Filippo Spitaleri detto Scagghjtta
Perché all'età di otto anni, nel lontanissimo 1927, scelsi come padrino di cresima Filippo Spitaleri, detto Scagghjtta? Forse perché, fra gli amici di mio padre, era il più simpatico, anche se bruttarello; forse perché era quello che era sempre allegro e sempre pronto a cogliere, di qualsiasi situazione, il lato comico o che si prestasse a una battuta o a uno scherzo, a volte anche pesante. Me' parrinu all'epoca era commerciante di tessuti e, dopo, quando a Bronte fu portata la corrente elettrica, mise su una impresa di impianti elettrici con relativo negozio del materiale occorrente, che credo esista tutt'ora, gestito da una delle figlie. Ma io non intendo parlare della sua vita e delle sue attività, del suo carattere particolare che oggi lo accosterebbe moltissimo a quei personaggi e attori che tutti abbiamo ammirato nella serie di film Amici miei. Infatti, avendo egli il negozio sulla via principale, era sempre a contatto con tutto quello che avveniva in paese e interveniva con le sue battute o i suoi scherzi in tutte le vicende e con i più svariati personaggi. Oggetto delle sue sceneggiate e dei suoi lazzi erano per lo più le persone del luogo che erano note per le loro debolezze o la loro dabbenaggine, come il facchino Graziano. A questi una volta, stando egli al caffè con molti amici, si rivolse chiedendogli se avesse con sé la corda (attrezzo che il Graziano portava spesso appeso alla cintura dei pantaloni per eventuali trasporti a spalla) e, sentendo che la risposta era negativa, lo pregò di andare subito a casa a prenderla, perché doveva ritirare della merce da portare a certi amici. Il Graziano si avviò di buon grado verso casa sua per prendere il richiesto necessario attrezzo e, tornato poco dopo al caffè dove lo attendeva ‘u Scagghjtta con tutta la combriccola dei suoi amici, gli chiese che cosa doveva fare. A questo punto don Filippo con la massima serietà disse al Graziano: «Vai alla stazione e ritira 'u fasciunèllu 'i mìnchie(1) che è arrivato fresco fresco da Catania e portalo con ogni cura alla pescheria per la distribuzione gratuita alle donne bisognose». Il Graziano, che era un poco tardivo, rimase per un attimo interdetto e perplesso, ma poi, visto che tutti i presenti stavano scoppiando in una rumorosa risata, o meglio sghignazzata, arrossendo e, non essendo capace di reagire adeguatamente, si allontanò sacramentando come un turco. (Si dice sempre così, non si sa perché, attribuendo ogni esagerazione ai poveri turchi!) Una volta, in occasione di una festa, di quelle che vedevano riunite le famiglie dei nonni e dei figli con tutti i nipotini intorno alla tavola, il compare Scagghjta con un altro amico-parente organizzò e portò a termine uno scherzo amaro anche nei confronti della mia famiglia. Eravamo pronti per andare a tavola noi con nonni e zii per un totale di dodici persone, quando arrivò, anonimo, un enorme vassoio di cannoli, specialità delle nostre parti, al quale facemmo grandi feste noi ragazzi che eravamo tre, in un clima di diffidenza dei grandi che subodorarono un qualche scherzo. Quasi alla fine del pranzo, quando stavamo mangiando la frutta che una volta in Sicilia si mangiava prima del dolce, bussarono al portone e, con nostro grande piacere, vedemmo che erano gli amici Spitaleri e Isola, che i nostri genitori fecero accomodare a tavola invitandoli a mangiare con noi la frutta; ma capirono che essi erano gli anonimi donatori dei cannoli di cui non fecero parola. Però noi ragazzi, ignari di inganni di quel tipo e desiderosi di quei dolci veramente particolari e che si mangiavano di rado, cominciammo a chiedere a gran voce i cannoli, al che i nostri genitori non poterono più far finta di niente e misero a tavola il sospetto vassoio. Noi ragazzi pretendevamo di essere serviti per primi, i nostri ospiti si rifiutarono garbatamente, ma decisamente, di accettare, mentre i nonni si offrirono, mute cavie, di assaggiare per primi i dubbi e misteriosi cannoli; e, quando con un cenno degli occhi, fecero capire a nostra madre che erano buoni, finalmente noi potemmo avere le sospirate leccornie. Ma al primo boccone, tutti e tre all'unisono, cominciammo a gridare sputando, non badando più alle buone maniere, quanto avevamo messo in bocca e in parte ingoiato. Naturalmente tutta l'assemblea familiare si divise: le donne cercavano di capire perché gridavamo e sputavamo quanto prima avevamo desiderato così intensamente; gli uomini, che ormai avevano le prove di quanto avevano intuito già prima, non volevano dare la soddisfazione agli interessati dello scherzo riuscito, mentre questi ultimi ridacchiavano sornioni, senza tuttavia ammettere di esserne gli autori. Tutto finì allora in una gran risata di tutti, tranne qualcuno di noi ragazzi che, non riuscendo a togliersi completamente di bocca l'amaro e il disgusto dell'aloe, medicinale di cui si temevano anche gli effetti principali e successivi, non aveva gradito lo scherzo e sperava che nostro padre fosse pronto a ricambiare pan per focaccia. In quella occasione Filippo Scagghjtta si dimostrò, più che il solito mattacchione, un vero guastafeste, specialmente agli occhi di noi ragazzi che in tutte le altre occasioni avevamo riso delle sue burlesche trovate, ma non quella volta che ne eravamo state le vittime. Altro personaggio preso di mira dal nostro piccolo re dei burloni era l'orologiaio Giovanni Greco, forestiero di origine, ma trapiantato a Bronte; forse anche per questo, oltre che per carattere, ombroso e irascibile e poco disposto a subire scherzi. Di lui un giorno, e in sua presenza, nel solito caffè, zio Filippo raccontò una storiella che giurava vera, mentre il mal capitato denunziava falsa e calunniosa. Ecco la storia e le sue conseguenze: «L'altra mattina alla vetrina dietro la quale don Giovanni ha sistemato il suo tavolo-laboratorio per potere sfruttare a pieno la luce del giorno per il suo lavoro, bussa un ragazzo, e all'orologiaio che alza la testa togliendosi il monocolo che usa per vedere ingranditi gli ingranaggi degli orologi, fa cenno di voler sapere l'ora; don Giovanni, un po' seccato per il disturbo, risponde: "sono le dieci e mezzo", e sta per rimettersi lo speciale monocolo e riprendere il lavoro interrotto suo malgrado, quando il ragazzo ad alta voce gli grida: "Don Giuvà, a menzu jonnu ci' a veni e suca a me' patri?" e scappa via. Don Giovanni, che era già contrariato per l'interruzione, e dato il suo carattere irascibile e intollerante, divenuto paonazzo, si alza di botto, esce dal negozio-laboratorio e si mette a correre come un dannato dietro al ragazzo che è ancora in vista sulla via principale. A questo punto - continua il narratore nel silenzio assoluto del suo uditorio e guardando negli occhi l'oggetto della sua satira il quale diventa di mille colori - Giovanni s'imbatte in me che lo blocco per chiedergli la ragione di quella sua scalmanata corsa; lui, ansimante, mi racconta il fatto ripetendomi la scurrile frase del ragazzo; al che, cercando di infondergli calma, gli consiglio: "Ma Giovanni, c'è ancora tanto tempo, puoi andarci con comodo a fare quanto richiestoti dal ragazzo!"». Sonorissime sono le risate di tutti i presenti tranne che dell'orologiaio il quale, cercando inutilmente di smentire tutta la fandonia inventata dal nostro burlone, si allontana incazzatissimo come e più del solito, quando pensava di avere subito uno sgarbo o una offesa. Ultimo scherzo che mi sovviene, condotto con misurata furbizia da me' parrinu Filippo fu quello fatto a un rappresentante di commercio che lo aveva visitato e che aveva ottenuto da lui un buon ordine, per cui gli si sentiva particolarmente obbligato almeno per quel giorno. Approfittando di questa favorevole circostanza, don Filippo disse al rappresentante che avrebbe voluto chiedergli un favore particolare, che quello dichiarò subito di essere dispostissimo a fargli. Ma lo Spitaleri la tirò così per le lunghe fino a sera inoltrata che quel povero malcapitato si pentì in cuor suo di avergli fatto la promessa di essere a sua completa disposizione. Alla fine, quando questi disse allo Scagghjtta che non poteva attendere più a lungo per rientrare a Catania, dove era atteso dalla famiglia per la cena, il nostro, come se gli chiedesse chissà che cosa, gli disse: «Lei mi deve fare il grande favore, appena arriva a Catania, di andare in Piazza Duomo e dare ‘na straviatìna 'e balli 'ru liòtru»(2). Il povero rappresentante restò di sale e chissà cosa avrebbe voluto fare al suo buon cliente, ma per non perderlo e per non dare altro piacere ai presenti che naturalmente se la ridevano, fece buon viso a cattivo gioco e, fingendo di avere apprezzato di buon grado lo scherzo, con amara ironia e rendendogli pan per focaccia, gli rispose che senz'altro avrebbe portato i suoi saluti all'elefante della sua città, assicurandolo che il mandante presto sarebbe venuto a trovarlo di persona a compiere la devozione. Don Antuninellu 'u Spiziali
Tutti noi siamo frequentatori più o meno spontanei delle farmacie che sono diventate dei veri e propri bazar: infatti vi si vendono le cose più varie: dalle scarpe ai profumi, alle creme, oltre che ai medicinali veri e propri. I farmacisti, quindi, si sono trasformati in commercianti protetti e hanno perduto la caratteristica professionale perché non solo non confezionano più medicinali, ma addirittura non conoscono, quasi, quelli che vendono e che sono tutti prodotti industriali molte volte simili, ma con nomi e prezzi diversi. Queste mie succinte considerazioni mi portano alle vecchie farmacie degli anni Venti-Trenta con i loro scaffali pieni di bocce di ceramica o di vetro, di dimensioni e fogge varie, con su scritte in latino o in volgare le denominazioni scientifiche dei vari prodotti, e ai vecchi farmacisti, veri e propri alchimisti della scienza medica, intenti a preparare infusi, pomate, cartine, pillole e quant'altro il medico, o spesso lui stesso, consigliava ai suoi pazienti-clienti per gli acciacchi più diversi e ricorrenti. In modo particolare mi torna in mente il nostro farmacista, e dico nostro perché era il farmacista di tutta la nostra larga famiglia composta da nonni, figli e numerosissimi nipoti: don Antuninellu Aidala, ma che tutti noi chiamavamo solamente 'u Spiziali, anzi 'u Spiziarellu: il che dimostra che fin d'allora in un piccolo centro agricolo della Sicilia, che era un'isola linguistica (basti pensare che si diceva illa est che è perfetto latino non ancora contaminato dal volgare) si usava alterare i sostantivi, facendo diminutivi-vezzeggiativi, come dutturellu, professurellu e così via, mentre oggi si arriva a fare i superlativi dei sostantivi, come per esempio governissimo, il che dimostra che, non sapendo fare un buon governo, i politici vogliono sbalordire i cittadini con queste aberrazioni grammaticali. Egli era una persona di età indecifrabile, almeno per noi allora ragazzi o giovani, ma amabile nei tratti e sempre disponibile ai consigli, anche in presenza del medico il quale spesso si intratteneva nella sua farmacia ed era il dottore Zappia. I pazienti-clienti di allora si rivolgevano preferibilmente al farmacista, perché i suoi consigli erano gratuiti, mentre quelli del medico erano a pagamento e vi si ricorreva come ultima ratio, quando le medicine del farmacista non avevano sortito l'effetto sperato e promesso. |