I Fatti del 1860

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Antefatti - Decreti di Garibaldi - Situazione locale - I Fatti dal  2 al 9 Agosto - DIBATTITI E RICOSTRUZIONI
 

Cenni storici sulla Città di Bronte

Amico del Gen. Poulet, cercò in tutti i modi di riportare la pace fra le diverse fazioni

I Fatti di Bronte narrati da padre Gesualdo De Luca

I Fatti del 1860

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«Dopo le rivoluzioni del 1820 e del 1848 vi rimase sepolto gran fuoco, che nel 1860 divampò orribilissimo»

«Giunto Garibaldi in Palermo, ed evasi dalle carceri i più grandi facinorosi, si appiccò un incendio generale contro i ricchi ed i nobili in ogni mediocre e piccolo popolo»

(…) Alla rivoluzionaria pretesa che la Sicilia costituisse un regno a sè, avesse il suo Re in Palermo, e non si avesse il fastidio ed il dispendio di dipendere da Napoli, aver da cola i suoi medii i ed alti governanti, in ogni grave affare dover valicare per Napoli; successe la foja dell’Italia una, indipendente, forte, e si convenne che la Sicilia, che non volea nel 1848 dipendere da Napoli, fosse la prima ad essere annessa all’Italia una, e dipendere dal lontanissimo Torino.

All’alto disegno fu mandato in Sicilia Garibaldi coi famosi mille.

Non era Garibaldi ancora arrivato in Palermo, stava ancora in piedi il Governo Borbo­nico: ed in Petralia Sottana cospirarono dodici audacissimi campagnuoli, fecero disegno d’impadronirsi delle case di dodici primarii signori; ed impazienti uscirono alcuni fuori paese portanti due soli fucili, per disfarsi del sindaco; l’incontrarono, lo distesero a terra.

Caricò il nipote, ch’ era a fianco dell’interfetto sindaco, e ne rimase vittima uno degli assassini.

Corsero in paese, presero le armi civili e villani congiurati, n’ebbero la peggio i più dei plebei inermi. Accorsero i soldati da Cefalù, fecero degli arresti, tacque il tumulto in Petralìa inferiore.

Il Comunismo avea appiccato dapertutto le sue fiammelle, gli emissarii della rivoluzione aveano accumulato grande esca all’odio delle plebi contro l’aristocrazia. Giunto Garibaldi in Palermo, ed evasi dalle carceri i più grandi facinorosi, si appiccò un incendio generale contro i ricchi ed i nobili in ogni mediocre e piccolo popolo.

La nobiltà di Cefalù fu ad un pelo di simultaneo e totale eccidio nella sala di conversa­zione. Avvertita si armò, stette vigile notte e giorno, non risparmiò danaro, salvossi. Similmente i civili di Castelbuono, memori del 1848. Nella stessa guisa furon salvi la massima parte dei civili di tutta la Sicilia.

Non cosi, ove questa guardia non si ebbe. Presso alle due Petralia, in Resuttana, ed in Polizzi, e vieppiù in Mistretta le prime crudeli scene di stragi cittadine.

Orribile fu il massacro dei civili ed anche dei loro fanciulli fatto in Alcara li Fusi dentro la sala di loro unione. Non meno orribile la strage fattane in Biancavilla ed in Nissoria. Tusa in parte, maggiormente Montemaggiore e Capace ebbero a versare lagrime.

Molti altri Comuni deplorarono incendii e stragi. Emissarii di Biancavilla e di Alcara sten­devano le fila di una simultanea ribellione per cittadini eccidii in Castiglione, Maletto, Bronte, Cesarò, Adernò, Centorbi, Regalbuto ed altri luoghi.

Civili sagaci in Cesarò si stettero sull’avviso; memori del 1848 quei di Adernò e di Regalbuto non vi dormirono sopra.

Un fatale torpore ingombrava Bronte. Scappati dall’ ergastolo o dai ferri accendevano gli animi, dando sicura l’immunità da ogni pena sulla parola di Garibaldi.

Gli animi dei plebei erano esacerbatissimi contro due infelici Vincenzo Lo Turco e Giovannino Spedalieri; chè dati di guide al Regio Controllore, per ordinare il nuovo catasto fondiario, caddero in mille errori, nell’indicare i possessori e la quantità dei fondi. Da ciò odio implacabile contro questi

 

Il brano è tratto dal li­bro «Storia della Città di Bron­te» (Milano Tipogra­fia di San Giuseppe, 1883, pagg. 200-212) scrit­to (Con per­missione dei Superiori dell'Or­dine) dal frate cappuccino padre Gesualdo De Luca (Bronte 1814 - 1892). Il libro ripub­blicato in co­pia ana­statica per la Ban­ca Mutua Popolare nel gen­naio 1987, è stato digitalizzato a nostra cura ed è disponibile gra­tui­tamente per i nostri visitatori in formato .

In queste pagine, tratte dal capitolo "Turbolenze civili nel secolo XIX",  il frate cappuccino, conservatore e filo­bor­bo­nico, descrive ciò che diret­ta­mente vide e visse a quaranta­sei anni nei giorni tragici del­l'agosto 1860.

IL FRATE CAPPUCCINO PADRE GESUALDO DE LUCAIl «Sacerdote cappuccino amico del Poulet» del qua­le, non facendone il nome, scrive in queste pagine il buon padre Gesualdo è proprio lui stesso che cer­cava di paci­ficare gli animi e ristabilire, da buon borbo­nico e conser­vatore qual'era, l'ordine.

Benedetto Radice, un altro storico brontese, scrive di lui che era "noto al mondo ecclesiastico per le sue opere di diritto canonico, per l'amore ai borboni e per il suo spirito turbolento". Ma per quest'ultimo aspetto forse fu ingiusto. Padre Gesualdo De Luca fu uno scrit­tore versatile (pubblicò oltre 100 libri di vario genere), passio­nale uomo di cultura sempre attento nella ricerca e nella difesa della verità che patì anche il carcere per le proprie opinioni ed anche un libro messo all'Indice.

Fu procuratore generale dell'Ordine dei pp. Cappuc­cini, Let­tore di Teologia Dogmatica e Morale delle scuole dell'Or­di­ne (dove insegnò per quattro anni) e Profes­sore di Diritto ca­nonico, Eloquenza e Meta­fisica al Colle­gio Capizzi (dove ebbe fra i suoi allievi Luigi Capuana).

Gli ultimi anni della sua vita li dedicò al paese natale con la sua "Storia della Città di Bronte" (1883).

Molti giudicano "fantasiose" le ricostruzioni storiche fatte da padre Gesual­do, scritte più con amore che con studio; un altro nostro storico, B. Radice, definì "caotico" il lavoro fatto, anche se, afferma, "di che gli va pur data lode".

Gesualdo De Luca morì a Bronte il 27 febbraio del 1892. E’ sepolto nel cimitero di Bronte sul pavimento davanti all’al­tare della Cappella dell’Ordine Fran­cescano. [aL]

 

Il libro di G. De Luca Storia della Città di Bronte

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Odio vecchio e profondo rancore contro un notajo di asprissimi modi. Profondo rancore avverso gli ufficiali della Ducea e del Comune, per la perdita fatta soffrire ai campagnuoli ed agli armentarii e mandriani, con la privazione dei privilegii e diritti antichi del popolo negli usi di far legno liberamente, verde e secco per qualsiasi uso; e liberamente seminare, innestare alberi selvaggi, e per la violazione delle Difese e dei Parapasceri e simili.due infelici.

Erano queste materie attissime a divampare in vasto incendio, postavi sopra appena una scintilla di fuoco. Si riaccesero gli odii, i rancori, i partiti e le scissure dei civili non sfogati nel 1848. Gli emissarii da paesi stranieri andavano. e venivano.

Gli scappati dagli ergastoli e dai ferri percorrevano su e giù le aperte campagne, le masserie, i boschi; accendendo e preparando gli animi per la festa dei cinque agosto, che cadeva in giorno di Domenica.

Era un vocio pubblico, solenne, che in quel dì avea da farsi la scanna dei gentiluomini, e provvedevansi di armi e munizioni. Abbenchè vi fossero più corpi di guardie cittadine capitanati da buoni civili, non si venne ad una determinazione atta ad impedire si grande tempesta, che addiveniva sempre più minacciosa.

RIVOLUZIONE SICILIANA, 1860Si venne all’arresto di cinque caporioni; sì fecero evadere dal carcere, e fu peggio. Se ne rovesciò la colpa su quattro fratelli falegnami di cognome Lupo; e la tempesta ingrossò.

Si facevano crocchi tra i minacciati, e si conchiudeva a nulla. Dai congiurati si fecero precedere dimostrazioni serotine dei futuri incendii e di morte sotto i finestroni delle case designate a vittime.

L’ultima fu ai 29 luglio da una torma di fanciulli e pochi adulti, con fiaccole accese e spente sotto le case minacciate, ed anche col cataletto e canto del Miserere in vista alla casa del sindaco signor Antonino Leanza. Questi il posdomani, in pieno giorno, alla vista di tutti sen parti con un suo fratello, e si rifugiarono in Randazzo.

Ai trentuno di luglio partirono pubblicamente per Catania alquanti civili e persone della Ducea. I congiurati avvedendosi che le loro vittime scappavano, deliberarono di anticipare l’ordita strage.

Era notissimo che la prima loro operazione dovea essere quella di circondare di armati il paese sul far della notte, acciò niuna scappasse delle vittime: e questo avea da farsi in tutti i prenominati Comuni la notte dei quattro agosto. Fu anticipata questa operazione, ed in Maletto tumultuarono ed uccisero un civile. Tumultuarono in Castiglione e fecero sangue.

La sera dei primo di agosto alle tre di notte si udirono fucilate nella via rotabile, cen­tra­le, accanto al Convento dei Cappuccini; e tosto udivansi rumori e voci di uomini, che svegliavano pacifici dormienti, e li costringevano a prendere le i armi ed andare ai posti. In breve furono collocate pattuglie al primo serro di Salice, a S. Antonio di Padova, allo Zottofondo, allo Scialandro, ai Fumizzari o Cona della Catena.

Verso mezzanotte suonò a stormo la campana della Chiesa di S. Antonio, e poi quella di Maria SS. del Riparo. Tosto quanti dei civili vollero fuggire, fuggirono; e molti se la svignarono scortati da buoni e pietosi villani; dei quali non tenevano sospetto i congiurati. I caporioni stessi scortarono alquanti raccomandatisi loro con danaro, preghiere e lagrime.

Fatto giorno, ci trovammo assediati, moltissimi non credevano ai proprii occhi, riputavano ancora un frullo, un’apparenza l’orribile minaccia pubblica. Di mattina alquanti giovanetti civili, imprudentissimi, si accostarono alla guardia di Salice, e se n’ebbero un salve di fucilate. Niuno fu ferito, fuggirono, e Nunzio Battaglia ne menò grande rumore sulla piazza. Che non l’avesse fatto! Poco stante di mattina fu ucciso Carmelo De Luca Curchiarella, Guardia rurale, per essersi millantato, con tre guardie del posto dei Fumirazzi, di averne ad uccidere cinque. Erano amici dei cinque minacciati le tre guardie.

Giovani Preti, buoni artisti, civili si univano qua e là, per prendere una risoluzione amichevole, e armata; non si conchiuse nulla. Il Sacerdote D. Giuseppe Minissale con altri Preti recaronsi al posto dei Fumirazzi: con buone ed alte parole furono fatti tornare indietro.

Giunsero dai boschi i carbonari con le loro grandi accette.

Bronte nel 1832 (da un dipinto di Giuseppe Politi)Alle ventitre del giorno si uni­ro­no ar­ma­ti sul largo di S. Vito (la chie­sa in alto a destra nel quadro di G. Politi del 1832, Ndr) i masna­dieri ed i costretti da quelli. Suonarono quella cam­pana a stormo, e tosto divisi in due falangi scesero nel paese.

La più grossa scese a sinistra per la via dei Santi, fermossi più volte, tremando verga a verga, pel sospetto di aversi scariche di fucilate dalle case dei ricchi.

Ma quando tra palpiti e furore percorse libere le strade giunsero al casino di compagnia dei civili, e lo trovarono sgombro; un delirio febbrile l’invase, guastarono ogni cosa di quel luogo, e corsero agli incendii ed ai saccheggi. Ad un tempo costrinsero a seguirli armati un centinajo di onesti e buoni artisti e campagnuoli.

Eravamo presso alla notte, ed innanzi le altre assaltarono la casa dell’avvocato D. Ferdi­nando Margaglio sotto il Collegio nella strada centrale. Procedevano un trombettiere ed armati da fucile. Giunti alla casa da sacrificare, squillava l’orribile tromba, facevasi una scarica di fucilate: niuno ostacolo provato, si accostavano i carbonari con le grandi accette, manovali con grandi pali di ferro. In un attimo erano atterrate le imposte dei  portoni, delle porte intermedie, delle grandi e piccole finestre.

I caporioni fermavansi dinanzi gli usci coi fucili in mano, i loro fidi entravano e davansi da fare sulle casse e canterami, ove erano deposti oggetti di valore, che portavan via a case determinate. Poi vi entrava un fiume di arrabbiati e di ladri. Tutto guastavano e buttavano dalle finestre, imposte, tavole di letto, casse, sedie, altri mobili, ed anche vesti di poco conto e materassi.

Il meglio ed il buono, frumento, cacio, olio e quanto potevasi era portato via da fanciulli, da fem­mine, da malvagia gente, che dal vicinato accorreva. I buoni trascinati per forza servirono, a fare risparmiare le case di tutti i Preti e di molti civili degni di pietà e di compassione, pei quali valse la loro intercessione.

Fu orribilissima quella notte, e per molto tempo mi risuonava all’orecchio l’orribilissima tromba, pareva di vedere le alte fiamme degli incendii.

 Dopo la casa del signor Margaglio fu dato fuoco alle case del signor Vincenzo Saitta suo odiatissimo esattore delle regie imposte, della locanda Lupo, di D. Antonino Cannata e del legname di Lupo e Cannata formato grande rogo: ed alle case di D. Giuseppe Liuzzo avvocato della Ducea, di D. Pietro Sanfilippo buono e ricco signore, di D. Antonino Leanza più volte sindaco, di D. Francesco Aidala cassiere del Comune, di D. Ignazio Cannata odiatissimo notajo, e di maestro Gaetano Lupo e di molti altri, in tutto nella notte del giorno del venerdì ventidue case, stanti in tutti i quartieri del Comune.

La notte era serenissima, splendeva la luna. Il paese sembrava tutto un incendio, quanto parve lunga quella notte! La prima a salvarsi da tanto male fu la casa della signora Vincenza Saitta Pace. Aperta la porta, fece trovare illuminate le stanze, invitò, diede pane, cacio, soppressate, vino in abbondanza. Un grido: Viva la signora Pace, e via. Questo esempio fu imitato, e salvaronsi molti.

L’indomani sul far del giorno, eranvi moltissimi ubbriachi sino alla fronte, ed in massa fecero gran passeggiata, gridando: «Viva l’Italia.» Incominciarono gli eccidii.

Tra primi andarono uccisi il notajo Cannata, l’infelice Vincenzo Lo Turco, e semivivi buttati su roghi ardenti. Nunzio Battaglia capitò fuori paese, colpito da palle, buttato in un grande veprajo fu arso. Il cassiere signor Francesco Aidala barbaramente fu ucciso.

In odio dei parenti e del ceto vennero assassinati i giovani buonissimi Giacomo Battaglia, Giacomo Zappia, Mariano Mauro, ed in campa­gna nel fuggire Vito Margaglio. Fecero scempio di Nunzio Lupo caduto nelle loro mani sotto il Collegio Capizzi. Il fratello Antonino trafitto in campagna. In tutto il venerdì vi furono sacrificate dieci persone.

La mattina del sabbato giunse una squadra di armati spedita dal Governatore di Catania, l’incon­trarono gli assassini, lo circondarono di loro persone e scortarono in Collegio con ordine di non ardire cosa contro loro. Fu arrestato, travestito da pecoraro, e tradotto in Collegio, l’infelice Giovannino Spedalieri. Eransi cola rifugiati altri civili. Tumulto per ucciderli, grido dei buoni per salvarli.

Infine fu chiesto al Capi­tano della squadra catanese il solo Giovannino, per farne scempio sulla piazza: ma per impegno dei buoni non fu consegnato. Fu detto al Capitano di temporeggiare, finchè si radunasse in Collegio una buona mano di cittadini armati, ad oggetto di salvare tutti.

Non fu dato tempo. Dopo mezzodì, suonate a stormo le campane, una folla di arrabbiati in Collegio entrarono, trassero fuori l’infelice Giovannino, D. Illuminato Lo Turco padre all’ucciso Vincenzo, D. Giuseppe Martinez catanese usciere, D. Rosario Leotta catanese contabile della Ducea, con ai fianchi il figlio Guglielmo ed i nipoti Giuseppe e Vincenzo Saitta Mò.

Apparsi sul portone alle sue lagrime il vecchio Lo Turco, alle preghiere del signor Sebastiano De Luca, il giovane Giuseppe Saitta furono lasciati liberi, e si volle tratto a morte il bravis­simo Vin­cenzo in odio al padre Vincenzo Saitta Mò, di cui portava il nome. Per via fu salvato l’allor fanciullo D. Guglielmo Leotta.

Allo Scialandro furono sacrificati l’infelice Giovannino, Leotta, Martinez ed il giovanetto, Vincenzo, che trafitto dalle palle due volte cadde, e si rialzò, chiedendo pietà ed invocando l’ajuto di Maria SS..

LIBERTA', DISEGNO DI BRUNO CARUSOTrascinati vicino la Croce erasi dato fuoco ai cadaveri per abbruciarli. Sopraggiunse il Sacerdote D. Giuseppe Di Bella, pregò di permettere che avessero sepoltura in Chiesa come corpi battezzati, e fu accolta la sua parola. Nel massacro dei quattro fu da un contadino, amico del Leotta, trafitto da palla un giovane villano arrabbiatissimo, che avea attizzato odio contro il buon Leotta; e fu colpito da un amico del Leotta.

Dopo tanto massacro la squadra catanese col suo imbecille Capitano se ne andò via: e molto paurosa sopraggiunse la notte del sabbato sopra l’atterrito popolo. In quei giorni, inutilissimi campagnuoli assumevano il titolo di Capitani, ed a rullo di tamburri bandivano al popolo i loro ordini.

Sorgeva l’alba della Domenica, e fu dato ordine che suonassero le campane delle chiese, ed a porte aperte si celebrassero le Messe. Nella Chiesa del Rosario fu celebrata la prima Messa, e vi entrò un massaro col fucile sulla spalla.

Dopo la Messa fu interrogato sulla piazza del fatto suo, e rispose che tutti i massari erano venuti in paese armati, per farsi i conti con gli assassini e gli incendiatori delle case. Era presente a queste parole l’evaso dall’ergastolo e scampaforca Francesco Gorgone: e borbotto sotto voce é finito al mio coltello di tagliare.

Due disegni aveano essi malfattori architettati. Uno era che in quel dì, segnato ai loro pari dei menzionati comuni, doveano assaltare tutte le case dei ricchi, e farvi man bassa: infine assalire il monastero delle Moniali ed i conventi.

L’altro, che nel caso di sopraggiungere soldati da Catania, li assalissero in più schiere di fronte sulla strada rotabile, e dall’altura di S. Marco.

Aveano anco disposto, che sul far dell’alba si recassero alquanti sulla vetta della Colla, e vedendo approssimarsi truppa armata veniente d’Adernò, ne dassero il segno sparando colpi di fucile uno, due, tre: nei campanili stassero vigili uomini, che alle fucilate di convenzione battessero a stormo le campane. Disposizioni queste ignote agli ecclesiastici ed ai, più del popolo.

Fatto giorno, l’universale del popolo buono raccoglievansi a capanelle discorrendo dei mezzi a far cessare tanta disgrazia. I malvagi tenevan consulta, per vedere modo di spedire una commissione in Catania, che rendesse ragione dei fatti, ed impetrasse amnistia; Un dieci avean preso le corde, per legare ai piedi l’avvocato D. Luigi Spedalieri, trascinarlo sulla piazza ed ucciderlo.

L’odiavano a morte, perche avea immesso Nelson in comproprietà e possesso dei boschi. Buoni amici lo salvarono la notte, il signor Sebastiano De Luca lo campò il giorno. Fecero capo dal Sacerdote D. Vincenzo Leanza e suo fratello D. Nicola per la spedizione a Catania, e ne videro sì brutte, che sen ritrassero.

I FATTI DI BRONTE, GARIBALDINI A BRONTEL’anziano Sacerdote D. Gaetano Rizzo esortò sulla piazza alla pace, ne prese parola l’avvocato D. Nicola Lombardo infaustamente proclamato Capo politico del paese, per voce della sbrigliata bruzzaglia. È deliberato, che in sacra processione si andasse ai posti delle guardie di assedio, per esortare e pregare, che si sciogliessero e ritornassero in paese a porre pace con tutti.

Precedevano pochi Preti e pochi chierici col Crocifisso inalberato, si cantavano le litanie, ed arri­vati al posto di Salice distinguevansi i Sacerdoti D. Vincenzo Leanza, D. Giuseppe Minissale, D. Giuseppe Di Bella, D. Luigi Radice ed il venerando vecchio D. Giuseppe Politi.

L’infelice D. Nicola Lombardo, D. Luigi Saitta ed altri civili seguivano il clero. Gridossi: I Cappuc­cini alla processione e vi furono presti. Tramezzo alle litanie lauretane si andava cantando Viva la Divina Misericordia. Viva la pace.

Percorrendo le strade interne del paese, chi scrive si avvide che da tutte le finestre delle case sventolava l’immagine di Maria SS. Annunziata, e disse: - Mirate! tutto il popolo confida nella Patrona Maria SS. Annunziata, gridiamo: Viva la santa pace, viva la Misericordia di Dio, viva Maria SS. Annunziata. - Da quel momento fu questo il popolare grido della salute.

Giunti al largo di S. Vito furono chiamati alla processione i PP. Osservanti. Si perdè un po’ di tempo, si udirono fucilate sulla Colla, scoccarono le campane delle Chiese del suono alle armi, sbucarono d’ogni vico rabbiosi armati, che correvano alla Colla: altri intorno ai Preti gridavano: Tradimento, tradimento. Che confusione! Che terrore! Sorse il pensiero di rifugiarsi in una casa. - No, disse uno, fate come faccio io; ed abbracciando questo rabbioso e quello diceva: Paesano chi vi fa il tradimento? Io? No. Dunque andiamo avanti.

Giunti al dorso della Chiesa della Catena in capo a quella salita sopravenne altro momento di terrore. In due cataletti i cadaveri dei quattro uccisi il giorno innanzi, altra truppa di armati gridando: - Tradimen­to all’armi. - Tutto fu vinto all’unanime grido: - Viva la santa pace, viva la Misericordia di Dio, viva Maria SS. Annunziata. -

Erano i cinque di agosto, il sole vibrava dardi di fuoco, i campanili scampana­vano a terribilio. Dio, quanto era terribile quel suono! Il clero con invitto coraggio si avviò fuori l’abitato incontro alla truppa, che si accostava.

Alla Croce dello Scialandro (a destra, in una foto del 1874, cliccca per ingrandire) gli armati fecero resistenza, si spinsero innanzi un Sacerdote Cappuccino, il funzionante da sindaco signor Sebastiano De Luca, il giudice D. Nunzio Cesare, l’infelice D. Nicola Lombardo, ed alle loro parole fu vinta la resistenza: ed il clero col popolo continuò il suo cammino.

In questo una piccola armata di novantaquattro persone, tra quali sei giova­netti di quat­tor­dici a sedici anni, un buon numero di civili emigrati ignari delle armi, e pochi militari capitanati dal Generale D. Giuseppe Poulet e dal bravo Tenente D. Girolamo Castelli di Napoli erano sulla strada rotabile presso al ponte di Lombardo, di fronte al dorso della Colla; ove stavano schierati più di quattrocento campagnuoli Brontesi armati, aventi a Capitano il murifabro mastro Rosario Aidala, uno dei più bravi del 1820.

I Brontesi veggendo quel piccolo branco dissero: - Risparmiamoci la polvere ed il piombo. Uccidiamoli coi sassi - e compostisi in brigate posta­rono dinanzi a sè mucchi di pietre. Altri in moltitudine corsero dal monte alla strada, per prenderli alle spalle.

A tal vista il signor Poulet disse ai suoi: - Signori siamo in faccia al nemico. Di noi non può restare vivo un solo. Non importa. Facciamo il nostro dovere. Però attendiamo di essere provocati. - Ed i Brontesi si avean dato la parola di non essere i primi ad attaccare.

Il clero col popolo si avanzava lungo la via consolare. Un Sacerdote Cappuccino si spinse innanzi seguito dal Prete D. Nunzio Stizzera e da pochi altri.

Quegli disse a Poulet: - Signore, io vengo, in nome del popolo e del clero, a pregarvi di entrare nel paese per rimettervi la pace. E perché so che a questo fine venite, vi prego a far presto per venire in paese. - Poulet rispose: - Io vi accetto come l’Angelo della pace. Ma se la pace si vuole, discendano dal monte gli armati. - Ove sono? - Eccoli là? - Andrò io a farli discendere. -

Guardati in giro i Preti, ed invitati a seguirlo si guardavano sbigottiti. Lo seguirono il buon vecchio D. Giuseppe Politi, che dall’erta fu fatto ritornare; il Sacerdote D. Giuseppe Di Bella, il Sacerdote D. Giuseppe De Luca e Padre Francesco Benvegna Minore Osservante.

Là sopra un ardente perorare dei Sacerdoti per la pace, un rabbioso grido dei facinorosi ch’era tradimento, un vociare più alto e fragoroso di tutti i buoni e dei giovani. - I nostri Sacerdoti non c’ingannano, vogliamo la pace.

I tristi vinti dalle voci dei buoni dissero: - Sentiamo che dice il nostro Capi­tano. - Questi, scambiate poche parole col suo consanguineo Cappuccino, disse: - Picciotti mio cugino ed i Sacerdoti dicono bene: La pace deve farsi, andiamo al paese, - e come un fiume corsero al paese.

Il clero ed i civili incoraggiarono Poulet a marciare; e spedirono per suonare a festa le campane. Certi popolani astuti guardavano bieco un mediocre cannone tirato da un cavallo, e gridavano a Poulet: - Indietro il cannone. -

Il prudente Capitano ordinò che ne fosse rivolta indietro la bocca. Gli astuti non si acquieta­rono, lo seguirono; e come viddero Poulet andarsene al convento di S. Vito, che sovrasta a tutto il paese, ed il cannone circondato da cinque armati, coi fucili in mano gridarono: - Indietro col cannone. -

I cinque sudavan sangue. Le femmine piangevano. Il pallore sul volto di tutti. Chiamatovi accorse il Sacerdote Cappuccino, pregò fermassero, corse a S. Vito, ritornò con Poulet e soldati, tutti al convento dei cappuccini. Un grido: - Viva il Generale, viva l’Italia. -

Poulet non credeva ai suoi occhi, vedendo che ad una parola del Sacerdote Cappuccino i popolani s’inchinavano dinanzi a lui vestito da borghese, abbassavano le armi, correvano ove erano mandati.

Alla Croce dello Scialandro lo circondarono, narrando i soprusi, i maltratti sofferti, la priva­zione del diritto di far legno, dei parapasceri, delle difese, de’ jazzi, del libero pascolare.

E Poulet disse al Sacerdote: - Sono questi i villani di Bronte popolo feroce e barbaro! Sono uomini dabbene, docilissimi e maneggevoli. Ma spinti sono terribili. Covava una profonda cancrena, che dovea crepare. Poverelli ne furono spinti. Ma un esempio di castigo è necessario. -

Poulet rimase più soddisfatto, al mirare che alla parola del Sacerdote suo amico la famiglia Pace Saitta del defunto Vincenzo mandò ai soldati catanesi, fatti fermare alla lava del 1843, un carretto carico di pane, caciocavallo, presciutti e vino: un’altro carretto in un attimo ne mandarono l’infelice D. Nicola Lombardo ed il Dottor Medico Chirurgo D. Luigi Saitta, e vettovaglie mandarono i fratelli Sacerdoti D. Antonino e D. Luigi Schilirò.

Fu susurrato all’orecchio di Poulet, che congiuravasi per una reazione nella notte: egli ferito da una palla in Catania, lasso dalla marcia forzata da Catania a Bronte, lasso dalla terribile giornata, digiuno non poteva reggersi in piedi. Ordinò pattuglia e cannone alla porta della Chiesa dei Cappuccini, raccomandò la vigilanza e pubblica tranquillità al Sacerdote suo amico, e buttossi sul letto.

Questi incaricò di tutto D. Nicolò Lombardo e D. Luigi Saitta, a due ore di notte insieme snidarono due emissarii Alcaresi dal fondaco di Cesare, e scortati li mandarono via. Saitta e Lombardo vegliarono tutta la notte, e non vi fu nulla di sinistro.

L’indomani di buon’ora Poulet ordinò il disarmamento, e tosto era alacremente ubbidito. Mentre eseguivasi il disarmo, sopraggiunse in carrozza con altri due il terribile Bixio; cui avea Poulet spedito due uomini a cavallo, per certificarlo del suo pacifico ingresso; e Bixio giunto diede ordine a Poulet di partire da Bronte con la sua brigata.

Il buon Generale riceve con dispiacere questa intima, ed ubbidendo indirizzò a Bixio un suo biglietto, di cui diede copia al Sacerdote suo amico per farlo noto ai Preti ed ai civili.

Il contenuto del biglietto era questo: - Signor Generale. Quando io arrivai nelle vicinanze di Bronte, trovai postato il popolo in tal terribile sito e strategico modo, che potea trucidarci tutti, senza che noi avessimo potuto ferirli. Ma al risapere, che noi eravamo forza pubblica del Gover­no, abbassarono le armi, e ci accolsero come in festa. Io raccomando all’Eccellenza Vostra un popolo sì docile e sì buono. - Poulet se ne andò.

L’indomani, ai suoi soldati giunti dopo lui, Bixio diede ordine di arrestare gli individui, dei quali avea ricevuto nota.

Fu avvertito D. Nicola Lombardo di salvarsi colla fuga, nol volle fare. Ben presto fu in prigione nel Collegio Capizzi custodito rigorosis­simamente. Furono agli arresti e tradotti nel pubblico carcere D. Luigi Saitta, D. Carmelo Minissale e moltissimi plebei ed artisti.

Per un tratto di Provvidenza Divina uno dei principali della Corte Marziale si trovò legato da occulto sentimento di gratitudine col Sacer­dote amico di Poulet.

Contro costui tra i molti fu pôrta orrenda calunnia politica. Il calunniato perdonò il calunniatore, sebbene il Giudice voleva ammannettare il calunniatore, farlo tradurre in Catania. Questo calunniato si giovò del riconoscente Giudice in favore di D. Luigi Saitta, contro cui per altro pochi parlarono. Non fu possibile salvare D. Nicola Lombardo. Questi con altri quattro condannati a morte dalla Corte Marziale, furono passati per le armi nel largo di S. Vito.

I più malvagi e facinorosi non erano stati arrestati, il massimo numero dei complici erano nelle proprie case, non atterriti, ma inferociti per la fucilazione dei cinque e l’arresto di molti, tra quali alquanti innocenti; ed ai vespri di quel dì un terribile brivido corse nelle vene di tutti i pacifici cittadini. Con ragione temettero tutti nuova strage in quella notte per mano degli inferociti liberi.

Un mu­ra­les (or­mai quasi illeg­gi­bile), dipin­to sulla parete di una casa in via Ma­don­na di Lore­to, ricor­da la fucila­zione dei sei presunti rivoltosi di Bronte. Altri murales, sempre nella stessa zona, ricor­da­no scene dello sbarco dei garibal­dini e di altri episodi del 1860.

MONUMENTO AI FUCILATI DEL 1860

I monumenti in ricordo dei Fatti di Bronte del 1860 eretti in Piazza S. Vito,  il luogo della fuci­lazione: sopra quello dedicato ai 5 bron­tesi fatti fucilare da Nino Bixio, eretto dal Comu­ne nel 1985 nel corso del "Processo a Bixio"; sotto le due targhe apposte nel 2010 nella ricorrenza del 150° anniversario dei Fatti che ricordano tutti: i 5 fucilati da Bixio ed i 16 trucidati dai rivoltosi.

L’amico di Poulet pregò il suo riconoscente occulto beneficato, che impetrasse da Bixio di rimanere in Bronte cento soldati dei suoi per sole ventiquattro ore; e l’ottenne a patto che il Comune pagasse onze dieci all’ora, duecentoquaranta onze in tutto. Preti e civili sborsarono il danaro, ed i soldati di Bixio rimasero per ventiquattro ore.

L’indomani al partire dei soldati di Bixio i Preti, i frati, i civili, artisti ed ottimi massari furono sotto le armi, vegliarono tutta la notte, e più giorni con le armi in mano. Ne allibirono i facinorosi. Ritornarono i soldati di Poulet, e presero posto ai Cappuccini. Ritornarono i catanesi e furono allogati ai Basiliani. Gli offesi ed i danneggiati procurarono che fossero arrestati molti delinquenti; e molti si lagnavano che non pochi dei più malvagi restarono liberi; e vi furono involti disgraziati tratti per forza tra la folla, e non di altro rei, che dall’essersi lasciati trascinare.

Niuno del clero ebbe mano in cotali arresti. Era desiderio dei più, che fossero stati condannati a morte i grandi caporioni, e rimessi in libertà tutti gli altri. Il fatto fu, che molti furono condannati ai lavori forzati in vita, moltissimi a pene inferiori, niuno alla testa.

In questo modo ebbe fine questa lagrimevolissima tragedia, della quale stranieri scrissero in modo assai difforme ed esagerato, ed io ho voluto narrarlo per filo e per segno; a collocare l’infaustissimo avvenimento nel suo posto di realità; sicuro che testimone dei fatti tutto Bronte, niuno potrà seriamente contraddirmi.

Faccio voti sì, che questo tristissimo episodio fosse di scuola seria e gravissima ai civili ed ai plebei, ai patrii prepotenti e despoti, ed ai popolani insofferenti e vendicativi. Ma il difficilissimo è che rinsaviscano i primi, e sappian meglio farsi i loro conti i secondi. Che vi provveda Iddio. (...)
p. Gesualdo De Luca

[Il brano è tratto dalla Storia della Città di Bronte di padre Gesualdo De Luca, pagg. 200-212]


 

Del popolo contadino il De Luca apprezza solo la docilità

Il frate Gesualdo De Luca

di Vincenzo Pappalardo

(…) Il racconto dei fatti è comunque drammatico, carico delle tensioni che il testimone ha vissuto nei suoi nervi, con pochissime con­ces­sioni all’analisi delle ragioni storiche e con una vasta, quasi fastidiosa apertura reto­rica al ruolo giocato dallo stesso Gesual­do, che mai nomina se stesso, na­scon­dendosi dietro defi­nizioni anonime sem­pre cariche, però, di riferi­menti che possano ricon­durre a lui - un sacerdote cappuccino; il sacerdote amico del Poulet; il consanguineo cappuccino del capo popolare Rosario Aidala. (…)

Ci sono alcuni temi del racconto che meritano di es­sere rapida­mente segnalati. Due in particolare.

Innanzitutto, la comunità a cui il De Luca parla resta divi­sa nelle tradizionali distinzioni che separano il popolo dei con­tadini, i bor­ghesi e soprattutto il clero.
Né del resto al conservatorissimo cappuccino si poteva chiedere altri­menti.
Questo significa che la sutura delle lacerazioni, nella città che si era dilaniata fino al massacro, non passa per il su­pera­mento di distinzioni che stanno nell’ordine voluto da Dio, ma nel riconosci­mento del comune dipendere del bor­ghese e del contadino e nella confessione del ruolo di aggregazione morale e civile che spetta al clero.

Così il racconto si chiude con l’auspicio che il “... tristis­simo epi­so­dio fosse di scuola seria e gravissima ai civili ed ai plebei, ai patri(z)i prepotenti e despoti, ed ai popo­lani insofferenti e vendi­cativi. Ma il difficilissimo è che rinsa­viscano i primi, e sappian meglio farsi i conti i secon­di. Che vi provveda Iddio”.

E tuttavia il linguaggio tradisce l’opzione antipopolare del focoso cappuccino, e se i borghesi, anche quando entra­no armati in chiesa, sono “ottimi massari”, “buoni civili”, “giovani buonissimi”, i con­tadini sono invece “villani arrab­biatissimi”, “inutilissimi campa­gnuoli”, “sbrigliata bruz­zaglia”.

Del popolo contadino il De Luca apprezza solo la docilità, quando, mosso dall’autorità dei preti e dei superiori natu­ra­li, esso abbassa il capo arrendevole all’ordine sociale vo­lu­to da Dio e lascia ad altri la guardia del proprio desti­no.

Povero e umiliato; ma questo per il De Luca è secondario, effetto della prepotenza che il libero arbitrio concesso da Dio assicura alla malvagità dei despoti. Su tutti, natu­ralmente, svetta il clero e il suo “invitto coraggio”. A far tacere anche le accuse di codardia buttate in faccia da Bixio ai bravi cittadini di quella città.

E ancora, l’esplosione delle rivolte, non solo quella di Bronte, viene addossata dal nostro autore all’emergere di un Comunismo che ha intossicato l’animo della plebe, portan­dogli odio nei confronti dei ricchi e degli aristo­cratici. Per la prima volta, negli anni ‘80, il De Luca intro­duce una defini­zione di comunismo non munici­palistica, vedendo l’ombra dello spettro che si aggira per l’Europa anche per le vie del piccolo borgo etneo.

Non vale la pena spendere troppe parole per liquidare l’anacro­ni­smo della coscienza comunista nella Bronte del 1860, e la cogni­zione piuttosto vaga delle idee comu­niste che fiorivano in Europa.

È però interessante sottolineare lo slittamento dell’analisi dal piano economico sociale, entro cui operavano le rivendicazioni dei contadini, al piano morale su cui agisce il giudizio del De Luca, che non ha bisogno di verificare le ragioni di contesa sulle terre e sui diritti civici, bastan­dogli condannare i sentimenti di odio, di invidia e di vendetta che hanno insozzato l’animo dei rivoltosi.

Così le rivendicazioni che furono all’origine della rivolta quasi non compaiono, citate per caso solo quando si rap­presenta la scena del popolo docile che, patetica­mente, cerca una giustificazione davanti al paterno Poulet, “... narrando i soprusi, i maltratti sofferti, la priva­zione del diritto di far legno, dei parapasceri, delle difese, de’ jazzi, del libero pascolare”.

Ma l’accenno non serve all’analisi del fatto; serve piut­tosto a buttare là, dissimulata nella concitata narrazione dei fatti, la risposta che tutto il popolo di Bronte da vent’anni vuole gettare in faccia a quello spocchioso generale garibaldino, che ha messo naso un paio di giorni nella vita modesta e dignitosa di quella brava gente e ha preteso giudicarla, sputandole addosso il disgusto e una macchia che pesa sull’onore e la coscienza, l’accusa di barbarie e lesa umanità.

Il frate Gesualdo De Luca non trovò in quel contesto nes­suna voce forestiera, e perciò non di parte, più autore­vole di quel patriota paterno e comprensivo che era il colonnello Poulet; e alle sue labbra fa articolare il pen­siero che ciascun brontese per bene, nel sentire almeno del vecchio cappuccino, da anni mormorava nel silenzio della sua dignità ferita:
“Sono questi i villani di Bronte popolo feroce e barbaro! Sono uomini dabbene, docilissimi e maneggevoli. Ma spinti sono terribili... Poverelli ne furono spinti!”.

(Vincenzo Pappalardo, L’identità e la macchia, Il battesimo della coscien­za civile a Bronte nel dibattito sulla strage del 1860, Mai­mo­ne Editore, Catania, 2009, pagg. 63-64, edizione fuori commer­cio)


Uomini illustri di Bronte

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