Dopo aver descritto la situazione italiana e il sorgere delle società segrete di Mazzini e Garibaldi e il ritorno in Sicilia di Crispi e Rosolino Pilo, il nostro storico aggiunge: “Dappertutto sorsero comitati segreti. Ogni capo Distretto aveva segrete intelligenze con i Comitati dei Comuni dipendenti affinché tutti pronti insorgessero alla medesima ora. A questo movimento non poteva rimanere tranquillo Bronte […] il cui Comitato, presieduto dal barone Giuseppe Meli, teneva dunque le sue pratiche con quello di Adernò e col Comitato Nazionale del Distretto di Catania, in Mascalucia, del quale ultimo era presidente Michele Caudullo, che poi nei tristi giorni venne a Bronte, quale commissario straordinario di guerra. […]Segue l’elenco dei cittadini ritenuti liberali: il cav. Gennaro Baratta […] Giuseppe Radice, […] i fratelli Nicolò e Placido Lombardo, i fratelli Carmelo e Silvestro Minissale, il Dott. Luigi Saitta, l’avv. Nunzio Cesare, Franco Thovez, fratello dell’amministratore della ducea, Rosario Leotta, segretario della ducea, il sac. Antonino Zappìa Biuso,l’avv. Giuseppe Liuzzo. “Erano in voce di borbonici: Antonino Leanza, sindaco, Pietro Sanfilippo, capo della guardia urbana, Antonino Parrinelli, farmacista, Ferdinando Margaglio avvocato, Bernardo Meli farmacista, Vincenzo Saitta percettore delle tasse, Dr. Aidala Francesco cassiere comunale e tutti i preti e i frati. Altri civili si mostravano indifferenti: né fedeli, né ribelli. “Si macchinava, si trepidava […] Il popolo pareva ignorare quelle macchinazioni, ma […] fiutava per l’aria le imminenti novità.” Avvenuto lo sbarco dei Mille, Garibaldi “lanciava il proclama della riscossa” dichiarando che loro intento era solo “la liberazione della nostra terra,” e incitando “i Siciliani All’armi tutti! La Sicilia insegnerà ancora una volta come si libera un paese dagli oppressori colla potente volontà di un popolo unito.” “Altri proclami improvvisano gli ufficiali […] Si legge, si commenta, si spera. La febbre di indipendenza prende anche l’animo dei giovani che corrono ad arruolarsi […] I Comitati rivoluzionari preparano armi. […] Bronte […] a viso aperto, sfidando la polizia, fu tra i primi […]a vendicarsi in libertà. […] I reggitori del Municipio, fedeli al Borbone, e più affezionati alle loro cariche, […] aspettavano l’ultima ora per darsi con comodo al vincitore. Era la politica tradizionale del 1820: temporeggiare. Il comitato teneva le sue segrete adunanze nella casa ducale e ne faceva parte il dottor Antonino Cimbali(3) […]. Eran venuti a Bronte per smuoverlo Giuseppe Arculia, il cav. Ciancio d’Adernò, il barone Tommaso Romeo da Randazzo e altri da Catania. - Era il mese di maggio -scrive il Cimbali- ed io coi miei ero alla Piana, quando un giorno, venuti degli emissari da Catania e da Adernò, si riunì il comitato nella casa Nelson. Io dovetti mostrarmi indifferente, per i molti nemici. Raccomandai però di tenere fermo col popolo che da un momento all’altro potevano ridestarsi i vecchi umori.(4) - Nocque questa astensione del Cimbali. Egli, di molto credito nel popolo e conoscitore dell’ indole della moltitudine, avrebbe potuto frenarne gl’impeti e scongiurare il pericolo che prevedeva. Verso mezzogiorno i dimostranti seguiti da popolo percossero la via principale colla bandiera spiegata gridando: Viva l’Italia! Viva Garibaldi! “[…] Gli avvenimenti incalzavano. […] La mattina del 17 (maggio) ritornarono a Bronte il cav. Enrico Ciancio d’Adernò, il barone Tommaso Romeo, Stefano Greco. Erano allo Scialandro ad attenderli gli avvocati Nicolò Lombardo, l’avv. Liuzzo Giuseppe, l’avv. Cesare Nunzio, l’avv. Francesco Cimbali, i quali ricevuta la bandiera, entrano in paese fra le acclamazioni entusiastiche del popolo. La bandiera portata dal modesto emissario Ciraldo, fu inalberata al Casino dei civili. L’avv. Cesare arringò la moltitudine, e le sue parole […] accolse questa con applausi, aprendo il cuore alle più belle speranze. […] Il paese era in festa, anche noi bambini ci si pavoneggiava per le vie con al petto la nostra bella coccarda fiammeggiante. Se non che quell’allegrezza si abbuiò un giorno, per un istante, alle parole imprudenti del notaio Ignazio Cannata, che alla vista della bandiera si era lasciato uscir di bocca: - Pirchì non si leva sta pezza lorda? Il popolo, che l’aveva in odio, non come borbonico, ma come notaio della ducea, raccolse quelle parole sconsiderate e se ne ricordò trucemente più tardi, e pazzo di gioia si abbandonò a frequenti dimostrazioni. […] La rivoluzione penetrò anche nel convitto Capizzi. Il sac. prof. Antonino Zappìa Biuso un giorno incaricò un suo discepolo di portargli una verga colorata in verde, rosso e bianco, per fare una dimostrazione sulla carta d’Italia. Il giovinetto, il domani, colla sua bella verga ornata di nastri tricolori, tutto lieto scendeva in classe con i suoi compagni, quando il prefetto di spirito, il rigido sac. Luigi Radice, bruscamente gliela tolse. Riunitosi il consiglio dei professori e dei superiori, fu lo Zappìa severamente rimproverato di quella scappata, che poteva compromettere l’esistenza dello Istituto; egli però come nulla fosse, ritornato in classe, parlò calorosamente ai giovani del gran fatto unitario. “Intanto Garibaldi nel 27 maggio entrava in Palermo, e chiamava alle armi tutta la Sicilia. “[…] Nel 31 maggio insorgeva Catania […] e Giuseppe Poulet, vecchio colonnello nel ’48, respinse i 1200 regi […] Sciolto il Comitato nazionale di Catania, il cittadino Vincenzo Tedeschi fu creato governatore da Garibaldi […] e così la rivoluzione entrò trionfalmente in Sicilia. “La notizia di Catania sollevata mise maggior fermezza in Bronte. Sentirono morte le speranze i pochi Borboniani, presero animo i liberali, e nel 29 giugno il Comitato inviava a Garibaldi un indirizzo ampollosamente retorico che si conclude così : “Gradite adunque i voti del popolo Brontino che gioisce delle vostre vittorie e grida a tutta gioia: Viva l’Italia unita! Viva Vittorio Emanuele! Viva Garibaldi! Bronte, 29 luglio 1860 - Firmato Il Presidente del Comitato: Giuseppe Meli e 10 componenti fra i quali figura Nunzio Lupo.(5) “Passava intanto da Bronte Nicola Fabrizi e molti giovani brontesi corsero ad arruolarsi sotto la bandiera del Dittatore.(6) “Coll’indirizzo inviato al Dittatore il paese accettava ufficialmente il nuovo governo. La plebe però non vedeva solo nel Garibaldi il liberatore dalla tirannide borbonica, ma il liberatore della più dura tirannide, la miseria; ed impaziente aspettava che fosse tolta la tassa sul macinato, fatta la divisione del demanio comunale, già ordinata dallo stesso Borbone e novellamente dal Garibaldi col decreto del 2 giugno. Di ciò i reggitori non s’erano punto curati, per naturale indolenza e per non ledere l’interesse di parecchi civili, che si erano fatti usurpatori delle terre vulcaniche del Comune. La restaurazione borbonica nel 1849, a Bronte, come altrove, aveva dato adito ad intrighi ed abusi, ed essendovi dappertutto sofferenti ed oppressi, da tutti s’agognava vendette e riparazioni. In Bronte specialmente lo spirito dei contadini era volto al patrimonio del Comune che sapevano essere larghissimo; onde essi, inquieti e crucciati, vedevano di mal’occhio alcuni della classe civile, sfruttatori ed oppositori ai diritti della plebe consacrati dalla rivoluzione. Era pure nella coscienza del popolo che la rivoluzione avrebbe sequestrato a beneficio della comunità i beni della ducea Nelson. Caduto il Borbone, dicevasi, sarebbe caduta anche la donazione da lui fatta non su beni propri, ma sul donativo del milione datogli dal Parlamento Siciliano nel 14 settembre 1794; giacchè il Re, per i beni tolti all’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo e concessi al Nelson, aveva assegnato sul milione, come corrispettivo della rendita che l’Ospedale ritraeva dallo Stato di Bronte, 75000 ducati.(7) “Giovò alla duchessa Nelson la sua qualità di cittadina britannica: un altro straniero sarebbe stato certo spogliato dei beni, la cui origine rammentava la fine di una repubblica e la morte lacrimevole di nobilissimi cittadini. “Erano trecento cinquanta anni che Bronte lottava per i suoi diritti […]. Aveva visto il suo territorio, ingranditosi per l’emigrazione dei Maniacesi, assottigliarsi di giorno in giorno, fino a sparire interamente per novelli diritti, cavilli e pretese dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo ed in seguito del Duca […] lunga, non interrotta sequela di cause aveva tenuto le generazioni in continui travagli e ne aveva occultamente esasperati gli animi. “I grandi tumulti, come le grandi passioni, recano in sé medesime la propria giustificazione. - Gli uomini, dice il Machiavelli, dimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio, -(8)- perché le cose che hanno in sé utilità, quando l’uomo ne è privo, non le dimentica mai, ed ogni minima necessità te ne fa ricordare e perché le necessità vengono ogni giorno, tu te ne ricordi ogni giorno.(9) - Ond’è che ogni rivoluzione o rivolta politica in fondo non è che rivoluzione sociale ed economica; e si muta volentieri padrone e si fanno le rivoluzioni, credendo migliorare. […] “Bronte, per sentenza di cattivi giudici, aveva sofferto di fresco la perdita degli antichi usi civici sui beni dell’Abazia di Maniace e di Fragalà. Il popolo ne incolpava l’incuria dei reggitori e la connivenza di malvagi cittadini; ond’esso aveva in odio gli uomini del Comune e della ducea,e non avendo più fede nei tribunali, credeva poter fare giustizia da sé, profittando dello scompiglio che naturalmente portava seco la rivoluzione politica. “In due fazioni era diviso il paese: comunisti da una parte, ducali dall’altra. Erano a capo dei comunisti: i fratelli Lombardo dott. Placido e avv. Nicolò, i fratelli Carmelo e Silvestro Minissale, il dott. Luigi Saitta. Avevano i fratelli Lombardo e Minissale sostenuto liti costosissime contro la ducea, donde il loro odio per essa. Tenevano per la ducea: Thovez, l’avv. Cesare, l’avv. Liuzzo, Leotta Rosario, Leanza Antonino, Bernardo Meli, quasi tutta la classe dei civili e, fra la maestranza, i Lupo e gli Isola; e, sebbene fra loro non si fosse mai venuto ad aperta guerra, pure tramavansi e macchinavansi a vicenda sin dal ’48 atroci calunnie, onde i Lombardo patirono il carcere. “[…] Ordinato lo scioglimento e la ricostituzione dei Consigli civici, e la formazione della Guardia Nazionale, […] esclusi dai consigli tutti i favoreggiatori diretti e indiretti della restaurazione borbonica,[…] l’avv. Nicolò Lombardo, sostenitore e capo dei comunisti, recò nelle sue mani il potere e mise ad effetto la tanto bramata divisione. La forza della rivoluzione ed i decreti del Dittatore gli davano cagione a sperare di sgominare e sopraffare il vecchio partito, che egli s’impegnò di mettere in mala vista al nuovo Governo. I reggitori e i ducali […] capirono che egli Presidente del Municipio, avrebbe disturbato il loro quieto vivere e sarebbe stato l’acerrimo nemico degli usurpatori; ond’essi […] lo combatterono mettendolo in sospetto di borbonico presso il governatore Tedeschi. Così si calunniavano a vicenda, e quindi brontolavano i cittadini. Indette le elezioni, credo, nella seconda quindicina di giugno, contro ogni previsione e speranza il partito dei comunisti rimase battuto. Invece del Lombardo Nicolò fu eletto a Presidente del Municipio Sebastiano De Luca, e il Barone Vincenzo Meli, uomo imbelle, a Presidente del Consiglio, invece del Carmelo Minissale e del dott. Luigi Saitta. Questa sconfitta crucciò ed esasperò i proletari, dei quali crebbe vieppiù l’esasperazione, quando invece del Lombardo venne eletto a giudice l’avv. Cesare, allargatasi la lotta nei partiti, in quell’aspro cozzare, fu non piccola causa del tragico tumulto.(10) Il partito rivoluzionario si sciolse. Il Lombardo, che si era adoperato al trionfo della rivoluzione, allontanato da tutte le pubbliche cariche, se ne accorò tanto, che voleva abbandonare il paese. Fu scritto al Governatore Domenico Piraino e al Comandante della Guardia Nazionale che provvedessero alle cose di Bronte. Furono dipinti come liberali camuffati i consiglieri e i magistrati eletti; furono accusati di aver tenuto in non cale i decreti del Dittatore, […] di non aver fatto la divisione dei beni comunali, e non aver abolita la tassa sul macinato: di che il popolo era fieramente corrucciato. Ma nessuno potè occuparsi di quelle querele. In mezzo a questo tramenìo dei due partiti non si può certo lodare la condotta del Governatore Tedeschi. […] Fu atto impolitico e funesto il suo di non soddisfare la naturale ambizione del Lombardo; il quale, certo, colla responsabilità della carica, non avrebbe spinto i contadini a quelle dimostrazioni, che tramutaronsi facilmente in sanguinosa sommossa. […]” Questi comportamenti “spinsero il Lombardo alle congiure e resero il conflitto inevitabile, fatale. […] Un’ immensa moltitudine percosse minacciosa le vie della città gridando: Abbasso il Municipio! Abbasso i Borbonici! Viva Garibaldi! Vogliamo la divisione. Il vecchio partito credette passeggera quella tempesta, e, imprevidente non si affrettò a soddisfare i desideri della plebe. “Allo Scialandro, in luogo aperto, ed in casa dei Minissale e più frequente in casa Lombardo, convenivano i popolani. Argomento dei discorsi: il modo di abbattere il Municipio, la divisione delle terre comunali e della Ducea, l’abolizione della tassa sul macinato. […] il Governatore di Catania, ad istanza del console inglese, che aveva subodorato le intenzioni della plebe, aveva fatto affiggere ai muri un avviso, nel quale raccomandava il rispetto alla proprietà Nelson. Il Minissale Carmelo e il Lombardo ridendo di siffatta raccomandazione dicevano: Appresso ne parleremo. […] “Si erano formate quattro compagnìe di Guardia Nazionale: tre di civili e maestri del partito ducale, […] capitani l’avv. Cesare, l’avv. Leanza, Franco Thovez, impiegato della Ducea e sospetto al popolo; l’altra di contadini, pochi civili e maestri, capitanata da Nicolò Lombardo: era chiamata la compagnìa degli spataioli(11). Delegato di P.S. era Nicolò Spedalieri, uomo caro a tutti. Le compagnìe si guardavano fra loro in cagnesco e si provocavano a vicenda. […] “Mentre il paese era in questi travagli avvenne un misfatto che lo contristò fortemente. […] Era difensore della parte civile l’avv. Cesare, dell’imputato il Lombardo […] L’omicida venne condannato a morte (18/6) […] Nell’animo dei due avvocati rivali crebbero le cagioni dell’odio e nella plebe il malcontento. La marea ingrossava. I ducali compresero allora il pericolo; alcuni civili giurarono la morte del Lombardo. […] Questi, saputa la trama e il pericolo, non usciva più la sera e faceva entrare i suoi dalla parte opposta, per una porticina che dà nell’orto. “Mentre questi casi tenevano variamente agitato il popolo, il domani dell’entrata di Garibaldi a Palermo erano scappati dalle carceri, non più ben custodite, molti delinquenti, che, sparsisi per paesi, correvano la campagna, sobillando i popolani contro i borbonici, che erano i possidenti, dei quali bramavansi i beni e il sangue, sperando impunità al mal fare nell’ universale trambusto; giacchè facilmente sperdonsi nei tumulti e colpe e colpevoli. Vi ha chi afferma che quella tela di delitti, estesa a varii comuni dell’Isola, era stata ordita precedentemente nelle carceri.(12) “Io invece penso essere un ordinario fenomeno che riappare sempre sotto la stessa forma, nelle mutazioni di governo, ovunque son torti da vendicare, deboli da sopraffare e partiti che cozzano fra loro e si dilaniano. Le idee di libertà giungono alla conoscenza delle plebi travisate in licenza […] allora viene a galla tutta la feccia plebea, bramosa di saccheggi e di rapine. In quel torno di tempo, giugno e luglio, insorsero parecchi comuni (ne elenca 24) dove la plebe […] gridò: abbassu li cappeddi. […] “Ciò che non si può ottenere in tempi ordinari e per via di leggi, si è soliti tentar di ottenere colla violenza nelle rivoluzioni, credendo come spesso accade, che queste sanzionino e ratifichino il fatto compiuto. Ciò che non era stato possibile nel ’48 si sperava nel ’60. Da cosa nasce cosa. Si faceva correr voce che il Lombardo tenesse corrispondenza con Garibaldi; il che cresceva a lui prestigio ed audacia agli insorti; e molti del popolo […] si erano accostati a lui per abbassare le forze degli avversari e costringere il Municipio a lasciare il potere. “Erano ritornati in Bronte dalle carceri alquanti malfattori, noti per uccisioni e per furti. […] Andavano costoro per le vie con berretti e fiocchi tricolori, fieri della ricuperata libertà, sobillando […] il popolo minuto alla sommossa, […] Questo rumoreggiare del popolo attirò pure in Bronte […] molti altri facinorosi dei paesi vicini. […] Il Municipio ed il Comitato provvisorio inquieti della sinistra apparizione di quei fattori, deliberarono l’arresto dei caporioni brontesi. La mattina dell’8 luglio il capitano Franco Thovez con la sua compagnìa, con a capo il notaio Cannata e Giovannino Spedalieri, sopraintendente alle carceri, percorse il paese a suon di tamburo, perquisì parecchie case ed arrestò il Gorgone, Nunzio Franco Cesarotano, l’emissario Nunzio Ciraldo e Arcangelo Attinà. […]” Il giorno dopo, 9 luglio, il Lombardo scrisse al Marchese Casalotto, comandante della Guardia Nazionale, protestando per l’arbitrarietà degli arresti “compromettenti la libertà dei cittadini e l’ordine del paese. […] “Il comandante, in data 11, risponde scandalizzato per la censura alla condotta del passato Governatore Tedeschi […] e lo prega di essere più riservato, scrivendo sul conto d’ una autorità, mentre loda la moderazione sua e degli altri perchè rassicurava l’ordine pubblico. “Però l’attentato alla libertà di qualunque cittadino è sempre censurabile, massime quando non si conservano le norme di legge, e perciò io dovrei […] pregarla perché […] Ella si metterà d’accordo col Delegato e con gli altri capitani della G. N. onde […] conoscere e provvedere al mantenimento dell’ordine con […] prudenza […] Però se qualche individuo si mostrasse refrattario agli ordini delle autorità dei capitani della G.N., Ella me ne darà dettagliato notamento individuale affinché possa a di loro carico emettere e provocare occorrendo misure di rigore. Son sicuro che non vorrà risparmiarsi a darmi conto di ogni avvenimento […] Ella, siccome gli altri […] dovranno far modo che la cosa pubblica non venga menomamente molestata per odii privati […] Firmato Il Generale Comandante Marchese Casalotto.(13) “Savi, autorevoli consigli e incitamenti questi del Comandante, ma che nello stesso tempo mostrano bene come le autorità del Distretto ignorassero o fingessero d’ignorare le discordie e le cause dei due partiti fieramente avversi fra loro. “Il Comitato intanto decise di far tradurre a Catania gli arrestati, ma […] dopo sette o otto giorni il presidente del Comitato […] o come altri dice il Lombardo […] favorì l’evasione dei carcerati […]; vi rimase il solo Ciraldo, a cui l’indomani fu data pure libertà e ordine di lasciare il paese. “La tranquillità pubblica venne vieppiù turbata. Le dimostrazioni si succedevano, canzoni minacciose cantavansi la sera sotto le finestre delle case designate al saccheggio. S’era prefisso per la sollevazione il giorno 5 agosto, ricorrenza della festa di S. Maria della Catena perché in quel giorno, domenica, vacando i contadini dai lavori campestri, si potesse levare a tumulto tutto il popolo. Il dottor Placido Lombardo, nella sua qualità di medico, andando per le sue visite, suscitava gli animi, raccomandando di non mancare nessuno al dì convenuto. Apertamente si ragionava per le vie, nei crocchi, nei caffè della prossima tumultuosa dimostrazione.(14) “Un contadino, Nunzio Ciraldo Frajunco, ritenuto matto, cinta la testa di pezzuole tricolori, intrecciate a foggia di corona, con una ferla in mano, andava annunziando per le vie: - Cappelli, guardatevi, l’ora del giudizio si avvicina, popolo, non mancare all’appello. Saliva anche sul Casino dei civili e lì, malaugurata Cassandra, ripeteva il suo rozzo, minaccioso e fatidico sermone, condito di sali e infarcito di scempiaggini. I galantuomini, veri dementi, ridevano del matto, mentre i popolani affilavano scuri e coltelli e preparavano polveri , aprendo l’anima alla brama di selvagge vendette. Vista ingrossarsi la tempesta, da alcuni buoni si tentò conciliare i partiti. Chiamato urgentemente da Ucria, venne in Bronte il Cav. Gennaro Baratta, amico al Lombardo. Egli mostrò a costui i pericoli a cui si andava incontro, essendo assai inaspriti gli umori di parte. Il Lombardo, troppo presumendo, l’assicurò che non si sarebbe venuto a vie di fatto; e a prova delle sue rette intenzioni, fatto venire a sé uno dei capi il muratore Rosario Aidala, gli ingiunse di raccomandare a tutti il rispetto alla vita e alla proprietà dei privati, e che si ponesse rigorosa custodia alla casa del Comune, dove trovavansi circa centomila lire. L’Aidala andò via mormorando degli ordini dati e ragionando coi suoi diceva: - A che questa rivoluzione? Se dobbiamo rispettare il denaro del Comune? Già tra il capo e i ribelli mostravansi diverse le intenzioni, argomento e presagio di sconvolte passioni e di anarchia. […] In quei giorni di agitazione uno dei fratelli Lupo, Nunzio, seguito dai militi della Guardia Nazionale andò a casa Lombardo per intimorirlo. Era il Lombardo seduto sul pianerottolo della sua casa, e ragionava con alcuni dei suoi. Il Lupo con parole arroganti e più aspri modi, gl’intimò di far cessare dimostrazioni, tirandolo per la barba, che egli portava lunga. Uno degli amici del Lombardo, Francesco Russo Scantirri Boccadivecchia, voleva vendicare l’atto insolente e provocatore; ma il Lombardo trattenne il braccio del popolano, per non fare con una intempestiva imprudenza abortire il preparato moto, che doveva portarlo al potere. Il Lupo andò via apostrofandoli: Non dubitate, siamo preparati a darvi la risposta.(15) “Le sorti del paese inclinavano già a precipizio per la dappocaggine delle autorità dei capitani del nobile corpo della G.N.; onde alcuni previdenti […] si strinsero insieme in casa del Presidente del Municipio, Sebastiano De Luca per organizzare la difesa. Ma per diversità di sentire […] non si prese alcun energico provvedimento, ma chiesero alle autorità di Catania sollecito aiuto di armi. “Alcuni di quelli che avevano più a temere della vendetta popolare, in pieno giorno ed a vista il popolo, fuggirono dalla scompigliata città. La mattina del 31 luglio il paese, popolarmente tumultuando, reclamava la divisione dei beni. Arringò la moltitudine il Lombardo, esortandola all’ordine, promettendo che si sarebbe adoperato a pacifica e legale divisione; ma la folla si diradò scontenta. Le autorità erano in grande imbarazzo. In questa stessa mattina alcuni civili e maestri e impiegati della Ducea, muniti di un officio del Presidente del Comitato, partirono segretamente per Catania, a sollecitare dal Governatore Pietro Crispo, succeduto al Piraino, l’invio di soldati narrando i mali che pubblicamente si minacciavano. Timidamente, per non trovarsi nel trambusto, lasciarono il paese anche i fratelli Minissale, fatti più cauti dai travagli patiti nel ’48. “Il governatore nel 2 agosto fece subito nota al Lombardo, qual capitano della Guardia Nazionale, la sua responsabilità scrivendogli che lo stesso giorno sarebbe partito il Questore e una forza sufficiente a far rinsavire i tristi, ma nello stesso tempo gli ricordava che era compito della G. N. mantenere l’ordine e sua la responsabilità della riuscita dell’operazione. Lo esortava quindi a spiegare tutto lo zelo ed energia, che debbono essere propri di un cittadino e di un capo del più nobile corpo del Comune, la trascuratezza di che la potrebbe gravemente compromettere. Per il Governatore, il Segretario Generale: C. Di Gironimo”.(16) “Le autorità del Distretto, invece di pronti soccorsi, mandavano uffici perdendo nello scrivere e nel discutere ciò che nei tumulti civili ha maggiore valore: il tempo. Saputosi intanto di quella andata e prevedendo che la presenza dei soldati avrebbe impedito il sollevamento, ad alcuni faziosi non parve di dover aspettare il 5 agosto.” |