U Tàramu
Le confraternite religiose, fra le loro finalità avevano, ed hanno ancora, quella di provvedere ai funerali dei confratelli e dei loro familiari a carico. Quindi ognuna di esse disponeva di un catafalco smontabile di legno, 'u Tàramu(2), dipinto con figure adeguate, che all'occorrenza si montava dinanzi all'altare maggiore per collocarvi la bara durante la funzione funebre. Il Concilio Vaticano II, fra le modifiche liturgiche, ha introdotto anche quella che abolisce i catafalchi, che simboleggiavano, fra l'altro, l'augurio che il defunto fosse assunto in Paradiso, e ha stabilito che la bara di qualsiasi defunto, nobile o plebeo, sia deposta sul pavimento, per significare uguaglianza e umiltà dinanzi al giudizio di Dio. Negli anni Trenta a Bronte i dirigenti della Confraternita Maria SS. della Misericordia e di S. Rocco, con sede alla Chiesa della «Batìa», presero l'iniziativa, contrastata per l'eventuale alto costo, di far progettare un catafalco che fosse un vero monumento ligneo di pregio per materiale, costruzione e sculture. Fatto eseguire da un architetto catanese il progetto con relativo modellino in scala e corrispondente preventivo, il tutto fu esposto nella sala delle riunioni della Confraternita e mostrato a tutti i falegnami del paese, affinché si proponessero per la realizzazione dell'opera, partecipando alla gara d'appalto. Vista la complessità dell'opera sia per materiale (legno di noce massello, scelto e stagionato), sia per tecnica costruttiva e per la necessità di reperire uno scultore in legno, tutti si tirarono indietro, dicendo all'unanimità: “Questo lavoro lo può eseguire solo mastro Nicola Lupo” (mio nonno). Il quale, stipulato il contratto e provveduto al necessario quantitativo del materiale pregiato, contattò per le sculture il maestro Ronsisvalle di Adrano, il quale decise di trasferirsi a Bronte almeno per il periodo necessario alla scultura dei diversi pannelli e figure. Questo scultore, una volta venuto a Bronte, per integrare il suo guadagno di intagliatore, ottenne di aprire in una delle aule del Collegio «Capizzi», che ospitavano la sezione staccata delle Scuole Elementari, una scuola privata di disegno dalla quale sono usciti diversi artisti, il più importante dei quali è il mio amico Nunzio Sciavarrello. Questi, sesto figlio di artigiani, che all'epoca era apprendista falegname, si iscrisse a quella scuola dove scoprì la sua vocazione e le sue attitudini artistiche, per cui, dopo i primi risultati, andò prima a Napoli, per seguire gli studi secondari artistici, e poi a Roma all'Accademia di Via Ripetta dove, ai tempi del Selvaggio, si formò nella scuola di Mino Maccari. Nel 1950 fu invitato ad esporre alcune sue incisioni alla Biennale di Venezia. In seguito, pur continuando con impegno la sua affermazione in ogni parte del mondo con dipinti e grafica, egli fece ritorno nella nostra Sicilia dove si occupò anche delle illustrazioni dedicate ai famosi pupi siciliani che altro non sono che i personaggi dei Paladini di Francia. A Catania lo Sciavarrello è stato apprezzato Direttore dell'Accademia di Belle Arti, dando, così, incremento e lustro anche alla scuola artistica siciliana. Il lavoro del tàramu durò parecchi mesi e, quando fu finito, fu esposto nella Chiesa della «Batìa» all'ammirazione del pubblico e degli eventuali utenti; infatti era intenzione della Confraternita di noleggiarlo ad altri, estranei alla Confraternita, per ammortizzarne più in fretta l'ingente spesa sostenuta. Ma l'esposizione consistette nel mostrare e spiegare la tecnica costruttiva e del relativo montaggio e smontaggio; infatti l'intero manufatto era costituito da elementi solamente incollati, quindi privi di qualsiasi supporto metallico, come chiodi, viti, perni, cerniere et similia, e tutti ad incastro perfetto da durare negli anni. Gli addetti ai lavori e gli intenditori prima ed il pubblico dopo rimasero ammirati dall'opera che faceva onore all'artigianato brontese e che, in seguito, avrebbe corrisposto alle aspettative per praticità e durata nel tempo. Il giorno della presentazione del tàramu al pubblico era domenica e, come di consueto, si pranzava dal nonno il quale in quella occasione ci confermò la consapevolezza delle sue capacità di artigiano, atto ad eseguire, e a perfetta regola d'arte, qualsiasi lavoro in legno, dicendoci, a mò di testamento spirituale: «Alla mia morte questa mano (e indicava la destra) la dovete tagliare e conservare esposta in una teca». Dimostrazione del suo smisurato orgoglio che sfiorava la superbia! Noi non abbiamo ottemperato, ovviamente, al suo desiderio testamentario, ma, anche in suo onore, raccomanderemmo alla Confraternita della Misericordia e ai Beni Culturali ed artistici la conservazione di quest'opera dell'artigianato brontese.
La Filodrammatica
Da Bronte attraverso foto e cartoline d'epoca edizione 1989 a cura dell'Associazione Pro loco di Bronte, p. 91, mi si presenta una vecchia e cara immagine: anno 1925, una scena del Quo vadis? rappresentato nel teatrino del Collegio Capizzi dalla locale Filodrammatica; scena particolarmente cara perché uno dei protagonisti, e precisamente il S. Pietro, prostrato ai piedi di Gesù, era mio padre. La filodrammatica a Bronte era nata nell'ambito del Collegio Capizzi nel cui teatrino operava e che era stata fondata da Padre Vincenzo Schilirò, professore e scrittore emerito, ed era formata nel suo nucleo fondamentale da quattro maestri elementari: Giulio Di Bella, Antonino Gaetano Lupo (detto Tano, mio padre), Alfio Reina e Francesco Sanfilippo. Occasionalmente partecipavano alle rappresentazioni collegiali o studenti esterni. Dal fondatore P. Vincenzo Schilirò, insegnante d'Italiano e Latino nel locale Liceo, scrittore di varia letteratura e critico letterario, è comparso un buon profilo a cura di Franco Cimbali in «Bronte Notizie» anno X, n. 39 ottobre 1991. Ma l'autore sorvola dichiaratamente sul fatto che lo Schilirò aveva aderito al Movimento modernista(3); ed ha fatto male, a mio avviso, tanto più che le istanze di quel movimento sono state recepite poi dal Concilio Vaticano II; perciò inviterei il Cimbali a riprendere l'argomento e, approfondendolo, portarlo a conoscenza dei giovani brontesi, perché conoscano i loro concittadini illustri in tutti i loro aspetti, anche quelli che potrebbero sembrare, ma non sono, da passare sotto silenzio. E ciò non dispiacerebbe certamente allo Schilirò sociologo, che ho avuto il piacere di conoscere, che era sì schivo, ma di una dirittura morale tale che non avrebbe tollerato che si nascondesse nulla di sé(4). Ritiratosi a vita privata di scrittore lo Schilirò proprio per la posizione assunta nei confronti dell'ortodossia della Chiesa, la vita della filodrammatica continuò sotto la direzione del capocomico Giulio Di Bella che era attore nato anche nella vita; infatti aveva una vis comica naturale che potrebbe avvicinarlo ad Angelo Musco, per restare nell'ambito dei comici siciliani più noti. Famoso il suo dialogo con l'altra faccia dell'asino, portato sul palcoscenico, che gli faceva da spalla muta, ma a volte sonora per l'uso di diversi strumenti. Don Giulio fu guida anche alla generazione successiva con i suoi ottimistici incoraggiamenti e con i suoi appropriati e utili consigli. Se negli anni Venti la filodrammatica era quella dei nostri padri, negli anni Trenta fu quella nostra, profondamente cambiata e modernizzata. L'artefice primo di quell'ammodernamento fu mio fratello Nino (figlioccio dello Schilirò). Egli, di ritorno da Venezia, ove aveva frequentato il primo anno di Economia e Commercio a Cà Foscari, nel 1936, volle riprendere l'attività di una filodrammatica rinnovata, ma sempre sotto la guida spirituale di don Giulio Di Bella, e propose l'introduzione di alcune novità: 1) la regia, termine e concetto nuovi per Bronte; 2) nuovo repertorio con la proposta di autori contemporanei; 3) la partecipazione delle donne, necessarie per l'interpretazione di nuove opere e nuovi ruoli;(5) 4) lo spostamento dal teatrino del «Capizzi», piccolo e sottoposto ad una censura preventiva dei lavori da eseguire, al teatro comunale, più grande, non interferente, ma costoso; 5) il ricorso alla pubblicità, nuova anch'essa per il nostro ambiente, al fine di coprire le spese per l'allestimento scenico. La nuova filodrammatica, quindi, nacque fra i giovani, ma con la piena approvazione e il viatico degli anziani i quali diedero tutta la loro collaborazione, specie morale, per la realizzazione dei programmi ipotizzati. Mio fratello, che a Venezia aveva visto e rivisto le interpretazioni che Memo Benassi eseguiva delle opere di Pirandello, propose la messa in scena di Così è, se vi pare di cui fu regista e protagonista, riuscendo a darne una versione che entusiasmò tutto il pubblico. Come secondo autore fu proposto Dario Nicodemi con La Maestrina, di cui fu protagonista la indimenticabile e compianta Ninetta Aidala, la quale interessò principalmente il pubblico femminile. Di quel lavoro fui comprimario anch'io, ma ricordo che la cosa che mi assillò per tutto il tempo delle prove e poi anche nel debutto fu la scena del bacio che avrei dovuto dare alla protagonista, ma che, per il moralismo dell'epoca, era impossibile; perciò mimarlo risultò goffo e poco convincente, con grave disappunto mio e di tutta la compagnia. Il costo del noleggio del teatro, che non poteva essere coperto dalla vendita dei biglietti (altra novità per i brontesi i quali al Capizzi andavano per invito) fu ripianato con i proventi della pubblicità che fu realizzata artigianalmente applicando dei cartelli al sipario. Il tutto fu accolto dal pubblico ovviamente con molti consensi, ma anche con critiche, avendo rotto il vecchio cliché di filodrammatica a circolo chiuso e solo per uomini che dovevano rappresentare opere teatrali senza interpreti femminili e riservate al teatrino e al pubblico del collegio. Questo nuovo clima di avanguardia durò, purtroppo, solo fino al primo marzo 1938, chiuso con un grande Veglione di Carnevale, all'uscita del quale apprendemmo la morte di Gabriele D'Annunzio, e con i primi venti di guerra. |