Molte famiglie facoltose ridotte alla miseria da liti vessatorie, altre costrette ad emigrare e, scrive il Radice “con dolore”, «alcuni cittadini del Comune, spento nell’anima ogni sentimento di patria carità, divenuti per sordido interesse, partigiani e difensori dello straniero». E continua scrivendo che «Fervendo nei secoli XVII e XVIII la gran lite contro l’ospedale Grande e Nuovo di Palermo, per la fatale e spogliatrice donazione di Papa Innocenzo VIII, anche i Brontesi, preti, avvocati, cittadini, s’improvvisarono tutti storici, poiché la lite si riduceva ad una questione storica, se cioè Bronte fosse preesistito al monastero di Maniaci, o fosse stato una colonia e dipendenza di esso.» «Le memorie storico-legali si moltiplicavano. Dotti e indotti si stillavano il cervello, ma corti a prove e ad argomenti, non facevano che rifriggere le medesime cose: e, credendo storia reale anche la poesia, scambiando Virgilio con Livio, appellavansi alla testimonianza del primo, citandone il solito verso: ”Ferrum exercebant vasto Cyclopes in antro Brontesque Steropesque et nudus memba Piracmon”. ”Mancando unità nelle leggi e nell’amministrazione, seguiva spesso, come si è visto, che un magistrato disfaceva quel che faceva un altro; onde il dritto non era mai certo e sicuro, essendo diverso e mutevole il giudizio degli uomini. «Il più potente ha spesso il sopravvento sul debole. E’ la storia delle umane vicende. I pii rettori, sotto il pietoso pretesto di carità, ottenevano dalla Corte quanto essi desideravano. I Brontesi, spogliati dei loro diritti, erano ritenuti spogliatori dei poveri infermi. Alcuni Giurati per interesse secondavano le mire dell’Ospedale, facendosi traditori del paese, e l’Ospedale con ipocrita carità immiseriva Bronte con litigi». «E - continua il Radice - siccome l’appetito viene mangiando, così l’Ospedale, ad ogni bando allargava i limiti del suo possesso, finché infeudò a sé tutto lo Stato di Bronte, per la buona grazia dei giurati di allora, che ebbero in compenso masserie ed altro. È la storia di tutti i tempi, di tutti i paesi e di tutti i Giuda.» Antonino Cairone
Per le sue idee patì ingiurie e calunnie di ogni genere, fu rinchiuso in carcere e morì in miseria Il Radice ricorda i numerosi difensori della piccola comunità (“gli scrittori di memorie storico-legali”) citando i nomi di P. Cottone, del Barone Filadelfio Papotto, di Don Liborio Papotto, Don Saverio Artale, Don Mario Sanfilippo, Don Francesco Schiros, del Vescovo Giuseppe Saitta e, soprattutto di Don Antonino Cairone “che patì carcere, esilio e povertà”. Scrive che ”…fra tante miserie, a conforto di chi coltiva i più nobili sentimenti di patria, è degno di memoria il nome del notaio giureconsulto (esperto di Diritto) Antonino Cairone, strenuo ed eroico difensore dei diritti del Comune ...” e “per sentimento di postuma gratitudine” parla a lungo di questo studioso che definisce “lottatore invitto” con profonda conoscenza delle discipline giuridiche. Ecco cosa ci ricorda lo storico brontese: «In questa lotta gigantesca con l’Ospedale, nel secolo XVIII, anima e mente fu l’umile giureconsulto, come egli si chiamava, Antonino Cairone. Cinquanta anni di lavoro indefesso e di spese in servizio del Comune stremarono il suo ricco patrimonio, non fiaccarono però la sua fibra di lottatore invitto, come lo chiamò l’avv. Fiscale del Real Patrimonio. Eletto procuratore irrevocabile nel 1734, ogni classe di cittadini: nobili, plebei, borghesi, preti contribuirono a fornirgli i mezzi necessarii per vivere e lottare». E l'affermazione del Radice è suffragata da un lungo elenco di cittadini brontesi che nel 1735 volontariamente versano nella mani di un Pubblico Notaro il loro piccolo o grande contributo per sostenere e portare avanti la voglia di autonomia e di libertà della popolazione con la vertenza contro l'Ospedale. Abbiamo trovato il documento originale nell'Archivio Nelson e li abbiamo contati: sono 384 e dopo 400 anni li vogliamo ricordare e porli alla vostra attenzione. Si va dal contributo di 1 tarì e 10 grani di Antonino Modica e Placidus Cocina ai 6 tarì di Joseph Huccellatore o di Philippus Golino Sfardato fino all'onza 1,6 di Joannes Saytta Japuchellu o alle 6 onze del Barone Filadelfio Papotto, sindaco e depositario della somma (un totale di 175,5 onze, quasi 80mila euro attuali, A.N., vol. 133, pp. 132-139). Un anno prima, 28 Dicembre 1734, nel verbale di un Consiglio civico convocato per il proseguimento della causa contro l’Ospedale, oltre a numerosi ragguagli sulle attività del Giureconsulto, si legge che «questo difensore e protettore di detta Università (di Bronte) e suoi popoli in tutte le loro necessità … il Dr. D. Antonio Cairone il quale, con costanza e vivo impegno, sempre difendendo il Dritto Regio con non ordinarii suoi travaglj, spese ed interessi, ha sempre curato, nella istessa maniera che lo pratticarono li suoi antenati, con i suoi scritti la difesa della sua patria … ridotta in questo miserabile stato, denudata di tutte le sue facoltà, prerogative, privileggi ed altri» (A. N., vol. 162 pp. 39-53) Tredici anni dopo, nel 1748, i motivi della lotta (lo leggiamo ancora nei documenti dell'epoca dell'Archivio privato dei Nelson) erano sempre gli stessi: la ripresa della causa intentata dai brontesi nel 1735, «pella estinzione delle onze 300 annuali allo Spedale assegnate, e pella restituzione del diritto del Mero e Misto Impero» e la richiesta al Re «di degnarsi dare il permesso di proseguirsi detta reduzione al Regio Demanio … e aggrazziare Bronte con l’onorificio di Città». Bronte voleva diventare città demaniale e non sottostare più ai Rettori dell'Ospedale palermitano ma per 13 anni la causa nella capitale Palermo era finita dimenticata in un cassetto. Esisteva anche allora il solito "porto delle nebbie" come, anticipando quanto succederà nel 1860 fra i "comunisti" e il Partito ducale, esisteva anche allora a Bronte il "Partito dello Spedale" e il partito della Università. Con il «ripiglio di detta causa nello spazio di anni tredici sopita» il giureconsulto, che chiedeva anche la restituzione delle somme indebitamente percepite dall'Ospedale dal settembre 1736, «si guadagnò l'odiosità delli Rettori dello Spedale e del Ill.mo Duca di Villarosa, che tentarono mille strade, così contro la persona del Cairone credendolo e manifestandolo uomo malo, delinguente e torbido» come nell'elezione di quattro nuovi Giurati «procurando che tutti e quattro li Giurati riuscissero del partito dello Spedale, affinchè restasse ancor questa volta (la causa) arenata» (A.N., vol. 46, pag. 163). Ed i nuovi giurati, per prima cosa non corrisposero più "ai Professori (gli avvocati)che difendevano l'Università di Bronte li dovuti salari".(1) I rettori dell'Ospedale Grande e Nuovo, fra i quali spiccava per autorità ed particolare animosità il Duca di Villarosa, compresero alla fine che per far cessare il pericolo, per vincere bisognava togliere di mezzo il Cairone. E avevano il potere, i mezzi e le conoscenze giuste per farlo. Per prima cosa, visto che i brontesi lo eleggevano pressocchè ogni anno fra i candidati da scegliere per l'amministrazione della Città, lo esclusero dalla vita politica. Ecco cosa scrivono alle autorità locali: «Desideriamo, determiniamo e vogliamo che da oggi innanti e per tutto il tempo che venisse in perpetuum non possano detti Li Meli (un collaboratore del Giureconsulto) e Cairone e suoi ascendenti e descendenti mai più concorrere ad officio veruno in detta Terra etiam minimo che si fosse, non poter pigliare Gabella di nessuna sorte, nemmeno accompagnarsi in affitto del sudetto Stato etiam per sommisse persone» (A.N., vol. 133, p. 174). Insomma un editto totale e definitivo per allontanarlo anche dalla vita sociale ed economica. Ma non bastava. Iniziarono a diffamarlo in tutti i modi, dipingendolo alle Autorità come "infame, il più torbido di quella Università", e anche con la complicità dei quattro giurati brontesi (anime di schiavi, per il Radice), tramarono e macchinarono in modo che egli, denunciato varie volte, fu destituito dall’ufficio di notaio e giureconsulto, privato dei suo beni e allontanato, in esilio, dal paese. Un tal D. Vincenzo Spitaleri, un trentenne Giudice civile e criminale ex Secreto, mero esecutore degli ordini dell’Ospedale che lo aveva nominato aveva - come scrivevano i Rettori al Senato palermitano (A.N. vol. 131, pag. 117) - sùbito «eseguito gli ordini mandatigli dalla Deputazione dell’Ospedale specialissimamente nella diligenza a eseguire la carcerazione del D.re D. Antonino Cajrone e l’incorporazione de’ beni mobili e stabili di questo per soddisfare alla S. Opera». Naturalmente – continuano i Rettori – «essendosi per tali servizi prestato a favore di questa S. Opera (si era) acquistato l’odiosità delle principali Brontesi che dominano quel Paese» e, anche se gratificato da «più lettere de’ Sig.ri Rettori di ringraziamento ed approvazione della sua buona condotta» - subito dopo era stato destituito nominandolo però Giudice fiscale. Il 28 Luglio 1750 il Giureconsulto fu esiliato da Bronte, si intimò «di appartarsi D. Antonio Cairone di questa Università in distanza di miglia trenta». Da quell'anno patì carcere ed esilio fino al 1754. Da Messina, luogo del suo confino, coraggioso e coerente sempre, chiedeva spesso il ritorno a Bronte per continuare a difendere la sua Città dai soprusi e dalle aggressioni dei rettori; spediva al Re memoriali su memoriali, che, se anche manifestavano l’irrequietezza del suo spirito, rivelavano però il suo ostinato affetto alla Patria, tenevano sempre accese le motivazioni della lite e svelavano le magagne dei rettori dell'Ospedale. «Un giorno questi, - continua il Radice - coll’aiuto di militari, osarono portar via con violenza le scritture della lite che egli aveva dato in custodia al di lui cognato, Padre Tommaso Schiros, uomo dottissimo del suo tempo, e superiore del convento dei PP. Minoriti in Acireale. Vecchio a 79 anni, nel 1745 fu per la dodicesima volta in Napoli, ai piedi del Trono, implorando giustizia a favore del suo diletto paese». «Fu il Cairone un eroe, scrisse in una memoria del 1817 l’avvocato Giuseppe Sanfìlippo, che ardeva imitarne l’esempio. Per l’opera del Cairone Bronte ebbe sentenze favorevoli e vantaggiose transazioni». Anche per il Radice «quanto Bronte possiede lo deve a questo eroe. Egli con coraggio senza pari fustigò la pietà dei pii rettori, che sulle somme mutuate facevano pagare al Comune gl’interessi al 9 per cento, che essi rettori non pagavano al Paganetto. Era uno scrocco, tanto che la Regia Corte, sventata la magagna, dichiarò estinto il debito». «I pii rettori, sperando nel tempo, per un ventennio, con cavilli e acquiescenze di magistrati tiravano in lungo la discussione della lite, rinnovata nel 1735. Cairone apertamente accusava i giurati, venduti all’Ospedale, per procrastinare il giudizio; accusava e chiedeva revoca di magistrati e di avvocati fiscali del Real Patrimonio, che d’intelligenza con i pii rettori non curavano gl’interessi del fisco e di Bronte». Venivano inutilmente denunciate, anche al Re, le "prevenzioni nella Real Segreteria" e nei giudici, i favori ed il fatto che "li dispacci (a fav. della Città) s'occultano e non s'ubbidiscono, la giustizia rimane aggravata, e coloro (l'Ospedale) bene s'ingrassano sopra l'altrui sostanze, Senza che niente si perfezionasse". (Arch. Nelson, vol. 88, pag. 177) Continua il Radice scrivendo che « ...venutagli meno la fiducia nei magistrati, il Cairone si rivolgeva al sovrano; e al sovrano, con orgoglio di cittadino chiedeva pure che Bronte fosse insignito del titolo di città.» «Varii gli umori dei Brontesi in questa immane lotta. L’antico spirito di discordia si era ridesto. La maggioranza fu per la lite, e sovvenne del proprio il Cairone. Altri timidi, anime di schiavi, non volevano sacrifici e accusarono al governo la pertinacia del Cairone, dipingendolo torbido cittadino». Le medesime accuse gli lanciò contro anche Bernardo Tanucci, segretario di Stato della Giustizia della Casa Reale dal 1754 al 1776. Il Cairone non viveva che per la causa, per ottenere giustizia per la sua città ed in questa lotta l’anima sua di patriota si esaltava ma di tutta questa appassionata difesa e delle sue fatiche e peripezie ebbe per compenso solo le calunnie dei contemporanei e l’ingrato oblìo dei posteri. «E’ la solita moneta con cui si pagano i benefattori», conclude il Radice. Pochi anni prima che un altro grande figlio di Bronte, Ignazio Capizzi, iniziasse la costruzione del suo Collegio, Antonino Cairone morì «povero, ostinato nel peccato di amor di patria», il 26 novembre 1756(2), cadendo da cavallo. Ebbe dagli amici l’esequie e la sepoltura gratuita nella chiesa dell’Annunziata, ma della sua tomba si sono perse le tracce. Pochi giorni dopo la sua morte, il 3 Ottobre 1756, una supplica presentata al Re, firmata da oltre cento brontesi, definiva Antonino Cairone “martire eroe invittissimo” e chiedeva a S. M. la riapertura della causa contro l'Ospedale palermitano (AN, vol. 365 pag. 208). «Morto lui - scrive il Radice - fu eletto procuratore il barone Silvestro Politi per la demanializzazione del paese e la restituzione al re delle due abazie». (nL, Novembre 2005) (1) Il Radice scrive che Cairone morì nel 1758 ma certamente sbaglia di due anni (1756) perché in un documento dell'Archivio Nelson (anni 1754-1779 , vol. 88, pagg. 61, 161, ) leggiamo che "morì il Dr. Cairone, e ne fu incaricato ad assistere in tale pendenza con regali dispacci del 16 Dicembre 1756 e 12 Dicembre 1757 il Sac.te Dr. Vincenzo Longhitano ...".
Sulle Orme di Antonino Cairone
D. Vincenzo Longhitano Dotto, coraggioso ed eroico, irremovibile, ostinato difensore dei diritti dei brontesi «Morto lui (Antonino Cairone) - scrive B. Radice - fu eletto procuratore il barone Silvestro Politi per la demanializzazione del paese e la restituzione al re delle due abazie». Questa affermazione dello storico brontese va in qualche modo completata. Infatti, nell’Archivio Nelson – che il V Duca di Bronte, Alexander Nelson-Hood, vietò al Radice di consultare - un voluminoso faldone (il Vol. 88 relativo alla seconda metà del 1700, di circa 400 fogli) contiene numerosi atti e documenti anche in spagnolo o in latino, relativi ad una nomina fatta dal Re di Napoli Ferdinando IV di Borbone nel 1756, un mese dopo la morte del Cairone. Il Re, per far continuare ai brontesi la causa iniziata nel 1735 contro l’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, padrone incontrastato e dominus assoluto di Bronte e del suo territorio, con un “regale dispaccio del 16 dicembre 1756” nominava il sacerdote D. Vincenzo Longhitano per assisterli ed aiutarli nei Tribunali. Il Silvestro Politi, citato dal Radice, risultava essere all’epoca anche “Regio sindaco della Città di Bronte”. Seguendo le orme tracciate da Antonino Cairone, D. Vincenzo Longhitano si rivelò subito come un altro eroico, indomabile combattente nella difesa degli interessi della propria città. “Morì il Dr. Cairone – si legge a pag. 161 di un lungo e documentato suo memoriale del 1779 diretto al Vicerè Principe di Stigliano Colonna (pagine 154 – 170 del faldone) - e ne fu incaricato ad assistere in tale pendenza con Regali dispacci del 16 Dicembre 1756 e 12 Dicembre 1757 il Sac. Dott. Vincenzo Longhitano …”, per assistere, e difendere la Università di Bronte nelle cause contro l’Ospedale Grande pendenti nel Tribunale del R. Patrimonio”. Si chiedeva al Re e alle Corti che Bronte ed il suo territorio, comprese le due abbazie di Maniace e di S. Filippo di Fragalà, dal dominio assoluto dei Rettori dell’Ospedale Grande e nuovo di Palermo, passassero sotto Regio demanio; si chiedeva ai Tribunali anche la “nullità e rescissione delle transazioni stipulate tra esso Spedale con la Università di Bronti” per la compra del Mero e Misto Impero avvenuta, con transazioni capestro, oltre un secolo prima (1636) e la restituzione delle “somme indebitamente esatte”, parte delle quali erano di pertinenza anche del Regio Patrimonio ("36 mila Ducati dovuti dall'Ospedale a S. M. sin dall'anno 1735 per donativo fatto dalli Naturali di Bronte sopra i loro fondi", cfr. pag. 176). Nulla sappiamo di questo Vincenzo Longhitano se non che era un dotto sacerdote incardinato nella giurisdizione del vescovo di Monreale ("sacerdote secolare", lo definiva il Vicerè); non conosciamo i suoi studi, la sua collocazione nella gerarchia ecclesiastica locale, nemmeno la sua data di nascita. Nulla ci rivelano gli archivi di battesimo della Matrice. Le Memorie storiche di Bronte del Radice lo ignorano completamente e nessun accenno ne fa Padre Gesualdo De Luca nella sua Storia della Città di Bronte. Uno sconosciuto, che sicuramente apparteneva alla ricca borghesia brontese perchè aveva avuto la possibilità di frequentare le scuole palermitane e di viaggiare frequentemente (lo troviamo spesso a Napoli), che noi vogliamo ricordare con questi piccoli cenni. La sua vita si svolse in un’epoca “gloriosa” per la storia di Bronte, quella di Nicola Spedalieri (nato nel 1740 che nel 1756, anno della nomina di Longhitano si trovava a Monreale), di Donna Maria Scafiti che il 19 febbraio 1780 fondava a Bronte un Collegio di Maria, di Padre Tommaso Pittalà (il Beato Bronte) e di Ignazio Capizzi nato nel 1708, forse coetaneo del Longhitano. Nel 1756 il Capizzi viveva a Palermo a dirigere il Collegio di Maria della Sapienza alla Magione ma con l’idea di ritornare a Bronte dove nel Maggio 1774 avrebbe benedetto e posto la prima pietra per la costruzione delle Reggie Pubbliche Scuole. La posta in gioco per la povera popolazione brontese era importante e Longhitano iniziò subito la sua ciclopica lotta contro i “pii Rettori” che reggevano l’Ospedale palermitano (l’ironica definizione è del Radice) con una incessante attività che si protrasse per alcuni decenni. Numerose e continue furono le lettere e le suppliche inviate al Re, i lunghi ricorsi, i memoriali e le “note di raggioni” inoltrate ai vari tribunali per la ripresa e la discussione della causa. Ne fanno fede i numerosi documenti del citato volume dell’Archivio Nelson, pagg. 122-134, 145, 154, 158-169. Per il sostegno dell’istessa – continua un documento del 1758 - abisognavano le spese necessarie e ricorse alla Regal Camera il Dr. D. Silvestro Politi regio Sindaco della Città di Bronte dimandando la providenza”. “Si proseguì dal Longhitano tale pendenza coll’assistenza pure del Proc.re fiscale … e fra lo spazio di anni sette ottenne la primera favorevole sentenza, non in tutto ma in parte…” (pag. 161). Anche questa volta, come accadde con Antonino Cairone, l’attività del coraggioso sacerdote fu vista dai Rettori dell’Ospedale palermitano come un grande pericolo: l’Ospedale dal territorio brontese ogni anno ricavava per affitti, gabelle, censi, decime e imposizioni varie l’equivalente di milioni di euro e non voleva perderli. Longhitano, anche se di nomina reale (il suo incarico fu rinnovato dal Re nel 1761), fu ostacolato e lottato con tutti i mezzi e modi sia dai Rettori dell'Ospedale come anche da alcuni funzionari di Palermo e dall'élite di Bronte, dove era forte il Partito dell’Ospedale, che rappresentava il potere con tutti i suoi vantaggi e privilegi e che pochi decenni dopo si sarebbe trasformato sotto il dominio dei Nelson nel Partito Ducale. Lottato da alcuni preti (fra cui il Sac. D. Placido Pittalà), ebbe contro soprattutto “i politici del tempo”, i Giurati e il "Segreto” (gli amministratori pubblici dell'epoca) da lui accusati in un Memoriale inoltrato a Ferdinando, il Re Borbone di Napoli e di Sicilia, di “aderenza e connivenza con l’Ospedale, per essere dal med.mo creati ed eletti per non lasciare proseguire la causa contro l’Ospedale” (pag. 159). In diverse lettere i quattro Giurati e il Segreto (umilissimi servi e sudditi, i loro nomi nella foto a destra) lo sconfessarono apertamente definendo il proseguimento della causa come “un prodotto del suo torbido pensare”, “stravaganti pretese del Longhitano”, ed dichiarando ufficialmente che resta egli espressamente proibito di poter assistere nella causa tra questa Città ed il riverito Spedale (pagg. 189-191). I Rettori brigavano per nascondere o distruggere documenti, ostacolavano lo svolgimento della causa, ritardavano dolosamente l’esecuzione di sentenze favorevoli alla popolazione brontese «rimaste sospese per la prepotenza degli avversari e la torbidezza dell'Avv.to Fiscale» (parole del Vicerè Fogliani, pag. 95), “non ostante tanti venerati ordini della Maestà che ne inculcavano la loro esecuzione” (pag. 145); dichiaravano decaduto il Longhitano dall’Ufficio di Procuratore sostituendolo con il prete D. Placido Pittalà (pag. 91); lo calunniavano in tutti i modi definendolo nei documenti giudiziari dal “torbido e inquieto carattere” o dal "torbido e disordinato intelletto" o “uomo ostinato nella sua torbidezza”; obbligavano i giurati a non ingerirsi, a relazionare favorevolmente all'Ospedale, a non dare "frastornati dalla potenza del Grande Ospedale", anche se obbligati dal Giudice, "i legittimi Conti nel tribunale del Real Patrimonio" (pag. 35) e soprattutto a non pagare a D. Vincenzo Longhitano le spese sostenute per la causa e a non finanziare in alcun modo il proseguimento della stessa. E il tenace sacerdote, così come aveva fatto il Cairone, doveva quindi lottare anche contro gli amministratori della sua città: per aver pagate le spese giudiziarie doveva ricorrere al Tribunale, come ci informa ad esempio un atto provisionale inviato ai Giurati il 19 giugno 1770 (pag. 84 e 115). Ci rimetteva anche parte del suo patrimonio per cercare di proseguire e portare a termine la lite giudiziaria. Palermo distava da Bronte almeno quattro giorni di viaggio e solo per arrivarci dal piccolo centro etneo necessitavano risorse e mezzi adeguati. Una "diaria", decisa in precedenza da un pubblico Consiglio, stabiliva che «vadano a spesa di detta Università a tarì sei per ognuno il giorno, ed oltre li cavalcaturi per juta e venuta dal giorno di loro accesso e recesso» (Arch. Nelson, vol. 123, p. 112). L'eroico testardo sacerdote nulla chiedeva per sé ma solo di ottenere giustizia per la sua Città e, per questo, era anche apertamente minacciato ed invitato a lasciar perdere e non continuare la decennale causa intentata nel 1735 «pella estinzione delle onze 300 annuali allo Spedale assegnate, e pella restituzione del diritto di Mero e Misto Impero». Ebbe anche il sostegno di molti cittadini brontesi e l’appoggio di altri amministratori della capitale. Citiamo fra i documenti del faldone un "mente anomalo" di "fedelissimo vassallo di S. M." (pag. 176), una supplica a suo favore fatta al Re del sac. Saverio Stancanelli nel luglio 1771 (pag. 90) ed una lettera allo stesso Re dell’avv. fiscale del Real Patrimonio Marchese D. Domenico Pensabene, messinese, Consultore del Regno di Sicilia e Regio Consigliere che in un Consulto scriveva a S. M. il Borbone di dar corso alla richiesta dei brontesi e di intervenire concedendo anche assistenza alle fatighe del Sac. Dr. D. Longhitano dando “la grazia di qualche beneficio, o canonicato” (1774, pag. 110). Nel faldone dell’Archivio Nelson, che copre gli anni dal 1754 al 1780, è un susseguirsi di memorie, suppliche, note di raggioni, deliberazioni, transazioni e sentenze, lettere anonime, biglietti reali e dispacci dei Vicerè del tempo (marchese Fogliani e Principe di Stigliano Colonna) e continue richieste del “perpetuo silenzio” sulla controversia. L’iter della causa languiva ma la stessa per la tenacia, il valore e il coraggio del Longhitano restava sempre accesa e pericolosa per l’Ospedale che rischiava di perdere le lucrose rendite della proprietà della Città di Bronte e del suo territorio. Ancora a Giugno 1779 il Longhitano sollecitava l'esecuzione delle sentenze favorevoli a Bronte ed inviava a Palermo un Nota di raggioni da lui composta per essere consegnata al Presidente della Gran Corte Stefano Ajroldi (pag. 154). Tre mesi dopo, nel settembre del 1779, non trovando sbocco alcuno le minacce e le intimidazioni, i Rettori invitavano e sollecitavano l’Arcivescovo Francesco Ferdinando Sanseverino (1723–1793), nominato in quel 1776 da papa Pio VI primo arcivescovo metropolita di Palermo e di Monreale (da cui Bronte dipendeva), “che chiamasse innanzi a sé il Prete Longhitano e con forti riprensioni lo ammonisse per astenersi d’implorar provvidenze ed ingerirsi in affari dell’Università di Bronti collo Spedale” (pagg. 11 e 195). Lo si minacciava apertamente che “quando malgrado questo divieto ardisse egli inquietare ulteriorm.te il Pubblico di Bronte e li Rettori di questo Spedale, resterà allora soggetto a più rigidi gastighi”. Ancor di più inquietante è un “biglietto”, sollecitato quattro mesi dopo dopo dai Rettori, inviato il 20 Gennaio 1780 questa volta dal Principe di Stigliano Colonna, il Vicerè dell’epoca, allo stesso arcivescovo (leggilo nella foto a destra) “in cui l’incarica di carcerare il Sac.te D. Vincenzo Longhitano, e che prima di carcerarlo” gli ordinasse “di non ingerirsi in affari dello Spedale e della Università di Bronte” (pag. 203). E l’Arcivescovo ubbidiva facendo rispondere a stretto giro di posta (il 13 febbraio) al Vicerè di aver intimato al povero prete che “da oggi innanti non abbia, ne voglia, ne debba ingerirsi nell’affare dell’Università di Bronte ed Ospidale Grande di questa Capitale sotto la pena di onze duecento (quasi 90.000 euro) d’applicarsi … e d’anni due d’esilio” (1780, pag. 205, leggilo nella foto a destra). E' l'ultimo documento presente nel faldone 88 dell'Archivio Nelson. Non abbiamo trovato nessun altro cenno su questo coraggioso, dimenticato, brontese. Insomma lo stesso identico trattamento già usato nei confronti dell'altro precedente eroico giureconsulto Cairone dai cosiddetti “poteri forti” dell’epoca, aveva avuto completo successo. Il piccolo Comune etneo ed i suoi cittadini ancora una volta sembravano destinati a soccombere e a non poter ottenere giustizia. I due contendenti, la povera popolazione brontese e i nobili rettori dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, agivano infatti su piani diversi di conoscenze, di protezioni, pressioni diplomatiche e di possibilità di manovra e la comunità locale priva di sostegni e di adeguate coperture risultava quasi sempre perdente ed inappagata. Questa volta però, qualcosa era cambiata. Grazie allo sconosciuto sacerdote, i "pii" rettori dell'Ospedale erano stati costretti a cedere: con sentenze del 1763 e 1765 furono liberate diverse gabelle da loro sequestrate cento anni prima e restituito il diritto di pascere e legnare; una transazione stipulata il 28 Agosto 1774 (pag. 102), dopo tre secoli, affrancava anche se non in modo completo l’Università di Bronte e metteva finalmente un limite alla condizione di feudalità e vassallaggio della popolazione. Grazie al coraggio ed alla determinazione di Antonino Cairone e Vincenzo Longhitano sembrava finalmente raggiunta la meta della libertà e dell'autonomia, o almeno così credevano i brontesi. Ben presto, infatti, tutti si accorsero che vana era stata la secolare lotta ed inutili i sacrifici. L’emancipazione e la libertà così faticosamente raggiunte durarono poco, lo spazio di appena venticinque anni. Nuovi avvenimenti, infatti, seguirono nel 1799: in premio di avere soffocato la Repubblica partenopea, e per averlo rimesso sul trono, Ferdinando I donava nuovamente la città di Bronte, le terre, i boschi e i "villani" ad un nuovo padrone: l’ammiraglio inglese Orazio Nelson. E, per essere più grande la sua riconoscenza, il regalo fu fatto "nello stesso modo in cui erano appartenuti all’Ospedale grande e nuovo di Palermo". Come in un tragico gioco dell'oca Bronte si ritrovava al punto di partenza: alla fatale donazione del 1491 quando Papa Innocenzo VIII aveva donato l'Abbazia di Maniace e il suo territorio, l'Università di Bronte e i suoi "villani" all’erigendo Ospedale Grande e Nuovo di Palermo. «L'aborrito Ferdinando I» (così per Benedetto Radice), vanificando i sacrifici e le lotte di molte generazioni di brontesi davanti ai tribunali, non tenne in alcun conto l’affrancamento dal potere feudale dall’Ospedale né l’acquisto del "Mero e Misto Impero" così faticosamente comprato nel 1638 e riscattato solo nella seconda metà del 1700. Elevò Bronte a Ducato ma – scrive il Radice - «coi suoi Diplomi del 1799 e 1801 ne insignì il signor Visconte Orazio Nelson. Con queste regie disposizioni rimase chiuso il campo delle giudiziarie battaglie con l’Ospedale di Palermo, e non andò guari che un altro se ne aprì con la Ducea, in cui furono raccolte tutte le armi offensive palermitane». Per la perdita di Bronte e del suo territorio subita con la donazione a Nelson, l’Ospedale era stato risarcito dal munifico Re Borbone con una rendita annua di 5600 onze (due milioni e mezzo di euro circa). Bronte, invece, perdeva nuovamente i diritti faticosamente conquistati e la propria autonomia e libertà democratica. Assieme a «omni iurisditione, tam civili quam criminali usque ad ultimum supplicium inclusive», veniva data al nuovo padrone anche la facoltà, propria di tutti i detentori di feudi abitati, di nominare ufficiali e amministratori locali come avevano fatto i Rettori e a Bronte l'antico Partito dell'Ospedale si trasformava subito e confluiva nel Partito Ducale. (nL, Dicembre 2020)
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