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Il gruppo marmoreo dell’Annunziata di Bronte Relazione tenuta da Mons. Adolfo Longhitano in occasione della presentazione del progetto di restauro del gruppo marmoreo dell'Annunciazione di Antonino Gagini e dell'arco rinascimentale dell'altare maggiore, avvenuta nella Chiesa dell'Annunziata il 23 Marzo 2019. 1. Ritorno sempre con piacere nel mio paese di origine, dove sono nato e ho trascorso la mia infanzia, e ringrazio padre Nunzio Capizzi per l’opportunità che mi offre di tanto in tanto con i suoi inviti di occuparmi della storia di Bronte. Il tema che devo affrontare questa sera riguarda il gruppo marmoreo dell’Annunziata, che si venera in questa chiesa. Dobbiamo interrogarci sull’autore, su coloro che lo hanno commissionato e pagato e sulle circostanze del suo arrivo a Bronte da Palermo, dove operava la scuola della famiglia Gagini. Per sviluppare questo tema lasciamo da parte le leggende popolari e facciamo riferimento ai documenti storici. Le nostre riflessioni ci permetteranno di giungere a delle conclusioni certe e a formulare delle ipotesi fondate, quando i documenti non sono in grado di darci delle certezze. Il documento dal quale dobbiamo avviare la nostra conversazione è il contratto stipulato il 21 gennaio 1540 tra il committente del gruppo marmoreo dell’Annunziata, il brontese Nicola Spitaleri, e lo scultore in marmo Antonino Gagini, cittadino di Palermo. Benedetto Radice, nelle sue Memorie storiche di Bronte, ha pubblicato il testo latino di questo contratto. Nel 2004 la sua traduzione italiana è stata messa in rete nel sito internet Bronteinsieme da Bruno Spedalieri con una nota di commento. 2. Antonino Gagini, che firma il contratto, non può essere identificato con Antonello Gagini, figlio di Domenico (1420 1425 – 1492), capostipite della famiglia di architetti e di scultori, che da Bissone sul lago di Lugano nel secolo XV si trasferì prima a Genova e poi in Sicilia. Infatti Antonello Gagini, che era nato a Palermo nel 1476, morì nella stessa città nel 1536, quattro anni prima della firma del contratto che stiamo analizzando. 3. Nel contratto, come committente dell’opera, viene indicato il brontese Nicola Spitaleri, definito nobile. Si tratta di un’affermazione di compiacenza, perché nei repertori della nobiltà del tempo non si trova la famiglia Spitaleri. Inoltre in quel periodo storico a Bronte non c’erano famiglie nobili, perché Bronte non era una terra feudale autonoma, amministrata da una famiglia. Nel Valdemone c’erano il principe di Paternò, il Conte di Adernò, il Duca di Randazzo, ma non troviamo il barone o il marchese di Bronte, perché Bronte era parte di un feudo, intitolato all’abbazia Santa Maria di Maniace e concesso nel 1485 dal re di Spagna Ferdinando II all’Ospedale grande di Palermo, città in cui risiedevano gli amministratori del feudo. A Bronte c’erano persone delegate a svolgere funzioni limitate: riscuotere le tasse e assicurare i servizi essenziali; la giustizia civile e penale veniva esercitata dal Duca di Randazzo. Pertanto né gli amministratori di Palermo, né i loro delegati di Bronte potevano ritenersi titolari del feudo e fregiarsi di un titolo nobiliare. Solo nel 1799, quando Ferdinando III di Borbone concederà il feudo all’ammiraglio Nelson, Bronte diventerà un ducato e Nelson si potrà presentare come Duca di Bronte. 4. Anche se Nicola Spitaleri non era un nobile, firmava a titolo personale o per incarico di altri? Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo farci un’idea del valore della somma pattuita: oggi a quanto corrispondono le 48 onze richieste per eseguire e consegnare il gruppo marmoreo dell’Annunziata? Non è facile stabilire la corrispondenza esatta tra le antiche monete siciliane e gli euro dei nostri giorni. Bruno Spedalieri su Bronteinsieme riprende l’intuizione di Benedetto Radice e fa un ragionamento accettabile: partendo dal dato che Carlo V pagava agli operai brontesi un tarì al giorno per lavorare nelle fortificazioni di Catania, deduce che 48 onze corrispondevano a circa 5 anni di lavoro di un operaio. Non comprendiamo però le conclusioni alle quali egli giunge: «La somma di denaro, che Spitaleri pagò per la scultura e la compera delle statue... rappresentava a quell’epoca una vera fortuna... grosso modo 140 milioni d’oggi... una somma ingente». Leggendo queste affermazioni il lettore si chiede: a qual moneta si riferisce l’autore: la lira o l’euro? Poiché su Bronteinsieme lo scritto porta la data del 2004, quando già la moneta corrente era l’euro, dovremmo concludere che 48 onze corrispondevano a 140 milioni di euro, una cifra spropositata e inverosimile. Se invece, come appare più probabile, egli intendeva riferirsi alla lira, la conclusione può avere un qualche fondamento, perché in questo caso le 48 onze corrispondono a circa 72.000 euro o poco più. 5. Cerchiamo ora di individuare chi pagò questa somma. Benedetto Radice scrive che «le statue furono commesse per conto del comune». Il linguaggio adoperato è improprio, perché Bronte divenne comune dopo il 1812, in seguito all’abolizione della feudalità. Nel 1540 il comune di oggi corrispondeva alla “terra feudale”. Ma, come ho già detto, Bronte non era terra feudale autonoma, ma porzione del feudo denominato “Santa Maria di Maniace” e amministrato dall’Ospedale grande di Palermo. Comunque gli amministratori dell’ospedale non avevano né l’interesse, né la facoltà di spendere la somma indicata nel contratto per l’acquisto del gruppo marmoreo dell’Annunziata. Visto che l’opera non poteva essere finanziata dagli amministratori dell’ospedale, Bruno Spedalieri sostiene che fu pagata da Nicola Spitaleri di tasca sua. Egli però suggerisce di correggere il documento: dove c’è scritto “Spitaleri”, si deve leggere “Spedalieri” che — secondo il suo punto di vista — è la forma corretta di questo cognome. In sostanza egli considera Nicola Spitaleri un proprio antenato e ha tutto l’interesse di descriverlo come il benefattore, che donò a Bronte il gruppo marmoreo dell’Annunziata. A questo punto si pone la domanda: chi era Nicola Spitaleri? Possiamo dare una risposta a questa domanda spiegando il significato del suo cognome. 6. Fra le tante ricerche delle quali si occupa la storia, c’è anche quella sull’origine dei cognomi, che cominciano ad affermarsi in epoca medievale. Se escludiamo le famiglie nobili che avevano un cognome o un titolo proprio, per il popolo si avvertì la necessità di trovare un criterio di distinzione per le persone che portavano lo stesso nome di battesimo. I percorsi seguiti dal processo di formazione dei cognomi sono diversi. Quello più antico e più diffuso in Europa faceva riferimento al padre o alla madre: Di Stefano, Di Mauro, Della Francesca; cioè figlio di Stefano, di Mauro o di Francesca. In alcuni casi il cognome indica la provenienza: Catalano, Toscano, Romano, Calabrese, oppure il mestiere: Sarto, Barbieri, Ferraro, Cavallaro, Vaccaro. È frequente il riferimento a caratteristiche fisiche: Longo, Basso, Grasso, Magro, Mancino, Gambacorta. Non vanno trascurate le specificazioni che servivano a distinguere i trovatelli: Esposito, Trovato, Proietto, Incognito, Diolosà, Diotallevi. Nel nostro caso il cognome Spitaleri proviene dal termine latino Hospitale, che inizialmente indicava un locale per accogliere gli ospiti. Nel latino della decadenza passò a significare il luogo in cui si ricoveravano i malati. Il siciliano “Spitaleri” è l’equivalente dell’italiano “ospedaliero”, un aggettivo che fa riferimento all’ospedale. La forma più antica e originale del cognome è quella riportata nel contratto: “Spitaleri”. Successivamente è stata italianizzata in “Spedalieri” (ricordiamo il più conosciuto Nicola Spedalieri, morto nel 1795), ma si tratta dello stesso cognome. Spitaleri o Spedalieri indica una persona che lavorava in ospedale o per conto dell’ospedale. Considerato che a Bronte in quel periodo non esisteva ancora un ospedale, il riferimento dovrebbe riguardare l’Ospedale grande di Palermo, che esercitava i diritti feudali sul centro abitato e sul territorio di Bronte. In sostanza si trattava di persone che lavoravano per conto dell’ospedale. Se il loro lavoro consisteva nel riscuotere i pagamenti dovuti dai cittadini di Bronte all’ospedale, si trattava di gente che godeva di un certo prestigio e aveva una certa disponibilità di denaro; ma la cifra di 48 onze era abbastanza elevata per essere versata da una sola famiglia. Sembra più verosimile che Nicola Spitaleri, come persona conosciuta e di un certo riguardo per il ruolo che svolgeva, abbia firmato il contratto con il Gagini come rappresentante dei cittadini di Bronte, impegnandosi a versare una somma raccolta tra le famiglie più abbienti. Ma a metà del Cinquecento come era composta la popolazione di Bronte? 7. La risposta a questa domanda è particolarmente interessante, perché ci permette di individuare le nostre radici in un momento cruciale della storia di Bronte. Il documento più antico da me conosciuto, che attesta l’esistenza di Bronte e l’identità dei suoi abitanti, è del 1308: negli elenchi di coloro che riscuotevano i tributi per conto del papa leggiamo questa affermazione: «Il sacerdote Nicola di rito greco, del casale di Bronte, pagò 6 tarì». Era una situazione abbastanza diffusa sui Nebrodi e sui Peloritani. Basti pensare ai diversi monasteri basiliani, che i Normanni trovarono nella zona quando liberarono la Sicilia dalla dominazione islamica. A questo primo nucleo di cattolici di rito greco se ne aggiunsero man mano altri provenienti dai comuni dei Nebrodi. Il territorio in cui sorgeva Bronte era caratterizzato dalla presenza di numerosi casali: Rotolo, Corvo, San Leone, Santa Venera, Bolo, Placa Baiana. Come sappiamo, nel 1535 l’imperatore Carlo V in una sua visita a Randazzo, costatando le difficoltà incontrate dai magistrati locali per amministrare la giustizia su una popolazione frazionata in tanti piccoli centri abitati, ordinò che tutti gli abitanti dei casali esistenti nel territorio già appartenente all’abbazia di Maniace si trasferissero a Bronte. Il provvedimento di Carlo V determinò un cambiamento repentino e radicale: Bronte da piccolo casale si trasformò in un centro abitato più popoloso, che accolse famiglie di diversa provenienza. Questa trasformazione non ebbe alcuna influenza sul suo ordinamento giuridico, perché non divenne una terra feudale autonoma: era e rimase la porzione di un feudo, i cui amministratori risiedevano a Palermo. 8. Anche in questo caso l’analisi dei cognomi può fornirci qualche indicazione utile per conoscere l’identità della popolazione brontese. A Bronte il cognome più diffuso è Longhitano, che nei registri di battesimo più antichi della chiesa madre è scritto “Longitano”, cioè preveniente da Longi, un comune ancora esistente sui Nebrodi. Questo ci induce ad affermare che una parte consistente degli abitanti confluiti a Bronte, in seguito alla disposizione di Carlo V, proveniva da Longi. Proprio in questo comune si trova un gruppo marmoreo dell’Annunziata della scuola del Gagini, giunto a Longi nel 1536, l’anno successivo alla decisione di Carlo V di riunire a Bronte gli abitanti dei casali sparsi nel territorio e quattro anni prima della data del contratto stipulato da Nicola Spitaleri. Queste circostanze ci inducono a formulare l’ipotesi di una iniziativa quasi parallela: gli abitanti oriundi da Longi probabilmente convinsero il resto della popolazione brontese ad acquistare un gruppo marmoreo simile a quello che pochi anni prima era giunto nel paese da cui provenivano. Si tratterebbe perciò di una iniziativa decisa dal popolo e dalle famiglie più influenti, fra le quali c’era anche la famiglia Spitaleri. 9. Fra i dettagli del contratto possiamo limitarci a indicare il percorso che avrebbe dovuto seguire il gruppo marmoreo per essere trasportato a Bronte e la data della consegna. 10. Nelle condizioni culturali di quel periodo storico il culto dei santi era uno degli elementi costitutivi dell’identità di un popolo. Se si tiene presente che la popolazione di Bronte era formata da gruppi di famiglie di diversa provenienza e cultura, il culto alla Madonna Annunziata aiutò la loro aggregazione e la formazione di una propria identità. Adolfo Longhitano 23 Marzo 2019 |
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