«[...] Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale [...]. Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. 'Voi come vi chiamate?'. E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l'avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: 'Sul mio onore e sulla mia coscienza!’. «Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: 'Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c'era la liberta!...’».
Così Giovanni Verga, nella giustamente celebre novella Libertà, liberamente - molto liberamente - ispirata ai fatti di Bronte del 1860.
Ma conclusa in questi termini - e in questi termini, con la descrizione che ne precede il finale, essa è stata spesso interpretata - la vicenda appare come la fase conclusiva della cronaca d'una jacquerie, ricostruita sul motivo dell’eterna contrapposizione tra ricchi e poveri, a giustificazione d’una lettura della storia siciliana all'insegna del destino dei vinti.
Epperò, tra gli avvocati che a parere di Verga «armeggiavano tra le chiacchiere» e «si scalmanavano», ce ne fu uno che fece molto più che asciugarsi la bocca «col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco».
E di quegli avvenimenti fornì nella sua arringa difensiva un'interpretazione politica d'una tale lucidità da fare accapponare la pelle a chi con un processo e una sentenza per reati comuni, inquadrati magari in un contesto di «reazione borbonica», riteneva di aver riposto definitivamente nell'armadio uno dei più ingombrati scheletri dell'unificazione italiana.
Ma il modello interpretativo che Michele Tenerelli Contessa - l'avvocato catanese che difese davanti alla Corte d'assise di Catania gl'imputati del secondo processo per i fatti di Bronte, quelli scampati alle fucilazioni sommarie ordinate tre anni prima a Bronte da Nino Bixio - applicò a quei fatti, come non dovette piacere ai giurati del processo, così non incontrò il favore di Giovanni Verga.
Ché vinti erano sì tutti quei condannati - come non definirli tali davanti ai risultati di quei due giudizi! - ma vinti entro gl'ingranaggi d'un gioco più complesso, del quale però essi erano stati attori e dove la lotta politica era stata gravida di implicazioni assai diverse da quelle d'una mera jacquerie.
Certo, la terra c'era di mezzo, e costituiva quasi il problema vitale della comunità brontese. Attorno ad essa, perciò, aveva finito col qualificarsi buona parte della lotta politica municipale nei decenni immediatamente precedenti.
Ma il conflitto che su di essa si scaricava non era un conflitto tra poveri e ricchi, centrato attorno ai problemi d'una ridistribuzione della proprietà, nella forma sbrigativa in cui Verga riteneva di poterlo rappresentare. La «rivoluzione» del 1860 a Bronte non fu un'operazione di «comunismo primitivo».
A Bronte, il problema della lotta politica attorno alla terra era, a metà dell'Ottocento, l'effetto d'un avvenimento «nuovo»: il fatto dell'esistenza, a partire dal 1799, della ducea Nelson.
Il conflitto che, a questo proposito, si era aperto nel primo Ottocento tra il comune e la ducea potrebbe anche far pensare alla continuazione d'un conflitto antico, quello che nei secoli precedenti aveva visto il comune contrapporsi al precedente feudatario, l'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo.
Ma mentre il conflitto con l'Ospedale si era avviato verso una conclusione che pareva positiva alla fine del Settecento, sull'onda del riformismo borbonico, col duca inglese esso si era riaperto in tutta la sua ampiezza, rinfocolato da non pochi elementi di «reazione signorile».
Il ceto politico brontese si era spaccato: tra «ducali» (sostenitori del «partito» del duca) e «comunisti» (sostenitori del «partito» del comune) si era aperto così un conflitto nuovo, destinato a riempirsi di contenuti più ampi, allorché non avranno esito nel comune gli effetti dell'abolizione della feudalità dichiarata in Sicilia nel 1812 e si riapriranno questioni e liti - pubbliche e private - su boschi, sciarelle, difese e parapasceri.
Perché il problema demaniale, che aveva costituito un grosso problema in tutti i comuni dell'isola, si era complicato a Bronte, per la presenza del duca inglese, degli effetti d'una grande questione diplomatica. Su questo conflitto finirà per evolversi a Bronte la vicenda dei «partiti».
Dodicimila all'epoca dei fatti, erano 8.862 gli abitanti di Bronte al censimento del 1832, quello di cui si conservano le carte con le indicazioni nominative presso l'Archivio di Stato di Catania.
La povertà di grandissima parte di questa popolazione era nota. La mitologia relativa alla presenza d'una grande attività industriale nella Sicilia preunitaria può trovare anche a Bronte le sue pezze d'appoggio.
Pensiamo un momento alle professioni femminili: il censimento del 1832 conta diverse centinaia di «filatrici e di «industriose». Esse però non appaiono nel sommario finale di condizioni e professioni redatto dai responsabili delle operazioni censuarie, a conferma che tali qualifiche - applicate peraltro esclusivamente alle donne capofamiglia, le vedove in particolare - erano nella stragrande maggioranza dei casi, a Bronte come altrove, nulla più che pietosi sinonimi di «povera».
Su quasi 2.000 maschi adulti che dichiaravano una condizione professionale, i bracciali erano 1.212 e i pecorai 249. Diciannove erano coloro che dichiaravano titolo o professione di legali, dieci i medici, sessantacinque i preti, trentadue i monaci, nove i notai e tre i farmacisti.
Venivano poi le diverse attività artigianali, tra le quali erano più rappresentate quelle di calzolaio (75), falegname (46), muratore (43), ferraio (40). Centoquindici, tra uomini e donne, erano i possidenti senza altro titolo, otto quelli che, senza altro titolo, potevano fregiarsi di quello di proprietari.
Un riscontro sulla situazione del catasto, redatto pochi anni dopo, conferma come la gerarchia delle professioni s'accompagni parallela alla gerarchia della rendita fondiaria.
Peraltro, entro le due liste, e perciò anche entro la lista degli eligibili e nelle cariche municipali, ai livelli più considerevoli si ripropongono sempre gli stessi nomi, le stesse famiglie: i Cimbali, i Margaglio, i Luca, i Saitta, i Leanza, i Minissale, gli Zappia, i Meli. Da qui le alleanze: in una dimensione della comunità formalmente vasta, le relazioni matrimoniali tra i notabili seguivano di generazione in generazione percorsi poco variati.
Gli Zappia s'imparentavano coi Leanza coi Mauro, i Margaglio coi Mauro e con gli Artale, i Leanza coi Saitta e con gli Spitaleri, i Cimbali coi Palermo e coi Saitta, e così via. L'endogamia sociale era in fondo una condizione di sopravvivenza nello status. Ma tutto questo non bastava a tenere a freno i conflitti di potere che, sul piano dell'esercizio delle professioni, sul piano delle candidature alle cariche municipali, scaturivano dalla ristrettezza di quei rapporti.
Ampio quanto a popolazione, il paese era certamente più stretto quanto a canali di mobilità sociale. Il controllo del potere municipale, con le sue finanze, coi suoi demani, con gli appalti, con le usurpazioni, con la possibilità di mantenimento dei seguaci, era perciò al centro delle lotte e dei conflitti.
Peraltro, la strada delle professioni passava al margine delle opportunità che una famiglia aveva potuto ottenere dalla carriera ecclesiastica, fuori dai confini del comune, di qualcuno dei suoi membri. Ne sapevano qualcosa i Saitta, che avevano avuto in famiglia un vescovo, e i De Luca, che vantavano allora un cardinale.
Finché la questione della distribuzione dei demani non si porrà come la chiave per l'esplosione del conflitto sociale su un terreno non più controllabile attraverso gli strumenti a disposizione delle élites tradizionali, alla classe politica brontese, nei grandi momenti della storia siciliana, basterà barcamenarsi: forse maligna, e certo non rappresentativa del complesso dei comportamenti delle élites politiche locali, l'osservazione di Gesualdo De Luca(a destra in un quadro di Nunziato Petralia, Ndr), sui modi della neutralità brontese nel conflitto tra Palermo e Messina durante i fatti del 1820, lascia adito a qualche riflessione: «Re Ferdinando, rifugiato in Palermo, rifece il Parlamento all'uso spagnuolo. Se ne contentò Palermo, ne arse di sdegno Messina. Indi la scissero.
Bronte si stette neutrale, e tenendo pronte lunghe fasce a maglia di colore rosso e di colore giallo, accoglieva i messi or dell'una, or dell'altra città, incontrandoli il popolo ornato il petto delle fasce del rispettivo colore». Ma gli avvenimenti «militari» al centro dei quali si trovarono i brontesi nel 1820 non furono senza effetti sulle possibilità di movimento nelle successive scadenze «rivoluzionarie».
Dopo il primo sommario processo, fatto istruire da Bixio davanti alla commissione speciale nei pochi giorni che restò a Bronte (dal 6 al 9 agosto 1860) e concluso con cinque condanne a morte, ne seguì un altro, celebrato davanti alla Corte d’Assise di Catania. Si trascinò per tre anni e si concluse nel 1863 con 37 condanne tra cui 25 ergastoli.
Michele Tenerelli Contessa era l'avvocato catanese che difese davanti alla Corte d'assise di Catania alcuni imputati del secondo processo.
L’ntervento di Tenerelli-Contessa - appassionato, lucidissimo, d'un avvocato colto e intelligente - pubblicato nel 1863 dalla Tipografia La Fenice di Musumeci (Catania) è stata ristampato recentemente dalla "C.u.e.c.m." (Catania, 1989) a cura del brontese prof. Gino Longhitano.
Per gentile concessione dell'autore e della C.u.e.c.m., riportiamo la parte introduttiva del libro.
Nel disegno sopra: Bronte all'epoca dei Fatti (tratto dalla Storia della Città di Bronte, di p. Gesualdo De Luca, 1880)
GINO LONGHITANO, nato a Bronte nel 1940, professore di Storia moderna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Catania, è autore di numerosi libri. Tra le sue pubblicazioni, Il progetto politico di Francois Quesnay - Materiali e note per una riconsiderazione dell'agrarismo fisiocratico, Catania 1998; Ricchezze, valori, società - La "nuova scienza" e i modelli sociali nella Francia del secondo Settecento, Vicenza 1993; Traité de la Monarchie di V. de Mirebeau e F. Quesnay, Paris, 1999.
«Quando nel banco dei rei siedono molti accusati, allora bisogna ricercare in tutt'altro che nell’umana malvagità la cagione dei loro reati» (M. Tenerelli Contessa)
I Fatti di Bronte
Perchè Garibaldi si è prestato alla repressione?
l'opinione dello storico Salvatore Lupo
«Paradossalmente Garibaldi finisce per intervenire a fianco del partito Borbonico contro il locale Partito liberale». «L'insurrezione di Bronte faceva parte della rivoluzione e si legittimava con essa»
Professore ordinario di storia contemporanea all'Università di Palermo e precedentemente docente di Storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Catania, Salvatore Lupo (Siena, 7 luglio 1951) è tra i maggiori storici contemporanei. E' presidente dell’IMES (Istituto Meridionale di Storia e Scienze Sociali) di Catania, vicedirettore della rivista storia e scienze sociali dell'istituto "Meridiana", nonché uno dei più quotati studiosi della mafia in ambito italiano, autore di numerose pubblicazioni sul fenomeno criminoso e di storia contemporanea.
Leggi tutti i documenti del processo istruito in tre giorni - dal 7 al 9 Agosto del 1860 - dalla Commissione Mista Eccezionale di Guerra nominata da Bixio.
I documenti e gli atti giudiziari relativi ai cosiddetti "Fatti di Bronte" che avvennero nei primi giorni di agosto del 1860 a Bronte e in alcuni paesi limitrofi, e le carte del Processo in Corte di Assise di Catania che si trascinò per tre anni e si concluse nel 1863 con 37 condanne tra cui 25 ergastoli, sono conservati sotto il titolo Processo di Bronte nell’Archivio di Stato di Catania (16 volumi di scritture, Buste I – XVI, Estremi cronologici 1860 – 1867).
Leggi l’appassionato intervento dell'avv. Michele Tenerelli-Contessa davanti alla Corte di Assise di Catania (1863), ristampato dalla "C.u.e.c.m." (Catania, 1989) a cura del prof. Gino Longhitano.
Ora, furono proprio i ricordi di tali capacità militari a far intravedere una linea di soluzione extragiudiziaria della lite con la ducea. Essa s'inserì nel contesto della rivoluzione del 1848 e si manifestò attraverso l'occupazione popolare delle terre contestate. A dirigere e ad approvare il movimento fu una parte dei «comunisti» brontesi, i fratelli Minissale in primo luogo.
L'occupazione ruppe l'unità entro il partito dei «comunisti» e finì col costituire, dopo il fallimento del '48 siciliano, la ragione prima dell'isolamento politico in cui vennero a trovarsi i settori più radicali del ceto politico brontese.
Data da quei momenti la sfortuna politica dei Lombardo, dei Minissale, dei Sanfilippo. Da allora, sino al 1860, essi resteranno isolati, esclusi dal potere municipale. Peraltro, il '48 peserà fortemente nella polemica politica locale. I «ducali» non mancheranno di approfittarne direttamente e indirettamente.
Nel giugno del 1851, il dottor Luigi Saitta veniva destituito dalla carica di sindaco, dietro pressione del rappresentante della ducea, perché, amministrando gl'interessi del comune, si era reso responsabile di «abuso di potere» in danno degli interessi della duchessa Nelson. Ma la liquidazione dei «comunisti» più radicali non riuscì a sedare i conflitti di potere. Le accuse di «immoralità» che corredavano - anonime e firmate - le obiezioni incrociate sulle diverse candidature a sindaco, a primo e a secondo eletto, continuavano a gravitare tutte, in maniera più o meno strumentale, per tutto un decennio, sulle responsabilità dei candidati nei fatti del '48.
Nel 1853, Francesco Cimbali, fratello maggiore dell'allora più noto Antonino, essendo stato proposto alla carica di primo eletto, si vide scaraventare addosso, da una lettera anonima, le accuse di «strangolamento e furto di grossa somma in persona della vedova Nunzia Fiorenza»: l'anno prima, candidato alla carica di sindaco, era stato affrontato da Vito Margaglio, che aveva evidenziato apertamente la sua responsabilità in omicidi, relativamente ai fatti del '48, e la cattiva fama politica della famiglia, essendo figlio di Giacomo Cimbali, un ex sindaco del comune - odiato ferocemente dai «ducali» - condannato per irregolarità amministrative.
«Immorale» si vedeva definito Bernardo Meli per la sua partecipazione ai fatti del '48. Pericoloso Fiorini, perché membro del comitato del '48, oltre che imparentato con Guglielmo Thovez, amministratore della ducea. E così via, quanto alle accuse «politiche». Ma c'era anche dell'altro: a Vito Margaglio non si mancava di ricordare la destituzione di cui era stato oggetto quando aveva esercitato l'ufficio di giudice a Centorbi, mentre «immorale» era dichiarato il notaio Zappia per le «falsità» di cui si sarebbe reso responsabile nella sua attività professionale.
Un flusso periodico di lettere anonime, scandito sui ritmi della sua conferma e diretto a sottolineare una lunga pratica di contabilità disinvolta, riguardava Francesco Aidala, cassiere del comune. Nella cerchia assai ristretta di avvocati, medici e notai, entro cui di fatto si realizzava la concorrenza alle cariche municipali più ambite, la lotta rimaneva feroce: vi entravano motivi di ogni genere, non ultime le gelosie professionali.
Nel redigere le proprie memorie per la stampa, a metà degli anni Ottanta, Antonino Cimbali non aveva ancora dimenticato che Placido Lombardo gli aveva stroncato, diversi decenni prima, una promettente carriera di medico, avendo dimostrato che, di ritorno da Napoli - ove aveva svolto una parte dei suoi studi aiutato dalla liberalità dei fratelli Placido e Antonino Saverio De Luca -, egli aveva intrapreso l'esercizio di quella professione senza aver conseguito la laurea.
Ma tutto quello che attraverso beghe e conflitti interminabili finiva comunque col creare le nuove aggregazioni politiche locali, ridefinite sul fatto grosso dell'esclusione dei democratici dal potere municipale, rischiava di venire vanificato dall'arrivo, nel 1860, di Garibaldi in Sicilia. Ché il dato naturale di quella presenza politica e militare pareva doversi tradurre a Bronte nella logica aspettativa d'una improvvisa e trionfale resurrezione politica dei Lombardo, dei Minissale, dei Saitta, nella sostanziale approvazione dei loro comportamenti durante i fatti del 1848, nel riconoscimento - sancito in qualche modo indiretto dal decreto del 2 giugno - della giustezza delle loro posizioni radicali in materia di destinazione dei demani.
A Bronte e nei comuni dove il '48 aveva lasciato aperti problemi simili, la questione demaniale rischiava di passare tutta attraverso la soluzione prospettata dai democratici nel 1848. Il 1860 di Garibaldi rischiava così di dover chiudere i conti aperti della rivoluzione precedente, di chiuderli lungo una linea che non aveva molti punti di contatto con la dimensione nazionale entro la quale doveva muoversi - nelle intenzioni di Crispi, che ne teneva le fila - l'operazione garibaldina in Sicilia.
E tutto questo, insieme alle pressioni inglesi su Garibaldi e sul governatore di Catania, può spiegare le ragioni per cui, al momento della costituzione del nuovo consiglio civico brontese - prevista dal decreto legge 17 maggio 1860 come conferma del consiglio civico esistente prima della restaurazione borbonica, con la sostituzione, da parte del governatore, di coloro che nel frattempo fossero morti o che si fossero resi responsabili di collaborazione attiva col governo «illegittimo» dei Borboni -, non saranno tanto i borbonici ad essere esclusi dal consiglio, bensì i democratici del gruppo dei Lombardo, dei Saitta, dei Minissale, che avevano tutto il diritto di farne parte.
Così la presenza garibaldina in Sicilia finiva col funzionare a Bronte come uno strumento di definitiva emarginazione delle sinistre dal potere municipale e come un appoggio obiettivo al ceto politico della restaurazione. Che era quanto i democratici locali non potevano certamente credere. «Si cridunu che sunu dudici anni che semu oppressi», così è verbalizzata in uno strano dialetto, dal delegato della sicurezza pubblica in Catania, il 3 agosto 1860, la testimonianza di Vincenzo Isola su ciò che gli avrebbero detto Silvestro Minissale e Nicolò Lombardo a Bronte il 26 giugno, «non potiri portari armi e non avere impieghi, ed ora, si crìdunu di non essiri calculati, se lo possono livari dalla testa, e succidissi la peggiu di lu paese».
L'esclusione dei Lombardo, dei Minissale, dei Saitta, dei Sanfilippo dal consiglio civico lasciava tutta fuori dalle istituzioni municipali, immediata ed incontrollata, la dinamica del conflitto sociale.
L'élite politica locale, quella riconfermata o inventata per l'occasione dal governatore Tedeschi, di fronte al pericolo d'una reazione popolare, prenderà quasi tutta il largo, riservandosi di tornare in paese a cose risolte.
Dei quattro capitani delle compagnie di guardie nazionali di nuova istituzione, solo Lombardo, a capo di quella composta essenzialmente di contadini, resterà al suo posto: e finirà con l'essere così, nello stesso tempo, il capo politico designato dei «rivoluzionari» brontesi e l'unico responsabile, davanti alle autorità della provincia, dell'azione repressiva che gli si chiede insistentemente contro gli stessi «rivoluzionari».
E i moti scoppiano e procedono irrefrenabili, nei primissimi giorni di agosto, nella certezza popolare che Lombardo sia in diretto contatto con Garibaldi, che abbia la completa copertura di quest'ultimo e che le scelte politiche relative al rinnovo del consiglio civico fossero il risultato d'una congiura locale, ordita da «sorci» (ossia borbonici camuffati), da «civili» e da «mastri», a difesa delle usurpazioni perpetrate ai danni del demanio comunale, contro la destinazione sancita per esso dai precedenti del 1848.
L'avvocato Nicolò Lombardo viene nominato presidente del municipio e il dottor Luigi Saitta è messo a capo del consiglio civico, a furor di popolo.
Il conflitto conoscerà episodi collaterali di ferocia, con devastazioni, incendi, saccheggi, assassini, ma si limiterà a bersagli particolari, e colpirà quasi esclusivamente personaggi compromessi con gl'interessi della ducea e borbonici notori: ma scoppierà col carattere d'una «grande paura», da parte dei suoi autori in primo luogo - se ne veda il racconto del cappuccino Gesualdo De Luca, che si trovò in mezzo agli avvenimenti, o la ricostruzione di Benedetto Radice, che se li fece raccontare -, terrorizzati dal fatto di essere essi le vittime del «tradimento» dei civili e dei mastri, e con un generale bisogno di mediazioni e di processioni religiose purificatrici.
I moti dei primi di agosto segnarono però la fine politica di Nicolò Lombardo. Dopo la comprensione manifestata da De Angelis e da Poulet, comandanti delle prime colonne militari fatte affluire a Bronte per ristabilire l'ordine pubblico, l'arrivo di Bixio comportò la cancellazione di ogni altra interpretazione che non fosse quella d'un ordine turbato da ladri ed assassini.
Ma il processo sommario, che Bixio organizzò seduta stante, vide dappertutto ladri ed assassini - gli atti del primo processo sono pieni di liste di delinquenti comuni sospetti -, ma finì col condannare fondamentalmente i politici: in primo luogo Nicolò Lombardo.
E che farsa di processo! Chi non ha letto attentamente i verbali non può farsene un'idea adeguata. Un assassinio legale mal concepito e mal eseguito. Una liquidazione fisica ideata come preciso strumento d'una definitiva liquidazione politica.
Gl'imputati si difendono praticamente da sé, come possono: solo testimoni a carico, quelli a difesa non sono accettati. Ai testimoni a carico sono proprio Lombardo e Saitta a fare le contestazioni nel dibattimento. L'avvocato non interviene mai. Il verbale dice comunque che la commissione pronuncia la sua sentenza dopo aver interrogato i testimoni a difesa (un falso vero e proprio, dal momento che la stessa commissione aveva deciso di non ammetterli) e dopo aver ascoltato «la parlata del difensore».
E sarebbe certo interessante sapere cosa avrà potuto dire nella sua «parlata» Nunzio Cesare, se solo qualche giorno dopo lo vediamo farsi promotore d'una iniziativa che mira ad estendere, visto che la mediazione politica era stata esclusa per la liquidazione fisica dei capi del movimento, il giudizio sommario in loco, da parte della stessa commissione eccezionale di guerra, nei confronti di alcune centinaia di arrestati nelle carceri di Bronte; se un mese dopo, il 15 settembre 1860, lo ritroviamo al primo posto fra i firmatari di una supplica che porta cinquantatre firme, quelle dei bravi civili brontesi, quegli «onesti cittadini» che fino a qualche mese prima, in documenti firmati e in lettere anonime, solevano onorarsi vicendevolmente dei titoli di ladro e di assassino, e che tutti insieme ora, i Meli, i Cimbali, i Margaglio ed altri ancora, felicemente ricompattati sui cadaveri dei loro comuni nemici, danno la loro spiegazione dei fatti: «[...] pria dei giorni nefasti, in cui avvennero le atrocità, gli assassinii ed i furti, in questa desolata Comune tutto era ordine, e solo l'opra di alcuni infami ribaldi che parteggiavano per la causa del Borbone fu nascostamente da prima, e poscia apertamente, la causa fatale della rovina. Costoro [...] devono essere prontamente e con severità puniti».
Sarebbero stati dunque borbonici i seguaci di Lombardo, contrari al «governo di verità e di giustizia» che essi, garibaldini di complemento, si preoccupavano da sempre d'instaurare! Un'infamia vera e propria; si ribellerà persino il governatore della provincia di Catania. Né Bixio, né la commissione militare erano stati capaci di usare un linguaggio così ignobile!
Ma su quella linea si erano compattati i rappresentanti del ceto politico brontese, che dall'impegno volontario nella restaurazione borbonica si apprestavano a passare di lì a poco, armi e bagagli, nella Sinistra di Francesco Crispi: col disprezzo preventivo di Nino Bixio, che aveva dovuto sporcarsi le mani a loro vantaggio, e non «borghesi» aveva deciso di definirli, ma molto più semplicemente «vigliacchi».
Tre anni dopo, al secondo processo sui fatti brontesi, celebrato davanti alla Corte di assise di Catania, gli avvocati della difesa dovettero misurarsi ancora con buona pane di questa concordata ricostruzione dei fatti. E non riuscirono a smontarla del tutto. Ci tentò, con l'arringa che qui ristampiamo, l'avvocato Tenerelli Contessa. E un'arringa appassionata, lucidissima, d'un avvocato colto e intelligente, d'un politico raffinato: a leggerla si rischia in molti punti la commozione.
Certo, Nunzio Cesare, tre anni prima, davanti alla commissione eccezionale di guerra, non può aver detto le stesse cose. Anche perché le sue posizioni politiche non gli consentivano di porsi il problema d'un'autocritica della gestione che i democratici avevano fatto della rivoluzione meridionale, nei termini in cui Tenerelli coraggiosamente e lucidamente li pone. Ché non si poteva, come gli uomini di Garibaldi avevano fatto, chiamare il popolo alla rivoluzione, farne il garante della legalità rivoluzionaria e ad esso esclusivamente chiedere conto poi del sangue che la rivoluzione stessa aveva fatto versare.
«C’è una parabola paradossale che segna tutte le rivoluzioni, portandole da una fase di massima utopia ad una normalizzazione triste, quando le idee e gli eroi prima osannati vengono nascosti, negati, persino condannati; mentre la storia, almeno apparentemente, prende una strada che curva verso ilpassato. George Orwell ne ha fatto una figura universale nell’indimenticabile Napoléon de “La fattoria degli animali”.
Così successe alla rivoluzione francese, che abbatté il regno che sapeva di vecchio, eresse la repubblica che esalava fragranza di nuovo, e si trovò dieci anni più tardi a riesumare col Bonaparte le insegne imperiali dell’antica Roma.
Il processo ai cinquantuno imputati dei misfatti di Bronte, che si apre nella Corte d’Assise di Catania il 15 giugno del ‘63, costituisce un piccolo argomento di questa non nobile consuetudine dei fatti umani. La lettura degli atti di quel processo è poi un’occasione preziosa perché gli storici ringrazino il buon animo della loro stella, che li ha destinati alla lungimiranza della loro arte piuttosto che alla miope pratica del diritto.
La prolusione del Presidente cavalier Antonino Ferro è un capolavoro della retorica risorgimentale; ma è anche un documento impressionante del processo di revisione storica compiuto dal nuovo regime; e dello scaricamento dei ceti popolari operato dall’establishment unitario. La normalizzazione è ormai compiuta, le utopie innescate dal proclama del 2 giugno digerite ed assimilate, i fessi che c’erano cascati benserviti.
Il Presidente può allora così raccomandare: “... per voi signori giurati è un nulla la storia. Per voi non valgono le origini, le cagioni prime. Per voi i fatti, è questi soli che voi dovete giudicare”. I contadini brontesi perdono il diritto alloro contesto, a quelle che gli avvocati dicono le circostanze attenuanti.
Il ceto borghese di Bronte, ducale e borbonico, non ha tardato a mettere le vesti tricolori; perciò i suoi esponenti hanno il diritto al rispettoso appellativo di civili e all’ancora più rispettoso silenzio sul loro passato di abusi e sopraffazioni. Anzi già che s’era in ballo, tanto valeva spazzare ogni residuo senso di colpa sulla sorte di Nicola Lombardo: “... il primo a spargere i civili esser nemici del popolo” e naturalmente “doversi tutti scannare, perché erano di ostacolo alla divisione delle terre comunali”.
Il giudizio storico è ormai concluso; la prospettiva borghese e insensibile alle richieste popolari di riforma agraria assunta come naturale; l’avvocato Lombardo bell’e sistemato. Poco varrà che le audizioni successive restituiranno un quadro più equilibrato; nella seduta iniziale il Presidente ha di già il suo parere imparziale.
Non manca per incidente un momento di riflessione, quando al Presidente quasi scappa che a monte della barbarie di quegli assassini dovesse esserci la responsabilità di qualcuno: poi per fortuna spunta un appiglio astratto, una sfera dei massimi sistemi dove le facce dei colpevoli appaiano sfocate e non riconoscibili; e un fervorino antiborbonico vitupera “quell’infame dinastia” che “ci lasciò larga eredità di odi repressi, di discordie cittadine, di virtù spregiate e derise, di vizi, di spionaggi, di turpitudini”. E meno male!
Tutto è passato, tutto ora è normalizzato. I raggiri, le ambiguità, gli abusi della borghesia ducale lasciati al giudizio della storia, quella vaga dell’epoca borbonica; le attese e le speranze, le frustrazioni e le umiliazioni dei miserabili rimosse, negate.
L’avvocato Paolo Figlia, che di quel processo fu consigliere, commentando il dibattimento lo stesso giorno della prima udienza, poteva a buon diritto negare la finalità politica del moto brontese, perché coloro “... ch ‘eccitano alla guerra civile è necessario che siano mossi da un pensiero politico, e che politica sia la cagione della discordia che spinge gli uni contro gli altri cittadini”; pertanto quei fatti successi nei primi giorni dell’agosto del ‘60 “non possono che rientrare nelle regole generali dei danni alla proprietà, degli incendi, degli omicidij”. Dunque assassini! Senza scusanti, senza la rispettabilità di un movente affossato in una storia millenaria che spiegasse il loro agire.
Pover’uomini, privati di tutto, della terra, della dignità, persino della ragione che li aveva condotti alla bestialità Perciò bestie e basta che avevano a un certo punto indirizzato la loro selvaggia e turpe natura su quei galantuomini dei civili, veri rivoluzionari, autentici italiani del risorgimento e del nuovo Paese finalmente unito.
La storia italiana ora poteva essere scritta senza macchia. Quei disperati potevano raggiungere stupefatti le celle dello Stato che avevano pensato a modo loro di costruire; le mogli e i figli, raggelati, potevano cominciare a fare le valigie e a ingrossare inespressivi le fila di maschere silenti che aspettavano i vapori per le Americhe.»
(Dalla Postfazione Un destino feudale) di Vincenzo Pappalardo in La Ducea di Bronte di A. Nelson Hood, Bronte, 2005)