Le origini di Bronte e dei brontesi

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Chi è il brontese come uomo e come cristiano?

La Chiesa Madre e l'identità dei brontesi

«Bronte si è formato per il progressivo accrescimento di una popolazione di diversa provenienza.
Dobbiamo considerare questa diversità una fonte di ricchezza»

di Adolfo Longhitano

In preparazione alla solenne dedicazione di questa chiesa madre sono stato invitato a riflettere su alcuni aspetti della nostra storia per aiutarvi a com­prendere questo avvenimento(1).

Si tratta di una celebrazione che ha un significato prevalente­mente simbolico. La chiesa madre diventa il simbolo dell’identità del popolo brontese sotto l’aspetto umano e cristiano.
In definitiva questa chiesa, fatta di pietre, ci rimanda alla chiesa fatta di persone e ci invita a dare una risposta all’interrogativo che ci poniamo all’inizio di questo nostro incontro: chi è il brontese come uomo e come cristiano?

La domanda non è facile e questa sera non saremo in grado di darle una risposta esauriente. Si tratta di individuare gli elementi che caratterizzano il popolo brontese sotto l’aspetto etnico, culturale, religioso, ecc.
Sviluppare questi aspetti nel breve arco della nostra conversa­zione è impossibile. Tuttavia possiamo provare a mettere insieme gli elementi di cui disponiamo per tentare un primo abbozzo di questa identità.

Le tracce che seguiremo in questa nostra ricerca sono tre: il territorio, le popolazioni che lo hanno abitato, l’ordinamento della comunità cristiana di Bronte.


1. Il territorio

Bronte è sorto e si è sviluppato in una zona posta come cerniera fra le pendici dell’Etna e le falde dei Nebrodi, subendo allo stesso tempo i condizionamenti dei territori appartenenti alle due province di Catania e di Messina.

A valle, in un’area pianeggiante solcata da diversi corsi d’acqua che scendono dalle montagne circostanti, si trova la pianura di Maniace, che per la sua posizione e per i suoi terreni fertili è stata punto di riferimento delle popolazioni vicine.

Se le favorevoli condizioni del territorio di Maniace esercitavano un potente richiamo per gli abitanti dei Nebrodi, la malaria provocata dagli acquitrini sconsigliava loro di risiedere stabil­mente nella zona. Infatti nel corso dei secoli i centri abitati che si sono formati a Maniace e vicino ai corsi d’acqua non sono durati a lungo: i loro abitanti per sfuggire alla malaria si sono man mano allontanati sulle alture circostanti.

I documenti ci hanno tramandato i nomi dei casali della zona: Rotolo, Corvo, S. Leone, S. Venera, Bolo, Placa Baiana, Bronte.

Quando sono sorti questi centri abitati? Possiamo dare una risposta a questa domanda o facendo ricorso a ipotesi e congetture, oppure basandoci su precise testimonianze storiche. È probabile che il casale di Bronte esistesse in epoca bizantina o durante la dominazione araba, ma questa ipotesi fino ad oggi attende di ricevere conferma.

I reperti antichi ritrovati nei suoi territori testimoniano solo la presenza di insediamenti umani non meglio identificati.

Nel 1178 fra i casali elencati in una concessione fatta da Nicola vescovo di Messina a Timoteo abate di Maniace non troviamo quello di Bronte(2).

Alcuni spiegano questo silenzio con l’eruzione dell’Etna del 1170, che avrebbe distrutto il casale e indotto gli abitanti a disperdersi(3); ma si tratta di un’ipotesi.

Il primo documento certo, nel quale troviamo citato il casale di Bronte, è del 1308: negli elenchi di coloro che riscuotevano i tributi per conto del papa leggiamo questa affermazione: «Il sacerdote Nicola di rito greco, del casale di Bronte, pagò 6 tarì(4)».

È ovvio che questo sacerdote non pagava il tributo a titolo personale, ma come responsabile del casale. Pertanto da questa testimonianza possiamo affermare che all’inizio del secolo XIV il casale di Bronte esisteva e gli abitanti erano cattolici di rito greco, collegati probabilmente alla popolazione bizantina sopravvissuta alla dominazione araba.

Poiché troviamo questa comunità nei primi anni del Trecento dobbiamo presumere che occupasse quel territorio almeno fin dal secolo precedente.


2. Le popolazioni del territorio

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Mons. Adolfo LonghitanoRelazione tenuta da mons. Adolfo Lon­ghitano (foto a de­stra), docente eme­rito di diritto cano­nico nella Facoltà Teolo­gica di Si­cilia (Stu­dio Teologico San Pao­lo di Catania), tenuta nel­la chie­sa madre di Bron­te il 18 mar­zo 2012 in occa­sione delle cerimo­nie per la solen­ne consa­cra­zione della chiesa dopo il completa­mento di lavori di consolidamento e di restauro.

Adolfo Longhitano (nato a Bronte nel 1935), dopo aver completato gli studi clas­sici e teologici nel Seminario Arci­vescovile di Cata­nia, ordinato presbitero il 25 agosto 1957, ha conseguito a Roma nel 1968 la laurea in Diritto Canonico nella Pontificia Università del Laterano, discu­tendo una tesi di storia delle istituzioni locali dal titolo La parroc­chia nella diocesi di Catania prima e dopo il Concilio di Trento (Istituto superiore di Scienze Religiose, Palermo 1977; 2a ed. rivedu­ta e accresciuta, Studio Teologico S. Paolo, Catania, Ed. Grafiser, Troina, 2017).

Presidente del tribunale ecclesiastico diocesano, come or­di­nario di Di­ritto Canonico ha insegnato nello Studio Teolo­gico S. Paolo di Catania fino al 2005 e come invitato nel­l’Isti­tuto Teolo­gico S. Giovanni Evan­gelista e nella Facoltà Teologica di Sicilia di Palermo dal 1963 al 1983.

Ha svolto un’importante attività culturale. Nelle sue ricerche, oltre al Diritto Canonico, ha privilegiato lo studio delle istituzioni, partecipando a convegni, collaborando a giornali e riviste e pubblicando libri specialistici e nume­rosi articoli e saggi nella rivista Synaxis dello Studio Teologico S. Paolo e in altre riviste locali e nazionali.

Ha portato notevoli contributi alla co­no­scenza della Storia civile, religiosa e sociale della pro­vincia di Catania, pubblicando antichi manoscritti.

In tema di storia delle istituzioni si possono citare i volumi: Catania e la sua Università nei secoli XV-XVII. Il Codice «Studiorum constitutiones ac privilegia» del Capitolo cattedrale (Il Cigno Galilei, Roma 1995; Roma 2002), curato assieme a Giuseppina Nicolosi Grassi; La facoltà di medicina e l’Università di Catania: 1434-1860 (Giunti, Firenze 2000, curato da Antonio Coco); Sant’Agata li Battiati: all’origine della parrocchia e del comune (Catania 2000); Santa Maria di Nuovaluce a Catania. Certosa e abbazia benedettina (Arca, Catania 2003).

Fra le sue opere: Il Ve­scovo Vincenzo Cutelli (1577-1589): cancelliere dello Stu­dium (1997), Introduzione al diritto canonico (1971-72); Il codice “Stu­diorum constitutiones ac privilegia” del Capitolo catte­drale (1995, curato assieme a Giuseppina Nicolosi Grassi); Pietro Geremia riformatore. La società, le istituzioni e lo “Studium” nella Catania del ‘400, in F. Migliorino–L. Giordano (eds.), La memoria ritrovata. Pietro Geremia e le carte della storia, Catania 2006, 201-281; Aragonesi e Catalani a Catania (secoli XIII-XV), in Miscellània d’homenatge al Cardenal Lluìs Martìnez Sistach, Barce­lona 2015; Il Clero di Catania tra Ottocento e Nove­cento (1999, con altri); Chiese patrimoniali e ricettizie, comunìe, sacre distribuzioni, in La Chiesa nella storia. Religione, cultura, costume - Tomo 2, Città del Vaticano, 2018.

Nel 1983 iniziò a pubblicare nella rivista Synaxis la serie delle «Relazioni ad limina della Diocesi di Catania» che, dopo un’accurata revisione e i necessari aggiornamenti, fu raccolta in due volumi, editi nel 2009.

In un terzo volume (Le relazioni ad limina della diocesi di Catania, 3 voll., Firenze – Catania 2009-2015, I, pp. 597-600) ha pubblicato per la prima volta le cinque relazioni del vescovo card. Giuseppe Fran­cica Nava, inviate dal 1904 al 1927, e quella del vescovo Carmelo Patanè, inviata nel 1937. Il limite del 1939, posto per la consul­tazione dei documenti conservati nell’Archivio Segreto Vatica­no, non ha consen­tito la pubbli­cazione delle relazioni successive.


La Chiesa Madre e l'identità dei brontesi
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di mons. Adolfo Longhitano leggi pure

Ignazio Capizzi e il suo tempo

Il Gruppo marmoreo dell'Annunziata

La seconda pista che ci siamo proposti di seguire nella nostra ricerca è quella delle popola­zioni che hanno abitato il territorio di Bronte.

Per non andare troppo indietro nel tempo, riferiamoci all’alto medioevo quando in Sicilia i Bizantini esercitavano un’ege­monia culturale e politica, fino a quando non furono sostituiti dagli Arabi provenienti dal nord Africa.

Gli eserciti islamici, dopo il primo sbarco a Mazara (18 giugno 827), occuparono per prime le province della Sicilia occi­den­tale. Le ultime roccaforti della Sicilia orientale, site nel territorio di Messina, caddero a distanza di 130 anni. Non tutte le province della Sicilia risentirono allo stesso modo dei condizionamenti della lunga dominazione islamica, che per la nostra zona si protrasse per circa 170 anni.

I centri abitati nei quali si conservò una prevalente popolazione cristiana e parte dell’ordina­mento della chiesa bizan­tina furono quelli della provincia di Messina, in particolare il territorio dei Nebrodi(5).

Il primo tentativo di cacciare gli islamici e riportare la Sicilia nell’orbita di Bisanzio fu fatto dal generale Maniace, che nel 1040 inflisse una memorabile sconfitta agli eserciti arabi proprio nella pianura che da lui prese il nome. La Sicilia fu restituita alla cultura occidentale e al cristianesimo dai Normanni, che iniziarono la loro campagna di liberazione nel 1061(6).

Furono questi avvenimenti che determinarono un nuovo assetto della popolazione siciliana: alla componente greca e araba si aggiunse quella latina dei conquistatori. L’esercito, che nell’arco di trent’anni sconfisse definitivamente i musul­mani di Sicilia, era guidato dai Normanni, una popolazione di origine francese; ma era composto anche da condottieri e soldati provenienti dalle diverse regioni italiane: Piemonte, Lombardia, Liguria, Puglia, Calabria, ecc. Gran parte delle persone che avevano partecipato alla conquista si stabilirono definitivamente in Sicilia e furono raggiunte successiva­mente da altri conterranei che formarono delle isole culturali e linguistiche, facilmente individuabili attraverso i dialetti. Proprio in alcuni centri abitati dei Nebrodi si insediò una popolazione proveniente dal Piemonte, precisamente dal Monferrato, al seguito della contessa Adelasia, moglie del Conte Ruggero(7).

Bronte nel 1832 (da un dipinto di Giuseppe Politi)Bronte (a destra in un disegno del 1832 tratto dal quadro di Giuseppe Politi Eru­zione del­l'Etna - la notte del 31 Ottobre 1832) a quel tempo probabil­mente non esisteva ancora o era un piccolo casale con una popo­lazione indigena.
Come abbiamo detto, il docu­mento del 1308 ci induce ad affermare che il primo nucleo degli abitanti di Bronte fosse di origine e di cultura bizantina.

Tuttavia le popolazioni provenienti dai centri abitati dei Nebrodi, che inizialmente si erano insediate a Maniace(8) e che successivamente cercarono rifugio nelle zone circostanti per sfuggire alla malaria, costituirono a Bronte una minoranza linguistica, che man mano si fuse con la popolazione locale. Pertanto la popolazione di Bronte non proviene da un unico ceppo, ma è il risultato di un lento e progressivo accrescimento di nuclei diversi, provenienti dai centri abitati dei Nebrodi.

Una conferma di ciò possiamo trovarla nel dialetto e nei cognomi. Bronte ha un dialetto proprio, carat­teri­sti­co, che si differenzia da quello dei vici­ni centri abitati, frutto dell’ap­porto delle diver­se popolazioni che si sono insediate(9).

A Bronte il cognome più diffuso è Longhi­tano, in origine Longi­ta­no, come leggiamo nei primi registri di battesimo della fine del Cinque­cen­to: indicava un nucleo di fami­glie prove­nienti da Longi, un comune anco­ra oggi esistente in provincia di Messina(10).
Quello che abbiamo descritto può es­sere definito come un movi­mento spon­taneo di popolazioni, determi­nato dalla ricerca di con­dizioni migliori di vita e di lavoro.

Nel 1535 si ebbe un nuovo movi­mento provocato questa volta da una disposi­zione dell’imperatore Carlo V. In una sua visita a Randazzo, costatando le difficoltà incontrate dai magistrati locali per amministrare la giustizia su una popo­la­zione frazio­nata in tanti piccoli centri abi­tati, ordinò che tutti gli abitanti dei casali esistenti nel territorio già apparte­nente all’abbazia di Maniace si trasfe­rissero a Bronte(11).
Il decreto di Carlo V segnò per Bronte l’inizio di un nuovo sviluppo, come testi­moniano i documenti che ci apprestiamo a prendere in esame: le relazioni ad limina inviate a Roma dai vescovi di Monreale, diocesi alla quale Bronte è apparte­nuta fino al 1802.

Questi documenti, che troviamo nell’Archivio Vaticano a partire dalla fine del Cinquecento, costituiscono una preziosa fonte storica, che ci offre in sintesi un gran numero di dati utili per seguire le diverse fasi dello sviluppo di un centro abitato o di una istituzione(12). Incominciamo così a percorrere la terza pista della nostra ricerca.


3. Ordinamento civile e religioso

Il chiostro, parte dell'antico Monastero, antistante la chiesa di Santa Maria di Maniace. Per comprendere i dati riferiti nelle relazioni è necessario descrivere brevemente l’ordina­mento di Bronte. Questo centro abitato non ha dato il proprio nome a un feudo. A Bronte non c’è mai stato un castello, sede e segno della potestà feudale(13).

Il territorio in cui Bronte è sorto, dal punto di vista amministrativo faceva parte dell’abbazia di Maniace e per l’esercizio della giustizia civile e criminale era soggetto al Duca di Randazzo; dal punto di vista religioso con tutto il Valdemone apparteneva alla diocesi di Messina.

Questa condizione giuridica cambiò con il mutare delle sorti dell’abbazia di Maniace che nel 1183, quando Monreale fu eretta diocesi, entrò a far parte con tutto il suo territorio della nuova circoscrizione diocesana(14).
Si trattò di una decisione politica che mirava più agli interessi della corona che al bene delle popolazioni dipendenti dall’abbazia di Maniace. Un vescovo residente a Monreale non poteva prendersi cura di una popolazione dimorante in un territorio posto a più di 150 Km di distanza, raggiungibile attraversando le impervie zone interne della Sicilia.

Nel corso dei secoli le proprietà dell’abbazia cominciarono a far gola ai potenti e iniziò la prassi deprecabile della commenda. Se il re e il papa avevano un debito di gratitudine verso un nobile o un loro parente lo nominavano abate commendatario di un’abbazia o di un ricco beneficio. Egli in tal modo poteva disporre liberamente delle rendite dell’abbazia con il solo obbligo di assicurare il servizio religioso.

Ben presto l’abbazia di Maniace cessò di essere un fiorente centro di vita monastica per diventare uno dei tanti feudi concessi a dei nobili che si preoccupavano di riscuotere le rendite, senza neppure risiedervi(15). I benedettini non furono più in grado di prestare il loro servizio e furono sostituiti da altri ordini religiosi, che svolgevano il loro ministero alle condizioni imposte dall’abate commendatario.

Nel 1491 per decisione di re Ferdinando II e con l’approvazione di papa Innocenzo VIII, l’abbazia con i suoi beni fu concessa all’Ospedale Grande di Palermo, che ne divenne feudatario(16). Si trattò di una decisione sciagurata, che impedì a Bronte ogni possibilità di sviluppo e pose i suoi cittadini nella condizione degli antichi servi della gleba con molti doveri e pochi diritti.

Bronte, a conclusione di questo lungo e tortuoso percorso, si trovò in una condizione di grave disagio dal punto di vista dell’ordinamento civile e religioso. Nelle relazioni che i vescovi di Monreale presentavano a Roma troviamo due rilievi costanti sul suo stato:
a) l’eccessiva distanza del centro abitato e i pericoli derivanti dalle strade scoscese, infestate dai briganti, non permet­tevano ai vescovi di visitarlo con regolarità;
b) la povertà dei suoi abitanti condizionava anche le istituzioni.

Per la visita pastorale i vescovi solitamente inviavano un delegato che, non essendo vescovo, non poteva amministrare il sacramento della cresima e conferire gli ordini sacri. Per assicurare ai cittadini di Bronte questi servizi era necessario rivolgersi ai vescovi vicini. Nel 1640 Cosmo de Torres invitò il vescovo di Patti. Nel 1680 Giovanni Roano invitò il vescovo di Messina, che cresimò oltre 4.000 fedeli.

Nel 1663 Ludovico de los Cameros, quasi per farsene un vanto, scriveva a Roma che aveva visitato personalmente le zone più remote della sua diocesi (Bronte e San Marco), che da oltre cinquant’anni non vedevano il volto del loro pastore.

La distanza non creava difficoltà solo al vescovo, ma anche al clero e ai fedeli di Bronte, che si trovavano nella impos­sibilità di esporre i propri problemi e di sperare che il vescovo li affrontasse e risolvesse in tempi ragionevoli. Il governo pastorale era affidato a persone più illuminate del clero locale, formate nel seminario di Monreale, alle quali il vescovo conferiva le opportune facoltà.

Ludovico Torres, nella prima relazione del 1591, informa il papa che dopo la sua nomina si era affrettato a istituire il seminario. Seguendo le norme del Concilio di Trento, aveva imposto a tutti gli enti ecclesiastici della diocesi un tributo per il suo mantenimento. L’ospedale di Palermo si rifiutava di versare la quota stabilita, nonostante la presenza in seminario di tre giovani di Bronte.
In seguito ad una sua formale richiesta alla Congregazione, il vescovo ottenne che gli amministratori dell’ospedale si assumessero le proprie responsabilità per il bene del centro abitato di cui erano feudatari. Nella relazione del vescovo leggiamo i nomi dei tre seminaristi: Filippo Giangreco, Vincenzo Saccullo, Antonio Stancanella, che negli anni successivi ricoprirono nella comunità di Bronte uffici di responsabilità.

Nel regime feudale di solito era il feudatario a farsi carico delle principali necessità dei propri sudditi, fra le quali era compreso il mantenimento dei sacerdoti destinati alla cura delle anime.

Nel 1653 il vescovo Francesco Poretto scrive che l’ospedale di Palermo non provvedeva al servizio prestato dal clero nella chiesa madre per la cura delle anime; ogni famiglia versava annualmente 3 tarì alla cassa della comunìa per assicurarsi i servizi funebri; altri modesti introiti provenivano dai legati di messe; nel 1734 Alvaro Cienfuegos riferisce che a Bronte le chiese non avevano benefici; i sacerdoti svolgevano il loro servizio non per interesse ma per devozione.

Nonostante le condizioni di povertà, i vescovi esprimono giudizi positivi sul ministero svolto dai sacerdoti e sullo stato delle chiese.

Nel 1597 Ludovico Torres faceva notare che nel servizio dell’abbazia di Maniace i frati di S. Francesco di Paola lasciavano molto a desiderare e propose che fossero sostituiti da due sacerdoti del clero di Bronte, che avevano ricevuto nel seminario di Monreale una buona formazione, ma avevano proventi modesti. Inoltre propose che le somme versate dall’ospedale di Palermo ai frati, come distribuzione quotidiana, fossero date ai sacerdoti di Bronte, che recitavano nella chiesa madre le ore canoniche. Nel 1706 il vescovo Francesco Del Giudice scriveva che a Bronte le chiese, anche se poverissime, profumavano di un dignitoso splendore.

Le condizioni disagiate della popolazione di Bronte non impedirono la sua crescita. Nella relazione del 1591 il vescovo scriveva che Bronte aveva una popolazione di 3.000 abitanti. Tre anni dopo gli abitanti diventarono 4.468; un aumento che si può spiegare solo con l’immi­grazione di famiglie da altri centri abitati.

Dopo circa cinquant’anni, nel 1640, la popolazione raggiunse i 13.000 abitanti: il numero più elevato che troviamo in queste fonti storiche. Ma negli anni 1651-1654 una disastrosa eruzione dell’Etna devastò il territorio di Bronte, alla quale si aggiunse una pestilenza, e la popolazione subì un notevole ridimensionamento: il vescovo nella sua relazione scrive che gli abitanti si erano ridotti a 7.000.

Solo nel 1734 raggiun­ge­ranno un’altra volta i 12.000 per scendere negli anni successivi intorno ai 10.000. Queste oscillazioni del numero degli abitanti sono stretta­mente collegate ai cambiamenti che si verificavano nell’economia e nelle condizioni ambientali: bastava un’eruzione dell’Etna, un’epi­demia, una crisi nelle produzioni agricole per obbligare gli abitanti a spostarsi nei luoghi in cui potevano sperare in migliori condizioni di vita.

Dai dati riferiti dai vescovi nelle relazioni siamo in grado di descrivere l’ordinamento religioso di questo popolo. Le autorità religiose che avevano cura della popolazione di Bronte erano due: il vicario foraneo che faceva le veci del vescovo, e l’arciprete o parroco che esercitava la cura delle anime. Il vicario disponeva di una piccola curia con il personale idoneo per governare la comunità cristiana di Bronte e per ammi­nistrare la giustizia sui chierici e sui laici relativamente ai reati di competenza del vescovo. Infatti le trasgressioni riguardanti la pubblica moralità erano perseguite dal vescovo, che conferiva al vicario i necessari poteri per individuare e punire i colpevoli(17).

L’arciprete o parroco esercitava la cura delle anime coadiuvato da una comunìa, cioè da un collegio di sacerdoti che a turno amministravano i sacra­menti nella chiesa madre, assistevano i malati e i moribondi e recitavano le ore canoniche in chiesa(18).
Il numero dei membri di questa comunìa nelle relazioni dei vescovi oscilla fra i 34 del 1653 e i 24 del 1734 e 1738. Contrariamente a quanto avvenne in altri centri abitati, a Bronte questa comunìa non si trasformò in collegiata e i suoi membri non furono mai chiamati canonici. A partire dalla relazione del 1738 risulta che la cura delle anime veniva anche esercitata da due coadiutori dell’arciprete nella chiesa filiale del Rosario, che tuttavia non aveva il fonte battesimale.

Altri sacerdoti svolgevano il ministero nelle numerose chiese urbane e rurali. Il numero totale dei sacerdoti e dei chierici era molto elevato rispetto agli abitanti: nel 1681 il vescovo scriveva che c’erano complessivamente 90 ecclesiastici (cioè sessanta sacerdoti e 30 chierici). A questi bisognava aggiungere i 20 sacerdoti dei due conventi dei Frati minori e dei Cappuccini e i 3 dell’Oratorio di S. Filippo Neri nella casa attigua alla chiesa S. Maria della Catena.

Nella relazione del 1706 il vescovo Francesco Del Giudice informava che dopo il terremoto del 1693 da Maniace si era trasferita a Bronte la comunità religiosa dei Basiliani in un edificio attiguo alla chiesa di S. Blandano.

Oltre la chiesa madre, all’interno del centro abitato sorgevano altre chiese aperte al culto: l’Annunziata, S. Giovanni Evangelista. S. Maria del Soccorso, S. Maria dell’Astinenza (successivamente sarà chiamata Santa Maria del Rosario), S. Sebastiano, S. Rocco (nel sito dell’attuale chiesa del Sacro Cuore), S. Silvestro, S. Blandano, Santa Caterina, Santa Maria della Catena e le due chiese annesse ai conventi francescani: S. Felice da Cantalice e S. Vito.

La chiesa dell’Annunziata potrebbe costituire un ulteriore legame fra gli abitanti di Bronte e di Longi. Infatti anche in questo comune dei Nebrodi esiste un gruppo marmoreo dell’Annunziata della scuola di Antonello Gagini(19). A Longi giunse nel 1536, a Bronte nel 1543(20). Si può formulare l’ipotesi di una iniziativa parallela, nata dalla devozione all’Annunziata di popolazioni consapevoli dei vincoli che le univano.

Veduta odierna dell'antico Casale di Placa BaianaLe dieci chiese rurali sparse nelle diverse contrade costituivano gli ultimi resti degli antichi casali, i cui abitanti si erano trasferiti man mano a Bronte(21). Nel casale di Placa Baiana, ancora abitato fino al 1756, c’era la chiesa di S. Michele, officiata da un sacerdote di Bronte. Il vescovo Francesco Testa scriveva che nel villaggio erano rimasti solo 9 abitanti; gli altri si erano trasferiti a Bronte a causa dell’aria malsana o malaria.

Questa notizia è interessante, perché ci informa che fino alla metà del Settecento le persone che vivevano vicino al fiume avvertivano ancora la necessità di trasferirsi a Bronte per allontanarsi dalle zone malariche.

Nell’ordinamento religioso di un centro abitato avevano un posto di rilievo le confraternite laicali, che costituivano un importate luogo di formazione e di aggregazione(22).

I soci si riunivano di frequente per essere istruiti e per celebrare il culto; inoltre prestavano il mutuo soccorso secondo le modalità previste dagli statuti. Nella relazione del 1653 troviamo il loro elenco: SS. Sacramento alla chiesa madre, Santa Maria dell’Astinenza (poi del Rosario), Santa Maria della Catena, S. Giovanni Evangelista, Santa Maria del Soccorso. A queste bisognava aggiungere altre associazioni minori e i terzi ordini operanti nelle due chiese francescane.

Nella relazione scritta dal vescovo Alvaro Cienfuegos nel 1734 si aggiunge a queste la confraternita della Misericordia nella chiesa di S. Rocco e viene riferita una notizia interessante: la confraternita che aveva sede alla chiesa di S. Maria dell’Astinenza era stata fondata dal p. Luigi La Nuza, un gesuita vissuto nella prima metà del Seicento, conosciuto in tutta la Sicilia come promotore delle missioni popolari(23).
Da questo dato possiamo dedurre che anche a Bronte si tenevano con regolarità le missioni popolari, una pratica che durava anche settimane e coinvolgeva tutta la popolazione del paese.

Bronte, nonostante la povertà dei suoi abitanti, non senza difficoltà si era date alcune strutture considerate necessarie per la società del tempo: l’ospedale, i legati di maritaggio per le ragazze povere, una casa che ospitava donne senza dote, un monastero femminile.

Di queste quatto istituzioni, l’ospedale riguardava tutti i cittadini, le altre tre avevano per oggetto solo le donne. Data la condizione di dipen­denza in cui si trovava la donna nella società del tempo, si avvertiva il bisogno di creare degli antidoti sociali per alleviare in qualche modo il suo disagio.

L’inserimento nella società passava attraverso il matrimonio, per il quale era richiesta la dote. Si comprende allora l’istituzione dei legati di maritaggio per aiutare le ragazze senza dote a raggiungere questa meta. Se la via del matrimonio era preclusa si offriva la possibilità del monastero o di una convivenza esclusiva più aperta.

Nella prima relazione del 1591 il vescovo scriveva che si era incominciato a costruire l’ospedale; di esso per tutto il Seicento non abbiamo altre notizie. A distanza di oltre un secolo, nella relazione del 1706, il vescovo Francesco Del Giudice scrive che era stato fondato un nuovo ospedale e quanto pri­ma sarebbe stato portato a compimento. Lo troviamo funzionante nella relazione del 1734 e leggiamo che era intitolato alla Madonna della Scala(24).

Ai legati di maritaggio si accenna per la prima volta nel 1653, nella relazione del vescovo Francesco Poretto. L’eruzione dell’Etna di quegli anni aveva distrutto i terreni dai quali si ricavavano le rendite per costituire le doti. Il vescovo si era adoperato per verificare se qualcosa si era salvato.

La notizia che leggiamo nella relazione del 1734 sembra riferirsi ad una iniziativa successiva. Un certo Giuseppe Papotto aveva lasciato per testamento la somma di 1.000 ducati d’oro per costituire legati di maritaggio in favore delle ragazze orfane.

Per la poca diligenza nell’ese­guire le disposizioni testamentarie del donatore si rischiava di perdere tutto, ma il vescovo era riuscito a recuperare le somme necessarie per costituire 12 legati di venticinque ducati d’oro ciascuno e conferirli ad alcune parenti del benefattore.

La costruzione del monastero benedettino femminile, che sarebbe stato intitolato a Santa Scolastica, sembra fosse iniziata intorno al 1623. Infatti il vescovo Ludovico de los Cameros, scrive nel 1663 che da circa quarant’anni si era iniziato a costruire un edificio destinato a diventare un monastero femminile. Il vescovo si apprestava a chiedere il nulla osta per la sua istituzione dopo aver verificato la funzionalità dell’edificio, ospitando per qualche tempo alcune ragazze orfane. Quattro anni dopo lo stesso vescovo scrive che il monastero era stato eretto e inaugurato.

Nel 1734 ospitava 29 monache professe, 4 novizie, 3 educande e 3 converse. Nel 1738 le monache erano 25 e le converse 3; tre anni più tardi il numero delle monache era sceso a 20, quello delle converse era salito a 5. Il monastero sorgeva a fianco della chiesa di S. Silvestro(25).

Chiesa di S. Silvestro e Monastero di Santa Scolastica nei primi anni del 1900Nel 1681 il vescovo Giovanni Roano scriveva che a Bronte c’era una casa per accogliere ragazze prive di dote, che preferivano la vita comune ai pericoli del mondo. Poiché non si hanno altre notizie su questa istituzione, si può avanzare l’ipotesi che si trattasse di una iniziativa temporanea.

Le relazioni ad limina presentate dai vescovi di Monreale come fonte storica di Bronte si chiudono con quelle del vescovo Francesco Testa, che morì nel 1773.

Infatti nel 1775 i Borboni, per poter disporre del ricco patrimonio della chiesa di Monreale, chiesero e ottennero dal papa che la diocesi fosse unita a quella di Palermo(26).

Bronte nella prima metà dell’Ottocento appartenne a quattro diocesi diverse: dopo essere stata distaccata dalla diocesi di Monreale rientrò nei confini della diocesi di Messina (1802), poi passò a Nicosia (1818) e infine a Catania (1844).
Questa circostanza spiega la difficoltà di ricorrere alle relazioni ad limina per avere notizie su alcune istituzioni sorte dopo il 1775: il Collegio Capizzi e il Collegio di Maria. Mi limito a fare qualche considerazione generale su queste istituzioni, che hanno contribuito in modo rilevante per formare l’identità del popolo di Bronte.

Nella Sicilia borbonica solo alla fine del Settecento si incominciò a porre il problema dell’istruzione pubblica per tutti i cittadini. Le prime iniziative non portarono a grandi risultati se si considera la bassa percentuale delle persone che sapevano leggere e scrivere(27).

Alle carenze delle istituzioni pubbliche supplivano i privati. A volte nelle chiese o nella case dei religiosi si impartiva l’istruzione primaria a gruppi di ragazzi, nella prospettiva di avviarli al sacerdozio o alla vita religiosa.
A Bronte una di queste scuole era tenuta dai sacerdoti dell’Oratorio nei locali attigui alla chiesa Santa Maria della Catena. Questa scuola nel 1718 fu frequentata dal giovane Ignazio Capizzi, che aspirava a diventare sacerdote.
Quando, dopo molte traversie, realizzò questa sua vocazione e avviò un fecondo ministero a Palermo, p. Capizzi non dimenticò il suo paese di origine e nel 1759 decise di erigere un collegio per offrire ai giovani di Bronte l’opportunità di istruirsi(28).Il Collegio di Maria per l’istruzione delle ragazze, in un disegno di fine '800

Si trattava di una iniziativa privata, come era privata quella dei fratelli Scafiti e dell’arci­prete Vincenzo Uccellatore, che nel 1778 decisero di fondare il Collegio di Maria per l’istru­zione delle ragazze(29).

L’iniziativa dei fratelli Scafiti e dell’arciprete Uccellatore faceva seguito a quella avviata nella Sicilia occidentale molti anni prima da vescovi e feudatari. Il primo Collegio di Maria siciliano era stato fondato a Palermo nel 1721. A partire da quella data ne erano sorti tanti altri nelle diverse città della Sicilia.
Si trattava di una istituzione che assicurava gratuitamente alle ragazze povere l’istruzione di base e l’insegnamento delle arti femminili (taglio, cucito, ricamo)(30).

Questa istituzione, che per oltre un secolo aveva svolto in Sicilia un servizio meritorio di supplenza, entrò in crisi dopo l’unità d’Italia, quando lo Stato decise di istituire le scuole pubbliche in tutti i comuni e avviò una politica vessatoria nei confronti dei Collegi di Maria, considerati un relitto dell’antico regime, perché promotori di una scuola privata e confessionale; volendo affermare un modello di scuola pubblica e laica decise di sopprimere queste istituzioni(31).
A Bronte il Collegio di Maria, per l’azione determinante del vescovo Giuseppe Benedetto Dusmet, riuscì ad evitare la soppressione e ad avviare la propria attività nel 1881, quando il modello originario era stato ormai superato e si cercava una nuova identità per adeguarsi alle nuove leggi dello Stato. Questa nuova identità fu data dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, chiamate dallo stesso vescovo Dusmet, come informa nella sua relazione presentata a Roma nel 1881(32).


Conclusione

A conclusione di questa indagine necessariamente generale e sintetica potremmo interrogarci sull’utilità di ripercorrere all’indietro la nostra storia, in un arido elenco di avvenimenti, di personaggi e di date. Il mondo che abbiamo rievocato potrebbe essere considerato lontano dalle nostre persone e dalla nostra sensibilità, del tutto ininfluente sui problemi del nostro tempo.

A ben riflettere, invece, tutti siamo il frutto di questo passato che rimane scritto in modo indelebile in ognuno di noi. I limiti della conoscenza e della memoria non possono mettere in discussione l’incidenza che ha nella formazione della nostra personale identità il patrimonio genetico, antropologico e storico; è proprio la storia che ci aiuta a superare questi limiti.

Abbiamo visto che Bronte si è formato per il progressivo accrescimento di una popolazione di diversa provenienza. Dobbiamo considerare questa diversità una fonte di ricchezza. Le persone provenienti da Longi, Tortorici, Maniace e da altri centri abitati dei Nebrodi avevano una propria identità, ma nel corso dei secoli formarono man mano il popolo di Bronte. Questa nuova identità fu costituita attorno alla chiesa madre, che simbolicamente rappresenta tutte le istituzioni nella loro opera di aggregazione e di formazione.

Le condizioni ambientali e il particolare ordinamento in cui venne a trovarsi questa popolazione, ne determinarono la natura e il temperamento: le eruzioni dell’Etna, le epidemie, la povertà dovuta anche al rapporto oppressivo con l’Ospedale Grande di Palermo, l’eccessiva lontananza dalla città capoluogo della diocesi hanno influito a creare un carattere allo stesso tempo forte, autonomo e operoso.

Se nel passato la popolazione di Bronte fu costretta a vivere in una sorta di autarchia e in condizione di forzato isolamento, oggi può far valere le particolari doti della sua indole in un confronto rispettoso e arricchente con le altre popolazioni del territorio. È l’augurio che da brontese faccio ai miei concittadini a conclusione di questo nostro incontro.

Adolfo Longhitano
18 Marzo 2012




NOTE

1) Per le notizie storiche di Bronte faccio riferimento ai lavori di B. Radice, Memorie storiche di Bronte", ristampa, Bronte 1984; G. Lo Giudice, Comunità rurali della Sicilia moderna: Bronte (1747-1853), Catania 1969; V. Pappalardo, La Corte Spirituale di Bronte. La vigilanza ecclesiastica sulle piaghe familiari e sociali nei secoli XVIII e XIX, Soveria Mannelli 1993.

2) R. Pirri, Sicilia Sacra, Panormi 1733, 1258-1259; L. T. WHITE JR., Il monachesimo latino nella Sicilia normanna, trad. it., Catania 1984, 222-227.

3) B. Radice, Memorie storiche di Bronte, cit., 39.

4) «Rationes decimarum Italiae» nei secoli XIII e XIV. Sicilia, a cura di P. Sella, Città del Vaticano 1944, n. 768, 62.

5) U Rizzitano, La conquista musulmana, in Storia della Sicilia, diretta da R. Romeo, III, Napoli 1980, 97-176; M. Scaduto, Il monachesimo basiliano nella Sicilia medievale: rinascita e decadenza sec. XI-XIV, Roma 1982.

6) S. Tramontana, La Sicilia dall’insediamento normanno al Vespro (1061-1282), ivi, 177-304.

7) D. Milazzo, Le influenze galloitaliche nel dialetto brontese, https://www.bronteinsieme.it/7tr/vocabolario_05a.htm

8) L’ipotesi che Bronte abbia avuto origine da Maniace è avanzata dal vescovo di Monreale Alvaro Cienfuegos nella sua relazione ad limina del 1734, che afferma di rifarsi ad un’antica tradizione: «Bronte, centro abitato non molto esteso ma ricco di abitanti, è di origine antichissima ma incerta. Se dobbiamo credere alla tradizione, la residua popolazione della distrutta città di Maniace si stabilì nel suddetto rilievo montuoso come un bastione fortificato». Il vescovo probabilmente fa propria l’opinione degli storici riferita da B. Radice, Memorie storiche di Bronte, cit., 107-110.

9) https://www.bronteinsieme.it/7tr/vocabolario_peculiarita.htm

10) https://www.bronteinsieme.it/2st/Genealogie/genealogie_10.html

11) B. Radice, Memorie storiche di Bronte, cit., 48-51.

12) Le relazioni della diocesi di Monreale, che interessano anche il comune di Bronte, sono conservate nell’Archivio Segreto Vaticano, fondo Relationes dioecesium, 547 A-B-C. Non mi risulta che questa fonte storica sia stata utilizzata da coloro che si sono occupati della storia di Bronte.

13) Solo nel 1799, pochi anni prima che il regime feudale fosse abolito, Ferdinando IV nominò Orazio Nelson Duca di Bronte, concedendogli l’antico feudo dell’abbazia di Maniace (B. Radice, Memorie storiche di Bronte, cit., 339-356).

14) R. Pirri, Sicilia Sacra, cit., 451-460; 1199-1201; L.T. White, Il monachesimo latino nella Sicilia normanna, trad. it., Catania 1984, 203-227; S. Fodale, Fondazioni e rifondazioni episcopali da Ruggero I a Guglielmo II, Chiesa e società in Sicilia. L’età normanna, a cura di G. Zito, Torino 1995, 51-61.

15) Uno degli ultimi commendatari fu il card. Rodrigo Borgia, eletto papa nel 1492 con il nome di Alessandro VI (R. Pirri, Sicilia Sacra, cit., 1262).

16) Ivi, 1262-1263.

17) A. Longhitano, La parrocchia nella diocesi di Catania prima e dopo il Concilio di Trento, Palermo 1977, 36-38.

18) Per i diversi modelli di comunìa esistenti nelle chiese di Sicilia si veda il mio studio: Adolfo Longhitano, La “comunia” nell’aria nissena: modello giuridico e finalità pastorali, in Synaxis 15 (1997) 283-310.

19) http://www.comunelongi.it/?page_id=43&preview=true

20) https://www.bronteinsieme.it/1mo/ch_1a.html

21) Questo è l’elenco delle chiese: S. Leonardo, Santa Maria delle Grazie, S. Giorgio, S. Salvatore, Santa Maria della Vena, S. Marco, S. Isidoro, S. Nicola, S. Pietro. S. Michele.

22) «Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna». Seminario di ricerca, in Synaxis 17 (1999) 191-362.

23) A. Guidetti, Le missioni popolari. I grandi gesuiti italiani, Milano 1988, 93-95.

24) https://www.bronteinsieme.it/2st/ospedale.html

25) https://www.bronteinsieme.it/1mo/ch_9.html

26) G. Zito, Storia delle Chiese di Sicilia, Città del Vaticano 2009, 528-548.

27) G. Bonetta, Istruzione e società nella Sicilia dell’Ottocento, Palermo 1981.

28) https://www.bronteinsieme.it/3pe/capz_1.html; https://www.bronteinsieme.it/1mo/mon_cpz.html

29) http://www.bronteinsieme.it/1mo/altri8.htm

30) V. Venditti, Il cardinale Corradini e i Collegi di Maria, Sezze 1963; S. Cucinotta, Sicilia e siciliani. Dalle riforme borboniche al “rivolgimento” piemontese. Soppressioni, Messina 1996, 203-300.

31) L. Caminiti, Educare per amore di Dio. I Collegi di Maria fra Stato e Chiesa, Soveria Mannelli 2005.

32) A. Longhitano, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1595-1890), Firenze-Catania 2009, 807.

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