Il Monastero di Santa Scolastica
La costruzione del piccolo monastero di Santa Scolastica ebbe inizio nel 1608, quando le autorità brontesi scrissero al Re chiedendo aiuti economici atti alla costruzione di un monastero che servisse "ad onore e culto di Dio e per comodità del popolo" (a destra in una rara foto di fine '800). Con gli aiuti della Regia Università di Palermo, che assicurava il mantenimento delle claustrali, l’opera fu iniziata nel 1610 ad opera del chierico Pietro Saitta che fece costruire a sue spese il primo piano e dell'Arcivescovo di Monreale che, pagandone le spese, fece costruire il secondo. Fu ultimata nel 1616, e lo stesso Arcivescovo ordinò a Suor Anna Vaccaro (o Vattiato) di trasferirsi a Bronte con le abbadesse. Le relazioni ad limina inviate a Roma dai vescovi di Monreale, diocesi alla quale Bronte è appartenuta fino al 1802, che si trovano nell’Archivio Vaticano a partire dalla fine del Cinquecento, ci danno notizie della costruzione del monastero fin dai primi anni del 1600. «Nel 1663 - ci da notizia Adolfo Longhitano che ha potuto consultare le relazioni - il vescovo Ludovico de los Cameros scrive che da circa quarant’anni si era iniziato a costruire un edificio destinato a diventare un monastero femminile. Il vescovo si apprestava a chiedere il nulla osta per la sua istituzione dopo aver verificato la funzionalità dell’edificio, ospitando per qualche tempo alcune ragazze orfane. Quattro anni dopo lo stesso vescovo scrive che il monastero era stato eretto e inaugurato. Nel 1734, badessa del "Ven. Monistero di S. Scolastica" era la Rev. D. Maria Rosa Luca ed il monastero ospitava 29 monache professe, 4 novizie, 3 educande e 3 converse. Nel 1738 le monache erano 25 e le converse 3; tre anni più tardi il numero delle monache era sceso a 20, quello delle converse era salito a 5». Nel 1814, sotto il governo dell'abbazia di suor Prudenzia Stancanelli, vivevano 45 suore, tra "corali" e "converse". Nel 1828 Abbadessa del Monistero era D.nna Francesca Casella; nel 1838 suor Maria Giuseppa Verso; nel 1842 era D. Maria Luca a dirigerlo e, come ci ricorda l'Archivio Nelson (vol. 316-D p. 205), aveva in gabella dalla Ducea e gestiva anche due mulini, dell'Arciprete e di Càntera Soprana. Il 24 novembre del 1865 rappresentava, invece, il Monastero D.nna Grazia Biuso che, presente dietro le grate del parlatorio, sottoscriveva con D. Guglielmo Thovez del fu D. Filippo una transazione che metteva fine ad una vertenza iniziata dai Nelson nel 1758 per canoni di gabelle non pagati (A.N., vol. 615-D). Fra le monache del tempo vissute nel Monastero, vanno ricordate suor Maria Concetta De Luca, nipote del Cardinale (figlia del fratello), che pare godesse di visioni, Maria Nazarena Fallico, Maria Rosaria Fallico, Maria Scolastica Petrina (malettese), Francesca Cannata, Angela Maria Giarrizzo, Maria Giuseppa Camuto e Maddalena Caruso Nascarussa. Il cappellano del monastero era uno dei tre visitatori voluti dal Venerabile sac. Ignazio Capizzi per eleggere il Rettore del Real Collegio.
La "Ruota dei projetti"
Una tradizione, viva ancora nei nostri anziani, ricorda come presso il Monastero, posto in una zona centrale di Bronte, esistesse la cosiddetta "Ruota dei projetti", istituita dall’Ospedale di Palermo nel lontano 1755 in ottemperanza ad un’ordinanza del Vicerè del 1750 che ordinava di impiantare in ogni Comune questo congegno onde evitare che i bambini venissero abbandonati nelle strade o nelle campagne e divorati spesso da cani o da altri animali randagi. La Ruota, usuale nei monasteri di clausura, era un armadio cilindrico, aperto solo su una parte della sua superficie e girevole intorno ad un asse verticale entro un vano comunicante con l’esterno e l’interno del monastero, in modo che l’apertura dell’armadio poteva corrispondere solo alternativamente con i due lati aperti del vano. Questo meccanismo girevole (un esempio nella foto a destra) consentiva alle monache di mantenere i contatti con l’esterno ma serviva anche a lasciare nel corso della notte i piccoli “rejetti” o “projetti” o “esposti” (figli, appena nati, abbandonati appunto dalle madri). L’operazione d’abbandono dentro la “ruota” era accompagnata dal suono di una campanella che avvisava la monaca addetta alla ruota che, udendo la campanella, si recava a ricevere il bambino e non vedeva chi dall’altra parte lo aveva lasciato. Era un modo di risolvere con sollecitudine e pietà, ma anche segretezza e riserbo massimi, il grave problema dell’abbandono dei minori, un fenomeno abbastanza diffuso nei secoli passati anche a Bronte, salvaguardando ad un tempo e la vita del neonato e l’onore della madre. Il fenomeno dell'abbandono era diffuso - come scrive il Radice - anche per «le libertà sessuali che i galantuomini si concedevano con le ragazze del popolo» con la conseguenza che «nel 1853 c'erano a Bronte (su circa 10.000 abitanti) 38 balie comunali, nutrici cioè dei bastardi di ruota». Per evitare omissioni e manchevolezze la legge prevedeva l'obbligo per i parroci di relazionare ogni anno sullo svolgimento del servizio. Provocò però anche il nascere di una curiosa frode: l'abbandono nella nostra Cittadina molto spesso era infatti apparente, fittizio, derivante dalla estrema miseria delle classi contadine e il deporre i propri figli nella Ruota subì ben presto una crescita tendenzialmente artificiale. Ricevute le prime attenzioni dalle monache, battezzati, i piccoli (incogniti o nati da parenti incogniti) venivano poi dati in consegna agli organi amministrativi che li affidavano alle nutrici (quasi sempre alle stesse madri) con una paga mensile che corrispondeva l'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo che consentiva alle famiglie di vivere un tantino meglio. Dal Bilancio dell'Università di Bronti del 1717 presentato al Tribunale del Real Patrimonio leggiamo che la spesa del Salario de Nudrici de' bastardelli, autorizzata dall'Ospedale, era stata quell'anno di 10 onze, circa 4500 euro (v. a destra, da Arch. Nelson, vol. 106, pag. 295). Naturalmente accanto a chi operava questo abbandono fittizio c’era anche chi era costretto a lasciare i figli alla sollecitudine pubblica. Onde evitare tali abusi l’Ente assistenziale ben presto prese provvedimenti ed interessò della questione anche lo Stato. Il 6 marzo del 1770 un diploma reale interviene sulla questione, ordinando di fare distinzione tra “projetti” e legittimi con una cordicella che doveva essere posta al collo dei primi come segno di riconoscimento. Il provvedimento però fu inefficace e non ebbe completa esecuzione ed il perdurare del fenomeno delle frodi costrinse a cercare altri rimedi. Bronte in quel periodo dipendeva da Monreale ed era feudo dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, che avendo un “Deposito dei Projetti” era particolarmente sensibile al problema. Il 15 aprile del 1785 l’arcivescovo di Monreale Ferdinando Sanseverino di Maralca, emanò un editto con il quale invitava i parroci a non riscuotere più la tassa sui certificati di morte. La procedura infatti prevedeva che le nutrici venissero scelte tra le donne che dimostrassero con un certificato di avere perso il loro bambino e che avessero perciò la possibilità di allattare abbondantemente, senza nulla togliere al bambino legittimo. Col tempo però il pagamento di questa tassa sui certificati di morte aveva scoraggiato molte madri a presentare regolare istanza di allattamento, sicché i funzionari dell’Ospedale erano stati costretti ad ignorare la legge e ad affidare i bambini esposti a qualunque madre ne avesse fatta informale richiesta. Era così continuata la frode e la prassi delle madri che abbandonavano in maniera fittizia i loro bambini, per andare poi a riprenderseli assieme alla paga riservata alle nutrici. L’Ospedale di Palermo aveva così interessato il Governo a prendere provvedimenti (vedi lettera del 26 febbraio 1785 del marchese Caracciolo della Real Segreteria del Governo del Regno di Sicilia); provvedimenti che il Sanseverino, arcivescovo di Monreale, prese ed emanò in data 15 Aprile con lettera indirizzata a tutti i «Reverendi Parochi, Arcipreti, e Curati delle due Diocesi di Palermo, e Morreale». Purtroppo non sappiamo quanto tutto questo incise nel complesso del fenomeno brontese: lo smarrimento del probabile Registro dei “Projetti” settecentesco e lo stato di disordine e degradazione degli atti originali non consentono di sciogliere la questione. |