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Nicola Lupo

Fantasmi - Storiette paesane

422 FOTO DI BRONTE, insieme

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‘A mammina

Ai miei tempi, specie nei paesi come Bronte, le spose partorivano in casa, sotto la premurosa assistenza della mamma, l'indagatrice sorveglianza della suocera, che curava gli interessi del figlio-sposo, l'indaffarata parteci­pazione di parenti e servitù (tutte femmine, assenti assoluti gli uomini, anche i più intimi e interessati, che aspet­tavano il lieto evento al caffè con gli amici o fra loro in casa dei genitori dello sposo) e la «regìa» e assistenza «tecnica» della mammina, la ostetrica o levatrice. La quale il più delle volte era la stessa che aveva assistito la mamma o anche la nonna; insomma la professio­nista di fiducia nel campo femminile, come il barbiere lo era nel campo maschile ed esterno.

La zia Angelina Cutrona, mammina di casa mia, mi aiutò a venire al mondo il 2 febbraio 1919, sotto il segno dell'Acqua­rio che, secondo gli studi più aggiornati di astrologia «raggiunge esattamente il contrario di quello che desidera, è sempre frainteso e perciò riceve pan per focaccia, e non ne azzecca mai una».

A tal proposito 'Ntoni u Capillaru, mago di Bronte, che se ne intendeva, una volta a questo Acquario disse: «Non tentare neppure di spararti, perché a pistola scascia (farebbe cilecca)!»

Angelina Cutrona, che tutti i ragazzi venuti al mondo con il suo aiuto chiamavano «zia», era allora una giovane vedova della grande guerra '15-18 e aveva anche lei un bambino di pochi anni che si chiamava Peppino.

Era una donna ancora giovane e prosperosa, dal viso aperto e sorridente, ma velato dalla tristezza di una pre­matura e ingiusta vedovanza; e veniva incontrata spesso per le vie del paese, in giro per le case delle sue puer­pere, con la sua caratteristica e inseparabile borsa al braccio e il suo Peppino, spesso, all'altra mano, mentre lo accompagnava dalla zia Filippa, sua cognata.

E sì, anche 'a z'a Firippa, responsabile comunale delle «massaie rurali», era un personaggio tipico della mia giovinezza anni Trenta e seguenti, specialmente quando organizzava le gite delle sue iscritte; perché noi giovani la aiutavamo volentieri a far salire le massaie sul camion (allora non c'erano i bus con le poltrone, l'aria condizionata, il bagno e la televisione), perché così avevamo l'opportunità di palpare il sedere delle più giovani e belle, senza rischiare di ricevere qualche manrovescio.

Peppino fin da piccolo fu amico di mio fratello Nino e, poiché si assomigliavano per il carattere estroverso, fantasioso e burlone, ne combinavano di tutti i colori non solo nei confronti degli altri amici e compagni, ma anche l'uno nei riguardi dell'altro.

E rimasta negli annali delle beffe, per esempio, quella che mio fratello realizzò proprio ai danni dell'amico Peppino, quando, una sera, arrivati assieme ad altri compagni al bivio per 'a scinduta ru passu poccu, strada che egli doveva imboccare per rincasare, mio fratello, tendendogli la mano per salutarlo, riuscì a fargli stringere «l'altra cosa». Perplessità momentanea di Peppino, grandi risate degli amici, di fronte ai quali poco prima aveva detto che non avrebbe mai subito uno scherzo da parte di mio fratello, poi violenta reazione con inutile inseguimento, per la maggiore velocità di mio fratello.

Il 4 novembre, giorno della Vittoria, a Bronte, come in tutto il resto dell'Italia, si faceva una manifestazione che, per noi ragazzi, aveva due protagonisti: Cosimo Zingale e Peppino Cutrona.

Il primo era l'unico Ardito brontese; il quale a ogni manifestazione patriottica indossava la sua divisa di Ardito e, con il pugnale fra i denti, scendeva dalla sua casa fino alla Piazza Spedalieri, dove di solito si effettuava l'adunata e dove, dopo la sfilata di prammatica per la via principale, si concludeva la manifestazione. Don Cosimo, che aveva barba e baffi da Ardito, illuminati da uno sguardo che sembrava preso da uno dei diavoli dante­schi, abitava alla fine dell'abitato verso Maletto, in una casa che avrebbe dovuto essere la stazione di quel tronco della Circumetnea che, dipartendosi da Bronte, doveva raggiungere Cesarò e Troina in provincia di Messina.

Ma quell'opera il Regime non la portò mai avanti: rimase quella costruzione, che noi chiamavamo il casello, per la gioia e la fortuna di Cosimo, l'Ardito, che la ebbe come abitazione in aggiunta allo stipendio di custode di quel tronco di ferrovia che consi­steva in alcune centinaia di metri di tracciato, una breve galleria che bucava la collina argillosa di Salice (a propo­sito lì c'era e doveva essere ingrandito un cementificio, che poi invece fu chiuso) e i binari di servizio con alcuni carrelli decoville, con i quali giocammo fino a quando essi non diventarono vecchi e arruginiti e noi giovani con luccicanti ideali.

Nel secondo momento della manifestazione, in chiusura, davanti al monumento ai Caduti, si udiva la voce stentorea di Peppino che gridava: «Seicentomila morti!» seguito da un corale «Presenti!» Fino a quando non abbiamo conosciuto la storia di Peppino, orfano di guerra, pensavamo che quella sua prerogativa di ricordare i caduti fosse l'effetto del suo caratteriale esibizionismo; ma quando fummo consapevoli della realtà, capimmo che il suo era il grido di un giovane che sente la mancanza del padre e cerca e trova solidarietà in quel «Presenti!», gridato da tutti i suoi concittadini e compagni.

La zia Angelina, pur avendo deciso di non risposarsi, riuscì ad allevare bene il suo Peppino, il quale studiò e divenne mae­stro elementare, forse felice di poter parlare ai suoi alunni della prima guerra mondiale in cui era caduto, da eroe, suo padre.


L'uovo

Chi degli ultra settantenni si ricorda la propria maestra d'asilo? lo sì. Si chiamava Meli e per tante generazioni di marmoc­chi, nonché per i rispettivi genitori, era sempre la signorina Meli, perché era nubile e allora non si usava dare del signora a tutte le donne superiori a una certa età, ma tuttavia era una mamma a tutti gli effetti, perché era dolce, comprensiva e paziente tanto da non perdere mai la sua calma e il suo sorriso.

Anche quando siamo diventati adulti e laureati, incontrandoci, ci accoglieva con la stessa benevolenza di quando erava­mo bimbi.

L'asilo aveva la sua sede nello stesso stabile in cui c'era la scuola elementare e cioè a batìa, e occupava un paio di aule a piano terra, le più vicine al vecchio orto in cui si faceva ricreazione in ore diverse da quelle riservate ai ragazzi più grandi.

Le aule erano povere di arredi, ma ricche di sole e di allegria e la signorina Meli aveva una collaboratrice molto più giovane che si chiamava Maria Arcidiacono e che noi chiamavamo maestra. Questa era una bella giovane formosa, dalla carnagione bianca e con una leggera peluria nera sul labbro superiore, il che confermava il detto popolare donna baffuta è sempre piaciuta.
Oggi si direbbe che la nostra giovane maestra d'asilo in seconda, per usare un termine militare, era una ragazza sexy, ma tanto sexy da fare innamorare perfino un giovane seminarista il quale, cotto d'amore, getta la tonaca alle ortiche, come si diceva una volta per chi abbandonava la carriera ecclesiastica, va a Milano dove frequenta la facoltà di Lettere all'Uni­versità cattolica del Sacro Cuore e, conseguita la laurea, torna a Bronte ottiene la cattedra di Latino e Greco al Liceo «Capizzi» e sposa la bella Maria. La quale deve lasciare i marmocchi dell'asilo per averne e allevarne di suoi.

Il giovane seminarista, poi laureato in Lettere e sposo della mia giovane maestra d'asilo, si chiamava Graziano Calanna e fu anche mio professore nelle tre classi del liceo; dopo passò alle scuole statali e fu anche Preside, ma morì piuttosto giovane.

Fra le mie compagne d'infanzia c'era una bimba di un paio di anni più giovane di me, una brunetta graziosa e vivace fin da piccola, ma da tutti i compagni d'asilo invidiata per un particolare che mi è rimasto impresso fino ad oggi.

Giulia, questo era il suo nome, era figlia unica di genitori che lavoravano entrambi, cosa rara per quei tempi e special­mente in un paese di provincia, e come tale non solo coccolata oltre misura, ma anche accudita da una persona di servizio, che oggi si chiamerebbe baby-sitter, la quale all'ora della colazione arrivava puntuale e le portava la sua colazione che era l'invidia di tutti noialtri, perché consisteva in un uovo alla coque ancora caldo e un frutto.

Mentre tutti gli altri sbocconcellavamo distrattamente la nostra colazione che consisteva in pane e per compa­na­tico (ma chi conosce più questo vocabolo?) olive o formaggio, perché all'epoca non esisteva ancora nessun tipo di merendina industriale debitamente reclamizzata, e della frutta secca come fichi o uva, Giulia veniva imboccata con un cucchiaino del suo uovo, cosa che in tutti noi produceva un'abbondante acquolina in bocca la quale ci para­lizzava finché quell'uovo non finiva e la servetta non era scomparsa dalla nostra vista, portando via con sé il nostro desiderio insoddisfatto.

Giulia crebbe, parallelamente a noi, bella e desiderabile, frequentando tutte le scuole fino al liceo, (era compagna di mio fratello Ugo) durante il quale, negli anni 1937-38, fece parte di un gruppo di quattro o cinque coppie, dedite al primo amore e al ballo, maestra e pronuba la maggiore delle tre sorelle Aidala, in casa di Tina.

Ciao, Giulia, dovunque tu sia! Ti auguro che possa avere anche tu qualche fantasma che ti riporti ai nostri lieti e illusi anni della gioventù che, purtroppo, presto avrebbe avuto il doloroso impatto con le delusioni provocate dalla vita, ma specialmente dalla guerra, per di più perduta.


‘A batìa

A Bronte ancora negli anni 1925-29 c'era, annesso all'esistente chiesa di Maria SS. della Misericordia e di San Rocco, il vecchio convento di S. Scolastica, distrutto poi per far posto all'attuale edificio scolastico.

Esso nella sua modestia e semplicità riproduceva architettonicamente i più celebri conventi e abbazie: infatti, oltre l'ingresso ai cui lati si aprivano stanze di attesa e uffici, c'era un chiostro quadrangolare, con tradizio­nale e funzionale pozzo centrale, fiancheggiato da portici sui quali si aprivano celle e stanze varie.

Ai tempi in cui frequentavo le scuole elementari esso era adibito proprio a edificio scolastico, con sezione staccata presso il Collegio Capizzi, e aveva lungo la via laterale destra un orto che serviva per la nostra ricreazione.

Sul portone di quella vecchia scuola vedo ancora il vecchio e autoritario direttore didattico Talamo, inflessibile con­trollore dell'orario di entrata: alle 8,30 usciva dal suo ufficio, ubicato sulla destra, si piazzava sulla soglia d'ingresso e con il braccio e l'indice tesi, senza parlare, rimandava indietro i ritardatari, senza voler ascoltare giustificazioni.
Benedetto direttore Talamo! che ci hai insegnato la puntualità nel compimento dei nostri doveri, ora ignorati o misconosciuti sia l'una che gli altri!

Un personaggio più umano e vicino ai ragazzi era, invece, mastro Nicola Baiocco, il custode; vecchio reduce della guerra d'Africa che lo aveva privato di un braccio, ma che gli aveva fruttato il posto comunale di custode dell'edificio scolastico con diritto all'abitazione ubicata sul lato sinistro e dove viveva con la moglie e i figli i quali erano nostri compagni di scuola e che poi si sono dispersi per l'Italia come tanti di noi.

Nelle prime tre classi ebbi come insegnante il maestro Ficarra, simpatica figura di uomo del Sud, sempre vestito di nero con camicia bianca sempre di bucato, che si sporcava più con l'immancabile sciarpa nera che con l'uso. Egli era sposato ad una maestra più anziana di lui, ma non avevano figli, perciò era particolar­mente affezionato a noi e ci parlava sempre di un suo nipote che era in Aeronautica a Roma.

Alfio Ficarra era un bravo maestro, ma aveva poca pazienza con i più lenti o i più svogliati ai quali spesso ripeteva, battendo la mano sul portafogli: «Io il mio stipendio me lo sono guadagnato; peggio per voi, se non volete studiare!».

Un suo piccolo debole era quello di succhiare sempre le famose pasticche del re Sole che si vendevano esclusivamente in farmacia dove, quando ne era privo, mandava me, che ero figlio di un collega, e che gratificava con una pasticca, oggetto dell'invidia di tutta la scolaresca.

Nella quarta e quinta classe ebbi come maestro Padre Mariano Mauro, prete rubicondo e sornione, che ap­pe­na veni­va a conoscenza di un funerale in vista, gongolante, sussur­rava al primo collega prete che incon­trava: «oggi coniglio!».

 

Piazza Spedalieri, 'a Batìa e l'adiacente Mona­stero di Santa Sco­la­sti­ca in alcune foto dei primi del '900 e, sotto, l'at­tuale edi­ficio scola­stico co­strui­to abbattendo parte del Monastero negli anni '30


VEDUTA DELLA NUOVA PIAZZA SPEDALIERI
Piazza N. Spedalieri, oggi
 

Infatti a quell'epoca tutto il clero del paese precedeva il feretro salmo­diando, e per questa prestazione religiosa riceve­va un compenso che permetteva a ciascun componente una spesa extra, per lo più in campo culinario.

Il suo metodo d'insegnamento era particolarmente stimolante: infatti chi leggeva meglio aveva diritto a sedersi a capo di quei lunghi banchi a cinque posti, tanto scomodi, e chi dei più bravi finiva per primo il compito di aritmetica aveva il permesso di lan­ciare il suo quaderno sulla cattedra per poter battere, sul filo di lana, i compagni. Dei quali i più cari a me, a quell'epoca felice, erano: il sempre ricordato e compianto Gino Meli, morto nel '43 per il male che general­mente colpiva gli indigenti, ma che allora infierì proprio su di lui che era il più agiato della nostra comitiva, ed era sulla strada di diven­tare un serio e brillante medico; e Bia­gio Botta il quale, dopo essersi trasfe­rito a Catania ed essersi lau­reato anche lui in medicina, è andato a eser­citare la professione prima a Maniace e poi a Bronte, dove spero viva tranquillo la sua terza età.

Padre Mariano Mauro con una sua classe (1941)

1941: Padre Mariano Mauro con una sua classe. Era anche la classe del prof. Luigi Minio (penultimo in alto a de­stra) e una sua ricerca ci consente di identificare quasi tutti i 33 alunni. I 12 in alto sono: (?), Lon­ghi­tano Salvato­re di Gius., Crespi Giuseppe, Calì Giuseppe, Longhitano Placido, (?), Mancuso Giuseppe, Mineo Luigi, Gorgone Wal­ter, Travaglian­te Graziano, Minio Luigi, Ficarra Angelo. I 13, al centro da sinistra: Longhitano Salvatore di Salv., Zerbini Mario, Minio Giuseppe, Catania Francesco, Isola Giuseppe, (?), Meli Guido, Faranda Gennaro, De Luca Do­menico, Camuto Giusep­pe, Chines Michele, Calì Nunzio, Zerbo Giu­seppe. Gli 8, in basso da sinistra sono: (?), Attinà Nicolò, Tirendi Vincenzo, Petralia Giuseppe, Proto Gio­vanni, padre Mariano Mauro, Mayra Stefano, Maggio Anto­nino, Azzarello Salvatore.

Dal Giornale di Classe dell'anno scolastico 1940/41, dell'«Insegnante ordinario Sac. Mauro Mariano di Giu­sep­pe nato a Bronte il 31 gennaio 1876 diplomato a Napoli», risultavano iscritti alla V Classe 44 alunni, di cui 2 ripetenti; la prima lezione si fece il giorno 17 ottobre 1940 e l'ultima il 15 maggio 1941.


Vedi pure:  Il corpo insegnante del 1935  /  La IV Classe Elementare del Maestro Alfio Reina (1947/48)

'A batìa, il mio primo vecchio edificio sco­lastico, mi ricorda ancora, oltre a maestri e compagni, l'elezione (se non ricordo male) del 1927 in cui alla fine, sull'antistante Piazza intitolata a Nicola Spedalieri, (nostra gloria filosofica del Settecento, autore dei Diritti del­l'uo­mo, che ha una statua in Piazza Cesari­ni Sforza a Roma) che è domi­nata dal monumento ai Caduti della prima guerra mondiale, furono bruciate le schede degli oppositori che avevano votato NO alla lista fascista e fra i quali c'era cer­tamente mio padre.

Di lui ricordo, e ne provo sempre un gran­de e commosso piacere per la com­prensione postuma, la direzione in classe del coro del Nabucco, eseguito dalla scolaresca mista, all'epoca dell'uc­cisione di Giacomo Matteotti. Cari e nostalgici ricordi che accompa­gnate la mia vecchiaia, vissuta lontano dalla terra dei miei avi!


Il triciclo

L'unico triciclo della mia fanciullezza l'aveva il mio compagno di scuola e amico Gino Meli con il quale frequentai le scuole elementari e, dopo il ginnasio inferiore da me frequentato presso i Salesiani di Pedara (CT), il Ginnasio Superiore e il Liceo Classico presso il Real Collegio Capizzi di Bronte.

Dopo le lezioni io andavo a trovare il mio amico Gino a casa sua senza correre nessun pericolo, perché allora nel nostro paese (grosso centro agricolo alle falde dell'Etna) i soli pericoli erano costituiti dagli animali da soma (asini e muli) nelle ore di punta e cioè quando al mattino uscivano dal paese per andare in campagna o quando ne ritornavano all'imbru­nire.

Quando arrivavo a casa sua, dove la madre mi accoglieva sempre molto affettuo­sa­mente, o facevamo i compiti e poi giocavamo, o, se il tempo era bello, uscivamo con il suo triciclo per andare al centro dove, nella Piazza del Rosario, il padre, don Peppino, aveva il suo ufficio di commerciante di mandorle, pistacchi e formaggi con annessi magazzini.

Lì giocavamo tranquilli sotto gli sguardi vigili del padre e dei suoi quattro fratelli i quali spesso nel pomeriggio si intrat­tenevano presso di lui e il più delle volte fuori davanti all'ufficio, da dove potevano osservare tutti i pas­santi e fame i commenti. Come si potesse giocare con un solo triciclo soltanto i ragazzini potevano esco­gitarlo e realizzarlo: fatto sta che facevamo gare, acrobazie e, qualche volta, anche incidenti, perché spesso scom­met­tevamo su chi fosse capace di scendere dalla gradinata della chiesa o dallo scivolo del Collegio di Maria (Ausi­liatrice) che si trova in una delle strade che fiancheggiano la chiesa del Rosario.

Quando in qualcuno di questi incidenti ci facevamo male, si ricorreva alle cure della vicina farmacia Aidala dove il pre­muroso don Antuninellu ci medicava e ci rassicurava sulla banalità del graffio che ci eravamo procurati, a differenza di oggi che, se ti rivolgi per una minima medicatura a un farmacista, ti consiglia subito di andare al pronto soccorso!

Spesso sulla piazzetta dove giocavamo incontravamo un altro nostro compagno di scuola e amico: Biagio Botta, i cui genitori avevano lì di fronte il loro negozio di tessuti. Insieme ricostituivamo nel gioco il trio che formavamo a scuola, dove facevamo a gara, ma senza acredine invidiosa, a chi faceva meglio e più in fretta i compiti, tanto che i vecchi maestri Ficarra e poi Mauro ci autorizzavano a gettare sulla cattedra i nostri quaderni per potere stabilire chi aveva finito prima; il quale, poi, se aveva fatto bene, otteneva in premio di sedersi al primo posto esterno del primo banco che era lungo tanto da contenere cinque alunni.

Quando incontravamo Biagio, la cui partecipazione al gioco con il triciclo non era prevista, le cose si complica­vano e allora o si cambiava gioco, cercando come occasionale compagno Mimì De Luca, più piccolo di noi, (com­pagno di banco dalle elementari al liceo di mio fratello Ugo ) che abitava sopra l'ufficio di don Peppino, o si cercava di stabilire dei turni in base, però, a certi meriti acquisiti con prove di bravura.

Con la fine delle scuole elementari e superati gli esami di ammissione al ginnasio inferiore, il triciclo del mio amico Gino fu messo in soffitta e non se ne parlò più, ma torna adesso come un fantasma a ricordarmi l'amico con il quale ho vissuto, poi, gli anni della gioventù e della ulteriore formazione fisica, psichica e culturale.


Piazza Rosario e la scalinata in pietra lavica dell'omonima Chiesa

Chiesa del Rosario




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