Da ventiquattro anni trascorro i mesi estivi a Selva di Fasano, in provincia di Brindisi, zona dei trulli, dopo le più importanti Alberobello (BA) e Martina Franca (TA), in una mia villetta che ho chiamato «Bronte» in onore del mio paese natale, in provincia di Catania, che ricorda fenomeni meteorologici, mitologia e storia del Risorgimento. In questo tranquillo ritiro ho conosciuto gente del luogo e delle città vicine con le quali si sono sviluppati rapporti di cordiale amicizia, il che conferma che con persone di diversa provenienza spesso si realizzano intese migliori di quelUno di questi amici è Tommaso Pignatelli, già docente di Italiano e Latino e poi Preside del Liceo Classico «Archita» di Taranto, il quale, imbevuto di cultura classica e non avendo altre preoccupazioni, ha ricreato il famoso personaggio del malato immaginario, mettendo a dura prova la mia pazienza, e, quindi, la nostra quasi quotidiana frequentazione. A tanto io ho cercato di reagire raccontandogli episodi della mia giovinezza e descrivendo personaggi, a volte minimi, incontrati sulla mia strada a Bronte e dintorni. Questo espediente ha avuto buon esito, perché ha distratto il mio amico dai suoi mali, a volte reali, ma sempre esasperati dal continuo analizzarli e parlarne, al punto da interessarlo tanto che mi ha istigato a metterli per iscritto. Io ho cercato di resistergli, ma, memore di altro collega di Roma, Filippo Parodi, architetto, che mi aveva spesso esortato a scrivere qualcosa, e del mio vecchio amico e collega di Bari, Silvio Cirillo, il quale in questo inverno mi ha garbatamente convinto a curare e annotare la sua versione poetica dell'Eneide di Virgilio, limitatamente al primo libro, e forse sotto sotto lusingato dalla proposta, mi sono arreso e ho cominciato a buttare giù due o tre paginette al giorno, che la sera facevo leggere all'amico Tommaso il quale, fatta la sua osservazione basilare circa la stringatezza della mia prosa, approvava il mio compitino dicendo di attenderne un altro per il giorno dopo. All'osservazione succitata, che mi è stata rivolta anche dal mio amico Silvio, ho sempre risposto che ciò rientra nel mio stile, non dello scrittore che non sono né penso di poter diventare, che è stato sempre scarno ed essenziale, con pochi aggettivi e senza barocchismi, e che non può essere rimpolpato dalla fantasia di cui difetto. Perciò spero che chiunque dovesse leggere queste mie pagine consideri che esse possono corrispondere al massimo a certi schizzi o bozzetti di quegli artisti-artigiani i quali, forse, non saprebbero eseguire un quadro o un affresco dalle tecniche complesse e dalle misure considerevoli. Con quanto detto sopra non voglio né giustificare la mia pochezza né scaricare tutta la responsabilità sul mio amico istigatore, ma sono pronto ad accollarmene una buona metà, dovuta alla mia subconscia o malcelata vanità. E di ciò chiedo venia. I brani, scritti in ordine sparso e secondo l'affiorare spontaneo del fantasma o la sua evocazione, oppure addirittura la sua esumazione, in giorni diversi e anche lontani fra loro, sono stati ordinati in seguito, per cui ne è venuta fuori, quasi in filigrana, una specie di autobiografia della mia età giovanile, fino alla laurea la quale rappresenta la doppia porta che da un lato chiude l'epoca della spensierata formazione e dall'altra apre quella delle tormentate responsabilità. Detto come sono nati i miei fantasmi, resta ora da dire come hanno avuto la ventura di essere pubblicati: nel maggio del '92 i ladri hanno creduto opportuno di fare una visitina nel mio appartamento di Roma, senza peraltro avere la fortuna di trovare nulla di quanto cercavano. Io, però, ho dovuto andare per vedere cosa avevano combinato, per fare riparare la porta e per denunziare il fatto sia alla Polizia che alla mia Assicurazione (ve le raccomando entrambe!). Tornando a Bari in treno, trovo davanti a me un giovane il quale, contrariamente a quanto accade oggi che tutti sono assorti nelle loro letture, oppure dormono o se ne stanno a guardare il panorama sfuggente, persi in forse inutili pensieri, e nessuno parla con nessun'altro (alla faccia della comunicazione!), si mette a parlare con me e mi racconta da dove viene, dove va e cosa fa: ha un giornale di cui è editore, condirettore e redattore capo, che si chiama «Portagrande», rivista popolare di Castellana-Grotte, dove, però, si pubblica un'altra rivista più seria e più curata, diretta da Pietro Piepoli. Raccontandomi puntigliosamente tutte queste cose di sé, dei suoi amici e concorrenti e della sua cittadina con tutti i problemi connessi, debitamente incoraggiato da me che mi sono interessato al suo racconto, non ci siamo accorti del viaggio e, arrivati a Bari, ci siamo scambiati gli indirizzi, con la promessa da parte sua di mandarmi alcuni numeri delle due riviste di Castellana. Il tempo passò e io nell'agosto successivo, come detto precedentemente, trovai chi mi ha istigato a scrivere i miei fantasmi che, pensavo, dovessero servire solo per me e per qualche amico. Ma tornato a Bari dopo le solite lunghe vacanze silvane, ricevetti un plico con due numeri di «Portagrande» e un numero de «La Forbice» con una garbata letterina di accompagnamento. Io, in segno di ringraziamento per il gentile pensiero mantenuto, risposi che, se credeva opportuno, potevo inviargli un mio raccontino da pubblicare nell'inserto di narrativa della sua rivista. Egli gradì l'offerta e io gli mandai il fantasma di Nino Larosa e una breve, ma puntuale recensione sia dei due numeri di «Portagrande» che di quello de «La Forbice»; così ho trovato un editore in Vito Mastrosimini e un amico in Pietro Piepoli il quale, a sua volta, ha espresso un lusinghiero giudizio sui miei fantasmi. A detta del mio giovane amico editore i suoi concittadini hanno gradito i miei fantasmi che li portavano un po' fuori da Castellana e perciò hanno voluto sapere qualcosa di me e della mia Bronte. l'Autore |