scomodo. (Alberto Bonanno, La Repubblica, 20 gennaio 2002, pagina 10, sezione: Palermo)
Il film di Vancini sulla rivolta repressa da Bixio. Un'occasione per riflettere sul rapporto tra cinema e storiaa
Il massacro visto dal Sessantotto di Paolo Macry […] Negli ultimi anni l'opera di Vancini, che non ebbe un buon successo di pubblico, ha avuto una certa diffusione nelle scuole, come materiale didattico utile alla comprensione del Risorgimento. Con la riforma Moratti, l'uso didattico dei film - sono in molti ad auspicarlo - dovrebbe essere più frequente. Ma fino a che punto un film di fiction può essere utilizzato come documento? Bisogna dire anzitutto che la rappresentazione filmica non può sostituirsi all'analisi storica. […] L'interpretazione che i film danno degli avvenimenti storici, va - consentitemi il gioco di parole - a sua volta interpretata. Ivo Garrani, al quale Florestano Vancini affidò il personaggio dell' avvocato Nicola Lombardo, il moderato di Bronte che guidò la rivolta e cercò di darle uno sbocco non sanguinoso, in un' intervista concessa a Pasquale Iaccio ha detto che nel film c'è una Sicilia «autentica», anche se fu girato in Jugoslavia «con attori jugoslavi bravissimi e una ricostruzione del paese abbastanza felice». L'autenticità dunque è tutta costruita. Ciò non significa che sia falsa. A Bronte ci furono «divisione di beni, incendi, vendette, orgie ad oscurare il sole, e per giunta viva a Garibaldi». La repressione di Nino Bixio fu durissima: i villaggi dell'Etna gli gridarono «Belva!». Non lo hanno scritto gli sceneggiatori del film, ma il garibaldino Giuseppe Cesare Abba, che di quei fatti fu cronista e testimone. Abba, inoltre, attribuì a un frate, padre Carmelo, l'auspicio di una guerra «degli oppressi contro gli oppressori, grandi e piccoli». Per questo, una ricostruzione che interpreti almeno una parte delle vicende del 1860 come una lotta delle «coppole» contadine contro i «cappelli» borghesi non costituisce una forzatura, anche se, nel caso della rivolta di Bronte, la complessa analisi che ne fece nel 1988 lo storico Salvatore Lupo, sottolineandone tutta la specificità, mostra che essa non fu un episodio di un'eterna lotta di classe.. Leggendo invece oggi la sceneggiatura del film (alla quale partecipò anche Leonardo Sciascia) il ricordo del 1968 si confonde continuamente con la rievocazione del 1860, in un sottile e non arbitrario gioco di rinvii. Il carbonaio Calogero Gasparazzo (al quale gli sceneggiatori fanno dire: «Santo diavolone! E come si fa a fare la rivoluzione contro i «cappelli» se chi la comanda è un «cappello?») è un rivoltoso del 1860 o un extraparlamentare? L'immagine dell'operaio Gasparazzo della striscia di «Lotta continua» finisce col sovrapporsi a quella del carbonaio di Bronte. E l'avvocato Lombardo sembra un rappresentante di quella che veniva allora bollata come «sinistra tradizionale».. Se si vuole, come è giusto, che i film entrino nella nuova scuola in maniera più diffusa e massiccia, queste cose devono essere spiegate agli studenti. Nel caso di Bronte, si eviterebbe che finiscano col vedere il Risorgimento attraverso la lente del Sessantotto. […] Una discussione odierna sui rapporti tra storia e cinema dovrebbe riguardare anche un altro argomento. I grandi fatti collettivi, il Risorgimento, la prima e la seconda guerra mondiale, la Resistenza, hanno ispirato ottimi film e qualche capolavoro, ma non hanno fatto nascere una cinematografia epica. Durante il fascismo Alessandro Blasetti, Augusto Genina e Goffredo Alessandrini s'impegnarono a fondo per raggiungere questo obiettivo, ma i risultati furono scarsi. Eppure, come ricorda Pasquale Iaccio, la cinematografia italiana si è interessata di storia fin dalle origini: il famoso Cabiria di Giuseppe Pastrone, al quale collaborò anche Gabriele D' Annunzio e che rievocava le guerre puniche, apparve nel 1913, subito dopo la guerra di Libia. Ma nessun film d'ispirazione storica ha espresso la nostra identità con la stessa efficacia della commedia italiana. Eppure abbiamo vissuto vicende tragiche, che hanno coinvolto profondamente l'intera popolazione. Ma non ne abbiamo una memoria condivisa. E senza di essa non può esserci vero epos nazionale, né nella letteratura né nel cinema. [Paolo Macry, Corriere della Sera, 23 gennaio 2002]
VERGA, SCIASCIA, VANCINI
Tre letture di una strage di Filippo M. Battaglia Fino a 35 anni fa, non lo conosceva praticamente nessuno. La sua memoria era affidata ad una novella di Verga, “Libertà”, che ne restituiva la drammatica concitazione e il senso di rassegnazione. Il massacro di Bronte, autentico specimen de “l’altro Risorgimento”, nella sua versione storicizzata era noto a pochissimi. Per il resto, c’era solo una novella. La rivolta contadina dell’agosto del 1860 capeggiata dall’avvocato Nicolò Lombardo, che aveva come obiettivo l’occupazione delle terre dei latifondisti era praticamente ignorata. Così come era sconosciuto l’epilogo sanguinario con cui ebbe fine quella sommossa. Ecco perché negli anni Sessanta un regista ferrarese, Florestano Vancini, decise di iniziare a lavorare a un film che rievocasse quella strage. “Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno mai raccontato” si sarebbe rivelato uno dei più dibattuti lungometraggi del secondo dopoguerra. A 35 anni di distanza, la sua genesi è ora raccontata in un libro a cura di Pasquale Iaccio, “Bronte” (edizioni Liguori, 234 pagine, 20,50 euro), con la sceneggiatura del film e un’intervista allo stesso Vancini, in cui racconta la collaborazione con Sciascia. «In quegli anni, 1960-1961, stava affermandosi un giovane scrittore siciliano di cui leggevamo le prime pubblicazioni e che ci interessava moltissimo. Lo contattammo e gli chiedemmo di collaborare. Lui fu ben felice. Con Sciascia stendemmo il copione del film che rimase fermo per 8-9 anni. Era già molto grosso e calcolavamo che avremmo superato le due ore. Ma la Rai ci chiese di farne tre puntate da 50 minuti. Allora, per questa rielaborazione, intervenne un altro sceneggiatore siciliano, Nino Badalucco».. Per girare il film, Vancini si recò dapprima a Bronte, dove iniziò una ricerca ossessiva per rintracciare documenti o racconti che rievocassero in qualche modo i fatti di un secolo prima. Tra queste, lo impressionò un libro scritto a inizio Novecento da un avvocato, Benedetto Radice, che negli anni del massacro aveva dieci anni. «Durante la maturità - racconta il regista - si mise a studiare la storia della sua terra e pubblicò tre ponderosi volumi cominciando dalle leggende preistoriche. L’ultimo, dedicato ai fatti del 1860, si intitola “Nino Bixio a Bronte”». Ma la ricerca di Vancini non si fermò al ritrovamento del libro. Il regista ferrarese notò che nella sua novella Verga raccontava di un processo celebrato a Catania. Si procurò gli atti che lesse attentamente. Muniti di una mole enorme di documenti, Vancini e Fabio Carpi iniziarono così la sceneggiatura. Ma dopo i primi mesi di lavoro avvertirono la necessità di coinvolgere qualcun altro: «Anche se ci ritenevamo preparatissimi sulla storia e la cultura siciliana, eravamo pur sempre due padani; io ferrarese, Carpi milanese. Sentimmo così il bisogno di avere il contributo di un siciliano autentico perché, anche se ci basavamo sui documenti dell’epoca, avevamo una specie di timore nell’affrontare la psicologia siciliana». La scelta cadde su Leonardo Sciascia, che aveva appena finito di scrivere “Il giorno della civetta”. Lo scrittore giudicava la novella di Vergaa «la più alta e tragica testimonianza che di questi avvenimenti ci resta». E trovava particolarmente interessante la figura (ignorata nel racconto) dell’avvocato Nicola Lombardo, il capo rivolta che aveva organizzato l’occupazione dei latifondi di Bronte: «Quel personaggio avrà inquietato e la coscienza civile e la coscienza artistica di Verga». Ma lo scrittore si convinse anche che l’imbarazzo dell’autore catanese nasceva dalla sua sensibilità civile: «Da questo punto di vista, cui per condizione sociale e culturale era legato, gli sarà poi parso che la rappresentazione di un simile personaggio, e delle circostanze di cui fu vittima, venisse a minacciare di leggenda nera la storia, dopotutto gloriosa, dell’unità d’ Italia». La conclusione di Sciascia era assai amara. Citando una delibera del Consiglio Civico di Bronte, ricordava come l’allora governatore di Catania si fosse opposto alla richiesta di processare altri sediziosi perché la rivolta era solo effetto di una reazione, per «essersi negata al popolo la divisione delle terre di demanio comunale». Ma a quella coraggiosa perorazione era seguita la risposta netta dello stesso Consiglio: «Considerando che il Generale Bixio, quell’uomo vero italiano, ha nel suo manifesto del 12 agosto ultimo testificato che i misfatti in Bronte sono l’effetto di una reazione, si vede che il Governatore è caduto in uno scandaloso errore indegno dell’onesto sentire italiano». «Con tutto il rispetto per Bixio, - annotava Sciascia - nasceva così il vero italiano e l’onesto italiano, di cui abbiamo visto nel fascismo più perfetti esemplari ed effetti». Una chiosa che potrebbe tornare buona anche per i miti della moderna società civile, fino a correre il rischio di doverle attribuire un significato metastorico. [Filippo M. Battaglia - La Repubblica, 17 ottobre 2007, pagina 12, sezione: Palermo] |