7. La Gran lite
«La storia di Bronte non è che la storia della sua lite, durata più di trecento anni, dal 1554 al 1861. Tesserne le vicende sarebbe ufficio più di avvocato che di storico: ma all’intelligenza della secolare lotta per la sua libertà, per i suoi usi civici nei feudi delle due abazie, dirò brevemente come questi vennero usurpati dal Grande e Nuovo Ospedale di Palermo pria, e poscia dal Nelson.» Così introduce l’argomento il Radice proseguendo,quindi, con l’indicare le tre questioni dalle quali ebbe origine la grande lite e che sono: 1) Bronte esisteva prima dell’abazia di S. Maria di Maniace? 2) L’abazia di S. Maria di Maniace fu dotata, come riccamente furono dotati dai re normanni altre chiese e conventi? 3) Godeva l’abazia solamente le decime ecclesiastiche donate dall’arcivescovo Nicolò I di Messina e il prodotto dei possedimenti delle chiese donate? Al primo quesito il Radice risponde affermativamente in base ai reperti archeologici e al privilegio normanno del 1094, che è anteriore alla nascita dell’abazia che è del 1174, nel quale compare il nome di Bronte “nella forma composta Brontimene"(4), designato come confine. La risposta al secondo quesito è dubbia in quanto mancano i documenti originari, ma diplomi posteriori affermano che l’abazia di Maniace era stata dotata dei loro predecessori, «ma in che consistesse questa donazione è rimasta sempre un’incognita» soggiunge il Radice, che risponde al terzo quesito affermando che l’unione dell’abazia di S. Filippo di Fragalà con l’abazia di Maniace “conferma l’ idea che l’abazia di Maniace non era stata riccamente dotata, ma viveva delle sole decime ecclesiastiche, che non erano poche, delle offerte spontanee dei fedeli, come le primitive chiese del Cristianesimo” e rimanda alla sua memoria “Demanialità di Maniace e di Bronte”. E conclude dicendo che «La prima volta che Bronte appare come cosa dell’abazia è nell’atto del 14 marzo 1471, del viceré Lopez Ximenes De Urrea” e che le due visite regie successive “non sono che descrizioni, inventari dei beni posseduti dalle due abazie: Beati possidentes. Ma noi, non si fa questione giuridica, ora di nessuna importanza, ma storica. Nessuna notizia di lamenti è pervenuta sino a noi. Docili e pii quei popoli vivevano tranquilli sotto il governo abaziale. Un primo accenno a lamenti e turbative di possesso, fu fatto da Pietro Bugiado, procuratore del Cardinale Rodorico(5) Lenzuoli Borgia, commendatario del monastero di S. Maria di Maniace, il quale Bugiado […] fece ordinare che “i borgesi, i vassalli e convicini” non avessero più fatto pascolare nelle difese del monastero né tagliare alberi fruttiferi. Le difese erano terreni, ove dal 15 marzo al 15 maggio era proibito pascolare e costituivano la terza parte dei feudi dell’abazia. […] Il provvedimento viceregio non fu mai mandato ad esecuzione perché era evidente il dritto dei comunisti.» Il cardinale Borgia, abate commendatario del monastero di Maniace, rinunziò alla S. Sede tutti i suoi diritti e le usurpazioni sui vastissimi feudi di Maniace, di S. Filippo di Fragalà e di Bronte e il Papa Innocenzo VIII, con bolla dell’8 luglio 1491, li donò all’Ospedale Nuovo e Grande di Palermo, edificato di recente. Ferdinando il Cattolico, con diploma del ’92, rendeva esecutiva la donazione. “Così fu spogliato Bronte, conclude il Radice. “Rinunzia fatale e nulla, poiché i commendatari non erano che meri usufruttuari: ma allora chi poneva mano alle leggi? Lo scopo filantropico, a cui era destinata la donazione, sanzionava la violazione delle leggi e la spoliazione.” I rettori dell’Ospedale, “col prestigio e pretesto dell’opera umanitaria, […] cominciarono a far sentire la gravezza del loro soave giogo (6), usurpando giurisdizione, annullando capitoli, imponendo nuove gabelle.”Contro le quali “levarono la voce alcuni nobili cittadini brontesi […] i quali […] reclamarono contro i pii (7) rettori, […] e così le vessazioni, le usurpazioni dei signori governatori dell’Ospedale diedero cominciamento alla Gran lite.” Si tenne un comizio nella Chiesa Madre, presieduto da Giovanni Niccolò da Procida, incaricato a ciò dal viceré, residente allora in Messina, e a questo punto lo storico riporta il “Bando che mise in agitazione tutto il paese.” Nel comizio Giovanni da Procida espose al popolo le ragioni del reclamo e “biasimò acerbamente i soprusi degli ospedalieri e invitò l’assemblea ad eleggere i Sindaci e i Giurati. […] La concordia, madre di ogni successo, era nell’animo della maggioranza, perché si lottava pro aris et focis, e si elessero Sindaci e Giurati” di cui il Nostro fa l’elenco. I rettori dell’Ospedale si oppongono al reclamo dei Brontesi che accusano di «usurpazioni nelle contrade Musa e Roccaro e di devastazioni nei boschi e […] ottennero che fosse inviato a Bronte persona autorevole colla potestà di capitano d’armi per reintegrare l’Ospedale nei terreni che si dicono usurpati. Il capitano venne, e fu certo Antonio Speciale, che nella tortura trovò il più efficace, il più pronto rimedio alla persecuzione; e, novello Minosse, giudicò, sentenziò, spogliò dei loro poderi più di 500 comunisti a beneficio di altri, che si sottoponevano a pagare una prestazione annua all’Ospedale. «Far tacere i diritti del Comune usurpandogli il patrimonio, eccitare l’ingordigia dei privati cedendo a loro i beni usurpati era la politica dei pii rettori; i quali traevano vantaggio dalla discordia, dall’ignoranza dei tempi, dalle farraginose leggi feudali, dalla debolezza e infedeltà degli amministratori e più dal prestigio dell’opera. Che cosa non ottenevano i pii rettori?» (8) Nel 1558 ci fu un giudizio presso la Gran Corte civile di Messina, ma la sentenza fu sfavorevole per cui, per transazione del 1563, i comunisti di Bronte si obbligarono a pagare all’Ospedale i canoni sulla contrada Musa. Ma alcuni cittadini che «non si erano lasciati adescare dalle promesse, né intimorire dalle minacce, preferendo al bene proprio il bene dell’Università, reclamarono al viceré Duca di Feria che, con lettera viceregia del luglio 1600, […] intimava” al Governatore dell’Ospedale “di comparire innanzi il Tribunale del Real Patrimonio, colla minaccia di procedere come si conviene […] ma i pii rettori trovarono mille pretesti per eludere gli ordini viceregi, e con arte e inganni, continuarono nelle loro soperchierie. Poco dopo, certo De Pasquale, rettore dell’Ospedale, il quale […] si era fatto […] gabelloto dello stato di Bronte, seppe talmente intrigare, che dal governo viceregio e dal Tribunale del Santo Ufficio si fece eleggere capitano d’armi. Questa nomina tolse ai Brontesi ogni speranza di giustizia. Il De Pasquale, infatti, colla triplice funzione di rettore dell’Ospedale, di gabelloto e di capitano d’armi nel 15 luglio 1604 pubblicò bando proibitivo di tagliare alberi nei boschi di Maniace, minacciando ai trasgressori” pene severissime. Ma i giurati non si stancarono di reclamare e “ottennero la conferma delle lettere viceregie del 1600”, ma […] “non altra salvezza trovava il Comune che darsi al re, e nel 31 maggio 1606, riunitosi il popolo in comizio, furono eletti sindaci e procuratori che insieme all’avvocato fiscale chiesero di essere reintegrati nel demanio regio, cioè essere dichiarati liberi, non vassalli, e che lo stato di Bronte non all’Ospedale, ma apparteneva a S. Maestà Filippo d’Austria e re di Sicilia” […] noverando tutti i loro diritti.» «I rettori dell’Ospedale, temendo l’esito di quel giudizio, denunziarono i sindaci di sedizione, i quali dal governo furono obbligati di recarsi alla capitale (9). Quivi con lusinghieri modi dal governo furono indotti a concordia colla promessa di rispettare il Comune nel suo pacifico possesso del dritto di pascere, di rispettare le sue locali consuetudini, i privilegi e le prerogative. Si obbligarono i rettori di recedere dalla lite iniziata, di rinunziare all’accusa di sedizione contro i Sindaci e altri cittadini. Il consiglio civico accettava le promesse e nel 31 gennaio 1610 faceva una transazione che, dopo due anni, nel 20 aprile 1611, i governatori, col pretesto che il rettore dell’Ospedale non aveva facoltà di transigere, la violarono […]. Contra questa violazione reclamarono i Brontesi […] e ne ottennero la revoca […] e fu ordinato che si conservassero i comuni in tutto il territorio di Bronte. “In mezzo a questo orrore di liti, di concedere e revocare provvedimenti, di dire e contraddire, che tenevano il popolo sospeso e in grande fermento ed agitazione, seguì il famoso tumulto del 6 aprile 1636, per cui Bronte fu dichiarato reo di lesa maestà per aver gridato - Viva il re di Francia! Vadano via i cattivi governatori! - “Il consiglio civico, intanto, per liberare la Terra dalle angherie degli ufficiali di Randazzo, aveva deliberato di comperare il mero e misto impero. I rettori dell’Ospedale macchinarono tanto perché il Comune non avesse credito per trovar denaro, e comprarono essi a nome dell’Ospedale questo sovrano dritto (10). Il Comune vi contribuì con 9.000 scudi per avere il dritto alla nomina degli ufficiali e il triste spettacolo della forca, che fu innalzata all’entrata del paese, allo Scialando. La forca era l’infame simbolo del dritto del mero e misto impero. […] “I rettori, ottenuto il mero e misto impero da tanti anni agognato, divennero più potenti; perché, nonostante i famosi capitoli per la nomina dei giurati, del capitano d’armi e del giudice, la scelta era sempre nel loro arbitrio. […] Questo li fece padroni della vita e degli averi dei cittadini. «I vari processi fatti ad istanza dei pii rettori sono ignorati da noi. Essi si conservano presso il Duca Nelson. Se ci fosse stato permesso di leggerli, ci avrebbero narrato le novelle estorsioni, le sevizie e le torture, per carpire confessioni e false testimonianze. Furono processati giudici, giurati, capitani e, fra gli altri, il grande benefattore dei poveri, il barone Don Lorenzo Castiglione.» Alla sommossa del 1636, con le sue disastrose conseguenze, si aggiunsero i danni della terribile eruzione del 1651 e «i pii rettori dell’Ospedale, per il debito di onze 400, interessi maturati al 9%, non potendoli il Comune soddisfare, gli sequestrarono il suo patrimonio […]. «Alcuni signori Brontesi, nei quali taceva ogni sentimento di patria, rappresentavano l’Ospedale in quella spoliazione […] e i cittadini […] essendo esausta la cassa del Comune, si quotarono fra loro per continuare la lite […] e nel dì 8 febbraio 1661 fu fatta transazione coll’Ospedale, che si obbligò restituire i beni sequestrati […]. «Nel 1735 i Brontesi chiesero di nuovo che il mero e misto impero si reintegrasse al regio demanio, e che gli interessi del mutuo, dal 9% si riducessero al 5%. Si domandò pure l’annullamento delle due transazioni del 1611 e 1716. Il Tribunale del Real Patrimonio, con sentenza del […] 1763, confermata dalla Giunta dei Presidenti e Consultori […] del 1765, dichiarò estinto il debito e ordinò la restituzione dei beni sequestrati e dei frutti percetti. Durante questo sviluppo di liti sorse il giudizio sul dritto di legnare e di pascere.» I rettori dell’Ospedale «non curando la sentenza e il giudizio sul mero e misto impero, continuavano a far bandi proibitivi, a minacciare pene ai trasgressori […] ma il Comune non cessava di esercitare, come prima, i suoi diritti” e così fino al 1788; ma il dritto non era mai certo e sicuro, essendo diverso e mutevole il giudizio degli uomini. Il più potente ha spesso il sopravvento sul debole. E’ la storia delle umane vicende.» (11) «In questa lotta gigantesca con l’Ospedale, nel secolo XVIII, anima e mente fu l’umile giureconsulto, come egli si chiamava, Antonino Cairone. Cinquanta anni di lavoro indefesso e di spese in servizio del Comune stremarono il suo ricco patrimonio, non fiaccarono però la sua fibra di lottatore invitto, come lo chiamò l’avvocato fiscale del Real Patrimonio. Eletto procuratore irrevocabile nel 1734, ogni classe di cittadini: nobili, plebei, borghesi, preti contribuirono a fornigli i mezzi necessari per vivere e lottare. I pii rettori compresero che per vincere bisognava torre di mezzo il Cairone […].» Riuscirono,quindi, a farlo destituire dall’ufficio di notaio e bandirlo dal paese. Patì carcere ed esilio dal 1751 al 1754. Da Messina, luogo del suo esilio chiedeva spesso il ritorno in patria per difenderla dalle aggressioni dei rettori. I quali riuscirono anche a rubare i documenti della lite, lasciati in custodia a un suo cognato, Padre Tommaso Schiros, superiore dei Padri Minoriti in Acireale. «Vecchio, a 79 anni, fu per la dodicesima volta in Napoli, ai piedi del Trono, implorando giustizia a favore del suo diletto paese. - Fu il Cairone un eroe- scrisse in una memoria del 1817 l’avvocato Giuseppe Sanfilippo, che ardeva imitarne l’esempio, - Per l’opera del Cairone Bronte ebbe sentenze favorevoli e vantaggiose transazioni. Quanto Bronte possiede lo deve a questo eroe.-[…] “Vari gli umori dei Brontesi in questa immane lotta. L’antico spirito di discordia si era ridesto. La maggioranza fu per la lite e sovvenne del proprio il Cairone; altri timidi, anime di schiavi, non volevano sacrifici e accusavano al governo la pertinacia del Cairone […] il quale non viveva che per la lite […] (12) Di tutte queste fatiche ebbe per compenso le calunnie dei contemporanei e l’ ingrato oblìo dei posteri. E’ la solita moneta con cui si pagano i benefattori. Morì povero, ostinato nel peccato di amor di patria, il 26 novembre 1758 […](13) Morto lui fu eletto procuratore il barone Silvestro Politi per la demanializzazione del paese e la restituzione al re delle due abazie.» Dopo gli avvenimenti del 1799, re Ferdinando III donò la Terra di Bronte all’Ammiraglio Orazio Nelson in premio di aver soffocato la Repubblica Partenopea, e di averlo rimesso sul trono. «Così il sogno per la sua libertà finì, e Bronte, come il Sisifo della favola, ricadde nel vassallaggio dal quale sperava prossima l’ uscita. La lite si riaccese col novello padrone. Ebbe varie fasi: più sconfitte che vittorie; ma nel 1861, dopo la rivoluzione unitaria, fu troncata dall’energia e dal patriottismo del Dottor Antonino Cimbali, che a quel tempo, nella qualità di Delegato di Pubblica Sicurezza, godeva grandissima popolarità e stima.»(14) |