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Nicola Lupo

Fantasmi - Storiette paesane

422 FOTO DI BRONTE, insieme

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Cicciu Rapè

Tempo fa ho avuto il piacere di incontrare un amico brontese, molto più giovane di me, il quale ha avuto il gentile pen­siero di ricordarsi dei miei Fantasmi e della loro presentazione a Bronte del 10 Febbraio 1996. Parlando di Bronte e di Brontesi, mi è venuto in mente di chiedergli di un certo Rapè che suonava i piatti nella banda comunale del nostro paese e sembrava sfogare qualche suo interno cruccio proprio quando il suo ruolo ai piatti gliene offriva il destro.

Prima di riferirvi quanto dettagliatamente mi raccontò il mio amico sul personaggio di cui avevo chiesto notizie, devo fare una piccola digressione sulla banda di Bronte, ai miei tempi: in primo luogo devo dire che Bronte non ha dato mai i natali a un direttore d'orchestra, quindi la nostra banda era diretta sempre da un forestiero; ma aveva un vice bron­tese che dirigeva i suoi compagni nelle prestazioni più facili; allora questo vice era un Barbaria, panettiere, che aveva la sua panetteria sotto il Casino dei Civili dalla parte opposta della scala di accesso allo stesso.

I componenti della banda erano tutti artigiani e operai: nessuno studente e tanto meno donne, come se ne vedevano in altri centri, specie del Nord.

Il fatto che non ci fossero studenti, certamente, depone male perché dimostra che la cultura li Bronte non era estesa alla musica e, quindi, era monca e finalizzata solo alle professioni di insegnanti, di avvocati e di medici. Gli operai, quin­di, ci davano lezioni, inascoltate, di cultura in senso lato, ma lo facevano per integrare i loro magri guadagni profes­sionali, oltre che per dilettevole svago.

Sempre a proposito della banda cittadina mi ricordo che una comitiva di buontemponi, una sera a cena, stabilirono di rifare la banda con tutti i maggiorenti dell'epoca (anni 30), ma purtroppo non ho trascritto l'elenco completo, però ne ri­gna­ta di diritto al segretario del P.N.F. (partito nazionale fascista), Attilio Longhi­tano, uomo alto e molto miope; il clarinetto fu attribuito al centurione della M.V.S.N. (milizia volontaria sicurezza nazionale, poi diventata l'attuale Polizia di Stato), Ciccio Sanfilippo, gran sornione prima a capo dell'O.N.B. (Ope­ra Nazionale Balilla), diventato poi avvo­cato e Podestà; mentre a Filippo Battiato, altro centurione, basso e tronfio, fu assegnato il flauto traverso; la cornet­ta fu appannaggio del dott. Biagio Pecorino, eletto in seguito senatore nella lista del M.S.I. (ora Alleanza Nazionale); i contrabbassi ai fratelli De Luca, per la loro imponente mole e il possente petto; il bombardino all'avv. Nunzio Cesare, per la sua foga; il tamburo a Vincenzo Battiato, ex barbiere e poi maestro tripolino, mentre la grancassa a Luigi Benve­gna di F. P., per la sua statura che gliene permetteva un agevole sostegno; all'avv. Ignazio Liuzzo fu assegnato il triangolo per la sua debole costituzione fisica.

Al maestro Giovanni Radice, l'unico che si faceva chiamare professore e che era soprannominato von Papen (diploma­tico tedesco dell'epoca), per il suo portamento serioso e altero, venne assegnato l'oboe, mentre al suo omonimo avv. Renato fu attribuito l'ottavino, per la sua elegante ed esile figura di dandy; all'avv. Vincenzo Pace fu assegnato il fagotto e a suo fratello don Totò il controfagotto, per il loro proverbiale affiatamento; inve­ce al maestro Alfio Reina fu attribuito il flauto per il suo carattere mite e accomodante; ai fratelli De Luca, medici, a Placido, podestà, il sassofono, a Nunzio, presidente della Banca Mutua, la tromba e al piccolo Bastianello la trombetta; invece al ridanciano dott. Malgioglio, forestiero a cui piaceva molto il vino, poiché sapeva imitare la parlata nazista, fu assegnato il trombone; i piatti furono attribuiti al maestro Cannata, detto l'Orbicino per un suo difetto ad un occhio, per una certa somiglianza fisica con il suddetto "Rapè"; ma l'elenco, purtroppo, non è completo per deficienza di memoria.

Ma veniamo ora a quanto mi ha riferito il mio amico brontese a proposito di Cicciu Rapè, di cui io ricordavo che era il suonatore di piatti nella banda del paese e che sfogava proprio nell'eseguire la sua parte non so quale suo interno rancore: egli - raccontava il mio amico - era un povero ciabattino della zona di S. Vito, basso, ma­gro al punto che la gente lo chiamava Cazi 'i Catta, perché i pantaloni, che gli andavano troppo larghi, sembra­vano svolazzare come fossero di carta, dal viso scavato e torvo come se ce l'avesse con il mondo intero, non si sa per quale misteriosa ragione.

Ciccio, che non riusciva a sbarcare il lunario con la sua numerosa famiglia, aveva studiato musica quel tanto che gli permettesse di suonare, appunto, uno strumento semplice di accompagnamento, quale i piatti che gli con­sentivano di sfogarsi con i suoi energici interventi, quando alzandosi sulla punta dei piedi, faceva la faccia feroce e batteva i piatti come se, con enormi mani, volesse schiaffeggiare un suo ipotetico nemico. E nel fare questo, si sentiva un eroe realiz­zato e si guardava intorno come a dire a chi lo osservava: "Vedete come sono bravo e forte?!"

Ma in effetti il povero Ciccio era uno sconfitto, peggio di quelli di cui parla Verga nei Malavoglia, perché, come sape­vano tutti, era un tradito dalla sua natura, dalla sorte, dalla moglie e via via dalla figlia, che diventava grande e precoce, come la mamma la quale la spronava a "vendicare" il padre.

Il nostro Ciccio il quale, quando la parte musicale gliene offriva l'occasione, col modo di suonare i piatti, dimostra­va carattere di guerriero vendicatore, nella vita di tutti i giorni, seduto al suo deschetto di ciabattino e con un lavoro che non gli permetteva un tenore di vita decente, era un pusillanime che trovava, però, il coraggio di dire a qual­che suo facoltoso cliente, che dimostrava interesse per la di lui moglie: "Quando Vossia vuole andare a far visita a mia moglie, è 'u patruni !" senza pensare che con quella servizievole frase aveva toccato il fondo del degrado morale che nulla poteva giustificare o cancellare.
Il povero, in tutti i sensi, Ciccio Rapè - continuò il mio amico - finì miseramente, perché dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia del Luglio 1943, fu deportato dai nostri alleati tedeschi, assieme ad un altro Ciccio, detto ra Villa perché curava una specie di villa comunale che si trovava dietro "a Santa Cruci", e che aveva avuto lo stesso destino familiare del precedente, e assieme ad un nipote di Padre Ciraldo, che era tenente della M.V.S.N.; nes­suno dei tre dette più notizie e, quindi, si presume che siano morti nei cosiddetti "campi di lavoro" che la storia, succes­sivamente, ha stigmatizzato in "campi di sterminio".






Una vecchia foto della "Ban­da San Biagio" (1922).

Sotto la Banda negli anni '50 in posa davanti al­l'edi­ficio scolastico di Piaz­za Spedalieri  e, oggi, in Piaz­za del Rosario.







"...e al piccolo Bastianello la trombetta"
Il Dr. Bastianello De Luca Disegno di Angelo Mazzola tratto da "Gal­leria" de Il Ciclope (n. 22 del 27.11.1949)







 

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Il mio amico, divenuto pensieroso al solo ricordo e titubante se dirmi il seguito o no, per un certo ritegno, alla fine proseguì dicendomi che la moglie di Ciccio, accompagnando la figlia a passeggio, era solita affiancarsi a qualche studente e così, con estrema disinvoltura, diceva al giovane: "Professuré (così venivano chiamati genericamente gli studenti dell'unico liceo [classico] di Bronte) se vuole venire a far visita a mia figlia, Vossia è u patroni !"

"Io, - continuò il mio amico - non sapendo che anche il marito era solito invitare qualche ricco compaesano a far visita alla moglie, e ancora timoroso e inesperto all'epoca del liceo, quando mi impiegai in una grossa azienda, dove spesso ero solo, un giorno alla controra, vidi quella bella ragazza è... accolsi quell'invito."

Dopo qualche tempo e non avendo più avuto rapporti con la ragazza, passeggiando con un altro amico più gran­de, il mio interlocutore incontra la sua benefattrice, ma fa finta di niente. E allora il suo accompagnatore gli chiede: "Sai chi è quella?" e alla risposta negativa dell'amico, a bruciapelo, gli sog­giunge: "È tua sorella!", alludendo al fatto che il padre aveva avuto un'avventura extraconiugale che aveva dato quel bel frutto.

Lascio immaginare come rimase il mio amico a quella notizia che non avrebbe mai sognato e che scatenò in lui un tumulto di sentimenti che facevano pensare alle tragedie greche, al complesso di Edipo, agli incesti, che si cre­devano solo parti di opere letterarie e di epoche ormai lontane nel tempo e nei costumi; e pensava: "E se dal­l'unico amplesso con mia sorella nascesse un figlio, che razza di parentela verrebbe a crearsi e quali conseguenze porterebbe nella mia famiglia, se rese note dalle interessate o dalle malelingue brontesi?".

Interrogativi da togliere il sonno a chiunque, specie a un liceale degli anni '50! Per fortuna sua quell'involontario e inopinato incesto non ebbe conseguenze nè fisiche nè giudiziarie e il mio amico, oggi sposo e padre felice, può raccontarlo come ha fatto con me, come qualcosa di sentito dire.


Mastr’Antuninu Stigghiurella

Mai "ingiuria" era stata così azzeccata come nel caso di mastro Antonino il quale era stato soprannominato così per un doppio motivo:primo perchè nel fisico alto, asciutto e allampanato si assomigliava alla “stigghiola” e poi perchè questa ero il suo piatto preferito; infatti era formata da un lungo involtino di budella di agnello che per profumo e sapore era il non plus ultra delle leccornie a buon prezzo.

Mastro Antonino era un calzolaio di Bronte,che negli anni venti-trenta abitava 'o stratuni, cioè sulla provin­ciale Adrano-Randazzo che attraversava la mia cittadina, proprio nello parte che portava ad Adrano e cioè verso lo "scialandro", che era il belvedere sulla valle del Simeto.

Lì il nostro maestro aveva casa e bottega, come si usa dire, e sapeva fare sia scarpe nuove che riparazioni, le quali ultime, allora, erano in maggioranza, perchè le scarpe si risuolavano parecchie volte prima di mandarle in pensione e provvedere a ordinarne un paio nuove.

Il nostro era singolare non solo per il suo aspetto fisico e per le sue preferenze culinarie, ma anche perchè, con­traria­mente a quanto facevano gli altri suoi colleghi, che lavoravano quasi sempre in quattro, quanti ne stavano intorno al deschetto, sempre allegri cantando e dialogando spesso scherzosamente con i passanti, conoscenti e no, egli lavorava da solo e tristemente, e quando qualcuno gli faceva notare questa sua triste anomalia, soleva rispondere: “cu ioca suru, mai s'incagna" che era la sua filosofica consolazione di "chi gioca da solo non ha mai occasione di offendersi".

Mastro Antonino era anche molto metodico, forse appunto perchè, lavorando da solo, non aveva mai occasione di distrazioni e contrattempi.
Infatti era ligio agli orari di inizio e di fine della sua giornata, ma rispettava puntualmente l'orario del pranzo: perciò appe­na sentiva suonare mezzogiorno all'orologio di S. Giovanni, egli deponeva il suo lavoro e i suoi attrezzi, si toglieva il lungo grembiule sporco di cuoio bagnato e cera vergine, che serviva per rinforzare lo spago per le cuci­ture, e, infilatasi una giacchetta, andava a fare una visitina alla cantina di "Patinchia" che vendeva del buon vino di Mascalucia vicino alla chiesa della "Catena”; lì si faceva il suo aperitivo e nello stesso tempo comprava il vino per casa, facendolo mettere in una bottiglia che si era portata appresso.

Anche qui egli aveva una caratteristica: portava la bottiglia in un modo che era un'altra sua particolarità: portava la bot­tiglia tenendola nascosta, si fa per dire, sotto la giacchetta all'altezza del sedere, in modo che essa era più visibile che se fosse stata portata in modo più naturale in mano, dato che allora non c'erano buste o giornali usati per avvolgere.

Il nostro tipico, o meglio atipico, calzolaio tornava a casa dove "alla mezza" pranzava con la moglie; infatti essi non avevano figli per cui lo loro vita era, sì, tranquilla, ma terribilmente tediosa e triste e, dopo un breve pisolino, sia d'estate che d'inverno, riprendeva il suo lavoro che finiva all'ave maria, cioè all'imbrunire, quando egli tornava da "patinchia" dove affogava nel vino lo sua nostalgia per un figlio che non aveva mai avuto.


Papafìnu

Bronte 1927: via Matrice angolo via Cardinale Dusmet: un magazzinetto monovano ad una sola entrata, divisa a metà con una vetri netta d'esposizione: sartoria per uomo; un manichino da sarto, cioè quello costituito dal solo busto, senza nè braccia, nè gambe e tanto meno testa; una giacca blu a doppio petto poggiata sul manichino nero, senza camicia, e i relativi pantaloni, stesi piegati, al piede del manichino; accanto una macchinetta nera che sembrava un nuovo tipo di macchina fotografica.

L'interno era diviso orizzontalmente in due zone da uno scaffale a mensole sulle quali erano esposte delle stoffe; la parte antistante, adibita a negozio, aveva un piccolo bancone, uno specchio alto a due ante per guardarsi dietro, e qualche sedia per i clienti; sul retro era allogato il laboratorio con bancone alto per sarto, il ferro da stiro a carbonella, la macchina per cucire Singer e, alle pareti, poster di abiti maschili alla moda, e, appesi a qualche chiodo, squadre e righe millimetrate nonchè il classico metro a nastro di tela cerata dell'altrettanto classico colore giallo con i centimetri in nero; anche nel laboratorio era presente un altro manichino simile a quello esposto in vetrina, con qualche altra giacca in lavorazione e qualche sedia per quando il sarto non lavorava in piedi davanti al bancone per disegnare l'abito, tagliarlo, imbastirlo e poi stirarlo, ma doveva cucire definitivamente il tutto dopo le prove che non erano mai meno di tre, per cui il cliente doveva andare da lui almeno cinque volte comprese la prima per le misure e la scelta della stoffa, delle fodere e dei bottoni, e l'ultima per ritirare il manufatto e compiere “la mesta cerimonia” del pagamento.

Ma chi era il 'polifemo' della situazione? Un signore dalla presumibile età di cinquant'anni, alto ben portante e ben pasciu­to, dai capelli brizzolati e impomatati, dal sorriso stereotipato sulle labbra carnose e tumide, dagli occhiali dalla montatura in oro e dall'abbigliamento sempre inappuntabile: giacca blu a doppio petto (come quella mala­mente esposta in vetrina) su pantaloni grigio e camicia a righine rosse con sgargiante cravatta a fiori che dava l'ultima indicazione per indovinare che quel signore era un vecchio emigrato in America e tornato in Italia, anzi in Sicilia, 'ricco' americano, con scarpe nere sempre lucide su calze dello stesso colore.

Le sue generalità? Mai conosciute, se non all'anagrafe, perchè tutti lo indicavano come Papafìnu, ma lo chiama­vano mister, come voleva lui.

Ma che cosa voleva dire quello che era certamente una 'ingiuria', cioè un soprannome? Mai saputo. neppure ora che cerco di fare mille congetture e ipotesi che, però, non servono a nulla per il nostro racconto e che, quindi, tralascio.

Mister Papafìnu, quindi, era il sarto alla moda americana il quale, però, aveva importato anche qualche “america­nata”, che era il termine usato per indicare le cose mai viste in Sicilia e importate dall'America. Come quella mac­chinetta esposta in vetrina e che nessuno, almeno così si pensava. sapeva cosa fosse esattamente.

I ragazzini ,passando davanti alla sartoria dell'americano, o di Papafìnu, si fermavano davanti alla vetrinetta, ma non guardavano il vestito esposto, tanto a loro non poteva interessare e, allora, i ragazzi non consigliavano il modo di abbigliarsi ai genitori, ma nessuno aveva il coraggio di entrare per chiedere a quel signore, che si faceva chiamare mister, mentre era Papafìnu, cosa fosse quell'oggetto misterioso esposto in vetrina e che nulla aveva a che fare con i vestiti da uomo.

Due di quei ragazzini, fratelli, erano i più assidui a fermarsi davanti a quella vetrinetta per ammirare quella mac­chinetta, sia quando andavano che quando tornavano da scuola, percorrendo sempre 'a scinduta 'ru passu poccu, alias via Matri­ce, passando davanti al vecchio carcere mandamentale, il cui custode era un ex barbiere, persona gracile e gentile, che viveva nello stesso stabile con la bella e giovane moglie e una bambina, e i cui modi rende­vano meno triste la vita di quei disgraziati “ladri di polli” che erano incappati nelle maglie della Legge e che ne sopportavano le conseguenze dignito­samente.

I due fratelli, diciotto anni in tutto, guardando quell'oggetto, fantasticavano sul suo nome e sulla sua funzione, ma non trovavano, neppure essi, il coraggio di chiederlo a mister Papafìnu; ma un bel giorno il più grande dei due, seguito sempre dall'altro, bussò alla vetrina, entrò, salutò e chiese, tutto d'un fiato: "Cos'è quella macchi­net­ta che sembra una macchina fotografica e quanto costa?" E rimasero lì, impacciati, ad attendere il responso del proprietario del negozio, per attimi senza fine.

Il signor Papafìnu, forse conoscendo i due, forse credendoli due potenziali acquirenti, forse per abituale predi­sposizione a trattare con la clientela, sfoderando il più smagliante dei sorrisi americani, prodotto dalle numerose capsule d'oro ai denti, per altro curati e puliti, invitò i due ragazzi a sedersi e, mettendo sotto i loro occhi spalancati un coloratissimo depliant, cominciò a dire:

"Questa non è una macchina fotografica, ma una lanterna magica (che oggi si chiamerebbe proiettore) e serve per fare il cinema in casa, e costa venticinque lire!"

A quelle parole nelle teste dei due ragazzi cominciarono a frullare la lampada di Aladino, il cinema in casa e le venticinque lire; il tutto in una specie di cocktail che dava loro l'ebbrezza. Sotto l'effetto di quelle notizie i due fratelli ringraziarono, salutarono e se ne andarono.

Strada facendo le loro idee cominciarono a schiarirsi e, mentre pensavano con piacere alla possibilità di avere il cinema in casa, inciamparono nello scoglio delle 25 lire del costo della 'lanterna', compresa una prima pellicola.

A chi chiederle? Come procurarsele? Come ottenerle? Dai genitori neppure pensarci, dai parenti meno che mai, dal loro salvadenaio: bisognava attendere Natale e, allora, non avrebbero trovato quella somma! Sembrava un rebus insolubile e, nel frattempo, arrivarono a casa un po' allegri e un po' frastornati, ma il pranzo li rimise in sesto e in grado di pensare alla soluzione del problema con più tranquillità.

A metà pomeriggio, dopo aver fatto i compiti, la soluzione venne chiara e pulita alla mente del più grande il quale la espose, come cosa fatta, al più giovane: "Le prendiamo in prestito dalla scatoletta di latta in cui Mangiatabaccu (un loro zio, barbiere per sei giorni la settimana, agricoltore il lunedì) raccoglieva le nuove cinque lire d'argento (grandi come le nuove cento lire d'oggi)."

"Ma come le prendiamo, se il cassetto del lavandino è chiuso?" soggiunse il piccolo. "Niente paura! - aggiunse il grande - la tua manina raggiungerà la scatola dall'interno e ne prenderai una la settimana in modo che lo zio non se ne accorga."

"Ma questo è rubare!" - obbiettò il piccolo, "Ma nooo! Sarà solo un prestito! perchè noi faremo il cinema anche per i nostri compagni ai quali faremo pagare 20 centesimi alla volta e così raggranelleremo la somma da rimettere al suo posto prima che lo zio se ne accorga."

Superate così anche le remore morali del piccolo, il giorno dopo, quando i due furono soli nella barbieria dello zio, la prima cinque lire d'argento prese il volo per essere data come anticipo al mister Papafìnu per avere la famosa "lanterna". Il Papafìnu, vista la prima cinque lire (e d'argento!) concluse l'affare, ma a modo suo: infatti disse ai due fratellini: "Quando avrete portato tutte le 25 lire, vi consegnerò la lanterna,"

I due, alquanto delusi per l'imposta dilazione, che si presentava lunga un mese, si accingevano a prelevare la seconda moneta, ma non avevano fatto i conti con l'avarizia di Mangiatabaccu, la quale era così accentuata da fargli cambiare i soldi e le lire in monete d'argento che poi si covava guardandole e contandole tutte le sere.

Perciò il barbiere-contadino s'accorse subito dell'ammanco e subito individuò gli autori e fece ricorso al loro padre, il quale era così severo e intransigente che morse le mani a entrambi ricordando loro che "la roba degli altri non si tocca e che i soldi bisogna guadagnarseli o chiederli."

Sarà ancora valido quell'insegnamento o farà sorridere le nuove generazioni alla 'dabbenaggine' di quel vecchio padre? Così finì il sogno di due ragazzini di avere in casa il cinema pagato con un “prestito forzoso” da rimborsare con i proventi di una prima prova di speculazione commerciale!

E il Papafìnu?: fu redarguito dal padre dei due monelli per avere abusato dell'ingenuità dei due minori e fu costret­to a restituire la moneta d'argento con suo grande scorno e disappunto.


‘A zza Maria

La zia Maria (così la chiamavano tutti nella "ruga") era una bella donna: alta, giunonica nel suo costume dell'epoca, costi­tuito da sottana lunga e cor petto stretto in vita che sosteneva il seno ancora pieno e prosperoso; il suo viso regolare e roseo era incorniciato da una folta capigliatura ondulata, già brizzolata, e metteva in risalto due occhi castani e mansueti, e un naso greco: il tutto era caratterizzato da un vistoso neo peloso in direzione dell'angolo sinistro della bocca, dalle labbra tumide e carnose.

Era insomma un soggetto degno del pennello di Van Gogh il quale certamente lo avrebbe intitolato "Donna con neo peloso".

Questa signora della famiglia dei "Caszamé", così intesa perchè un suo antenato amava ripetere "in casa mia non manca niente!", aveva sposato un suo cugino, già vedovo con quattro figli, al quale ne aveva regalati altri due dei suoi.

Questa coppia andava perfettamente d'accordo sebbene lui fosse autoritario e collerico, perchè lei, con la sua dolce indifferenza, che poteva definirsi cinismo, lo lasciava dire e sfogare anche la sua facile ira, e poi, a calma ristabilita faceva come più le aggradava, senza però cantare mai vittoria.

I loro litigi erano causati il più delle volte dalla diversità dei loro caratteri: quello di lui un po' megalomane, quello di lei tendente alla taccagneria. Alcuni esempi? Il marito rincasando, d'inverno, notava che nel braciere c'era poco carbone e subito chiamava la figlia Ciccia affinchè ne aggiungesse dell'altro; la moglie lasciava fare, ma poco dopo, appena lui si distraeva in qualche modo, lei zitta zitta ricopriva di cenere il carbone ancora spento, perchè non si accendesse e non si consumasse troppo presto.
La stessa scena si ripeteva con la luce: la grande sala pranzo-soggiorno era rischiarata da un lume a petrolio, di quelli con il saliscendi e sormontati da una grossa cupola bianco latte; appena il marito entrava gridava: "Ma che santo diavo­lone di buio è questo?!" e, tirato giù il lume ne alzava la fiammella azionando l'apposita rotellina che sollevava la calza, lo stoppino che era immerso nel petrolio contenuto nel lume.

La moglie, come sempre, non replicava nulla e lasciava fare come se fosse perfettamente d'accordo; ma dopo un po' si alzava con il suo passo felpato come di felino, e dopo aver fatto un giro della stanza per diversivo, ritornava al suo posto intorno al tavolo tondo o al braciere e, furtivamente, abbassava la fiammella. Quando il marito tornava a notare che la luce era diminuita, erano altre colorite imprecazioni a voce più sostenuta, ma lei, donna Maria, non reagiva e attendeva che la tempesta si calmasse per rifare il suo giuoco, perfido o innocente?

La stessa tattica la zia Maria usava in tutte le altre faccende della casa; vitto, vestiario e quant'altro, specie nel discri­minatorio trattamento di figli e figliastri: non contrastava mai il marito, ma cercava di fare sempre a modo suo; perciò la vita scorreva tranquillamente senza alterchi vistosi, ma con una sola voce alterata: quella del marito, che però andava a smorzarsi nella muta e disarmante indifferenza della moglie. La quale era nota per alcune sue piccole, innocue manie: per esempio quelle che accompagnavano la sua preparazione per la notte.

Tutte le sere lei era l'ultima ad andare a letto, dopo aver controllato che le due figlie nubili avessero eseguito a puntino le sue disposizioni per quanto riguardava la sala da pranzo e la cucina.
Quando tutti erano ormai a letto, lei si spogliava, indossava la camicia da notte, coprendola con una vecchia vestaglia, e, con la scusa di andare a chiudere il portone per la notte, scendeva in strada e, ferma a margine dello stradone come se scrutasse il cielo per trame le previsioni meteorologiche per l'indomani, allargava le gambe e, come se nulla fosse, faceva la sua ultima pipì della giornata, scavando sempre una fossetta che il giorno seguente i ragazzi della "ruga", ignari dell'origine di essa, usavano per giocare alle nocelline.

Dopo aver dato un ultimo sguardo indagatore verso il palazzo di fronte e poi a destra e a sinistra lungo lo stradone, fino alle due curve che portavano una al centro e l'altra allo "Scialandro", la zia Maria, emettendo un lieve sospiro di soddi­sfazione, rientrava nel portone, dopo aver tolto il "chiavino" che di giorno restava sem­pre nella toppa per permettere ai visitatori e ai familiari di entrare liberamente senza scomodare chi stava in casa, e chiudeva accuratamente anche se allora non c'era quasi paura di ladri o altri malintenzionati.

Rientrata nella grande Camera da letto, dove il marito già russava debolmente e tranquillamente, lei si toglieva la vesta­glia e si disponeva davanti all'alto canterano che era sovrastato da un grande quadro ad olio riprodu­cente l'Etna nero solcato, nella parte sud- occidentale, della colata lavica rosso fuoco che poi sarebbe stata chiamata la "sciara nuova".

Sul canterano la signora aveva predisposto un bacile con dell'acqua da un lato, e dall'altro il lume portatile a petrolio, di quelli che ora fanno bella mostra come pezzi di antiquariato, per il vetro dipinto a mano con motivi floreali e protetti da quei globi smerlati e smerigliati che attutivano la luce, dando all' ambiente un alone di privacy quasi erotica e peccami­nosa.

Fra quei due oggetti di uso comune e famigliare la zia Maria consumava il suo ultimo sadico rito notturno: con mano sapiente e sicura, infilata sotto la camicia da notte dalla scollatura, prendeva, come se le avesse in serbo, tante pulci che, in quell'epoca facevano non lieta compagnia all'uomo assieme ad altre specie di paras­siti, come pidocchi e cimici; e sempre con quella indifferenza che la rendeva un personaggio di Alberto Moravia ante litteram, le giustiziava affogando l'una nell'acqua del bacile, o bruciando l'altra facendola cadere nel tubo del lume accesso; e così fino a quando non era soddisfatta della carneficina che la ripagava dei morsi patiti durante tutta la giornata fino a quel momento di vendetta, assaporato in tutta tranquillità e solitudine.

La zia Maria, per la dantesca legge del contrappasso, morì abbastanza giovane per "impedimento all'urina" che scienti­ficamente chiamasi nefrite!





 

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