di Carlo Levi (…) L’indomani, per tempo, partimmo per fare l'intero giro dell'Etna. La mattina era limpida e serena. Gli amici che mi accompagnavano, prima di uscire dalla città vollero portarmi al giardino Bellini, tra i viali, i busti dei catanesi celebri, il Labirinto presso cui gli operai scavano una profonda fossa per metterci un giovane elefante che deve arrivare da Roma, e dove hanno portato i pezzi di una dissepolta fontana del Vaccarini. Di là si vede un grande prato con un elefante di erba, «u' liotro», una trinacria, una scritta, una stella, dei chiostri per le orchestre, gli alberi verdissimi, dei boschetti, e, dietro, il triangolo bianco e azzurro dell'Etna sul cielo. Che incantevole luogo da ricordo d'infanzia: avrei voluto essere catanese per aver corso bambino su quei viali. Uscendo da Catania la strada attraversa subito la sciara di Curia. È un meraviglioso e terribile paesaggio nero e viola e grigio di lava nuda o coperta di licheni, mossa da un vento antichissimo in onde increspate e bizzarre. In mezzo alla lava sorge un nuovo quartiere popolare di case bianche, come una città nel deserto. Corriamo in mezzo alla sciara tra lave diverse, intatte, ancora dopo secoli o già sgretolate e trasformate: sono le piante che lentamente rifanno della pietra una terra fertile. Da principio i funghi e i muschi e i licheni che incrostano verdi rossi o grigi il basalto violetto, e lo intaccano fino a quando possa germogliarvi il cardamomo e poi la ginestra, e un'altra specie di ginestra, chiamata, in dialetto, «cichiciaca». Soltanto dopo la ginestra appare il fico d'India, questa pianta della resurrezione, l'albero della lava, verde tenero sui pendii di pietra. Dopo il fico d'India vengono le altre piante: il fico, il pistacchio, il mandorlo, l'olivo, e ultima, la vite. Così, dalle piante che vi nascono, si può datare la pietra colata dal vulcano, fino a quando un'altra colata sommerga le ultime viti e gli olivi e i fichi d'India e le ginestre e i licheni, e ritorni il deserto di pietra. (…) (…) Il Simeto è un vero confine: di qua l’Etna che appare alto in cielo come un dio irraggiungibile, e il suo regno, fatto in alto di nevi e di basalto e poi, scendendo, di boschi di castagni e di felci, e, più giù, vigne e giardini e agrumeti, e paesi e verdi distese di piante, sul terreno sempre pericolante e casuale, ma pieno di sali, di succhi fertilissimi e vivificanti; dall'altra parte, oltre il Simeto, il feudo desolato e nudo, la terra da grano, spoglia e giallastra, senza alberi, senza case, battuta dal sole, misteriosa nella sua nudità, un mondo lontano e remoto dove gli splendenti Dei del vulcano non hanno posto il piede. Qui, a Adrano, città illustre, piena di storia, ricca di imprese di briganti, un tempo legati al feudo e più recentemente isolati e individuali, centro antico e recente di lotte bracciantili, dove l'anno scorso fu ucciso, in una dimostrazione di piazza, il bracciante Girolamo Rosano, ci fermammo appena. Più avanti, lontane sui monti, appaiono Enna e Calascibetta, e dall'altra parte Cesarò, e i monti brulli della provincia di Messina. Dopo un'altra sciara, la sciara Nova, una delle cento che scendono, come ruscelli, dall'Etna, si entra in Bronte. Era ormai mezzogiorno, e qui ci fermammo, sia per l'ora, sia perché i miei compagni vi avevano degli amici, sia per il fascino del nome, di quel Bronte Ciclope che coi compagni Sterope ed Arge fabbricò, al dire di Esiodo, la folgore di Giove. È un grande paese senza splendore di architettura ma con belle case sulla strada principale, ricco di storia anch'esso, come Adrano, e come Randazzo a cui fu un tempo soggetto; famoso soprattutto per la Ducea di Bronte, il feudo di Nelson, per i continui moti contadini, per le sue rivolte, e per la feroce repressione di Nino Bixio. Mentre ci guardavamo attorno cercando qualche vestigio di questi ricordi storici, dei contadini mi riconobbero e mi invitarono a visitare le loro case. Lasciammo così la strada e il quartiere dei signori e scendemmo, per le stradette ripide, nei Cortili dei poveri. Di rado può vedersi, in un paesaggio lussureggiante, sulle falde del più illustre e fertile vulcano, nell’aria abitata dai più illustri Dèi, tanta miseria. Visitammo molti Cortili (sono specie di piccoli slarghi attorno a cui sono costruite delle catapecchie): i contadini e le donne dalle soglie ci facevano cenno di entrare perché vedessimo in che modo vivevano. Per terra, nelle strade, nei Cortili in pendio, scorrono, per mancanza di fogne, le acque putride, e il tanfo prende alla gola. Le case, se cosi si possono chiamare, sono delle tane dove piove dai tetti di canne, affumicate, spoglie, senza finestre, dove in pochi metri quadrati vivono accatastate otto, dieci, dodici persone. I bambini, dagli splendidi visi di angeli, hanno le pance gonfie per la malaria: è lo spettacolo della più estrema miseria contadina, inaspettata in questa costiera di paradiso. Nel Cortile dei Garofani, dove il puzzo di fogna è insopportabile, dove non si sa dove appoggiare il piede tra l'acqua nera che scorre, entrammo nel tugurio di un mezzadro di un ettaro e mezzo di terra. Erano otto nella casa semiscoperchiata; i due bambini più piccoli, Angelo e Nunziata, mi guardavano coi grandi occhi dei bambini malarici. Il padre, che è proprietario del suo tugurio, mi disse che deve pagare per esso al Comune la tassa sulla nettezza urbana, una tassa di millecinquecento lire l'anno. Lo stesso spettacolo dappertutto: nel Cortile delle Magnolie, nella Piazza della Fortuna, nella via Lorenzo il Magnifico, nella via Pietro Aretino, nella via delle Muse, strani nomi posti dal gusto poetico di un assessore del Comune a quelle immonde cloache. Chiesi ai contadini di via delle Muse se sapessero chi erano queste amabili Dee. - Non sappiamo, - mi risposero, - siamo ignoranti, che sappiamo? - Forse, - mi disse uno col viso sveglio e intelligente, - forse si può interpretare, magari è una ingiuria - Ingiuria, vuole dire, in siciliano, nomignolo, soprannome. Ma quei nomi sono veramente un'ingiuria. |
| Lo scritto che vi proponiamo è tratto dal resoconto di tre giornate che nel 1952 Carlo Levi trascorse in Sicilia e dell’esperienza che fece a Bronte ed alla Ducea (che visitò accompagnato da Michele Pantaleone). Intitolato “Intorno all’Etna”, fu pubblicato lo stesso anno su una rivista e successivamente incluso nel libro “Le parole sono pietre” edito da Einaudi nel 1955. Carlo Levi (Torino 1902 - Roma 1975), scrittore e pittore, fece parte del gruppo antifascista Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli e di Emilio Lussu e, nel 1935, fu mandato al confino. Liberato si rifugiò in Francia da dove ritornò solo nel 1942 per partecipare alla lotta partigiana. Dal 1962 al 1973 fu senatore nelle liste della sinistra. Il suo libro più famoso, Cristo si è fermato a Eboli (scritto negli anni 1943-44 e pubblicato da Einaudi nel 1945), dove denuncia le ingiustizie sociali e rappresenta i grandi problemi del dopoguerra, ha avuto un successo straordinario ed è stato tradotto in moltissime lingue. Ancora più dura la denuncia delle condizioni d’estrema arretratezza in cui versava la classe contadina nel libro “Le parole sono pietre” dal quale è tratto questo brano, una raccolta di reportages e relazioni scritti in occasione dei suoi viaggi in Sicilia, e nel quale il lungo capitolo che vi proponiamo è dedicato alla giornata trascorsa a Bronte e fra i contadini della Ducea di Maniace. Qui, infatti, le riforme agrarie dei primi anni cinquanta avevano interessato anche gli estesi possedimenti dei discendenti di Horatio Nelson: un decreto emanato nel gennaio del 1951 dalla Regione siciliana sottopose infatti a scorporo la Ducea per 4.207 ettari su una superficie complessiva di 6.574 ettari. Ma i Duchi e i loro amministratori ricorsero a tutti gli espedienti per trarre vantaggio dalla situazione. Obbligarono, in qualche modo, i contadini a comperare quelle terre, che altrimenti sarebbero state espropriate, ad un prezzo perfino superiore al loro valore reale. Fu facile, infatti, far credere a chi da decenni lavorava le terre della Ducea al pericolo che quei fondi potessero essere, altrimenti, comprati da estranei. E quei contadini s'indebitarono fino all'inverosimile pur di restare sulle loro terre, mentre il Duca raggiungeva il suo scopo, mantenendo integra la proprietà e percependone una rendita che lo metteva al sicuro da ogni legge e da ogni riforma. Carlo Levi, che visitò la zona in quegli anni, così descrisse perfettamente quel che vide e che seppe. Descrizioni e parole amare e dolorose e che, dopo oltre 50 anni, ancora oggi fanno riflettere ma che rivelavano e denunciavano una situazione sociale di arretratezza e di disagio e – come scriveva lo stesso Levi – “lo spettacolo della più estrema miseria contadina.” Il VI Duca di Bronte (a destra la foto del suo passaporto) ritenne diffamatorie alcune affermazioni di Carlo Levi e fece di tutto per evitare che nel 1957 il libro fosse pubblicato in inglese. «Quanto a Bronte e alla Ducea, - scriveva Levi nel Settembre del 1955, due anni dopo il suo viaggio a Bronte - non mi risulta che in questi anni la situazione sia sostanzialmente cambiata, malgrado un piano di scorporo parziale, per quattromila ettari circa, non realizzato finora e per chissà quanto altro tempo, e il ripetersi delle agitazioni contadine.» |
E dal ricordo della visita a Bronte, nasce la seguente lirica: Tra glorie antiche e eterne onte la fatica dei jurnatari su dal fango dei pagliari nera copre il feudo a Bronte. Là la folgore dei mari in un albergo è sepolta: qui ogni albero è una fonte di speranza e di rivolta. Ha il bracciante chi lo ascolta: non è solo sopra al monte: avvocati e feudatari troveranno braccia pronte. (C. Levi, 27 maggio 1957) Carlo Levi non si sentiva affatto né si atteggiava a poeta. La poesia rimarrà per tutta la sua esistenza un fatto del tutto privato e personale, assolutamente intimo e sacralmente riservato; egli non pubblicò mai i suoi componimenti. Le sue raccolte poetiche, quindi, possono essere lette solo come una sorta di diario esistenziale, cui affidare le proprie ansie, le aspettative, le gioie e le amarezze che lo accompagneranno per tutta l'esistenza. |
E Nelson sfidò Carlo Levi
La «ducea maledetta» di M. Pantaleone | Nel Cortile delle Magnolie le donne si lagnavano. - Qui abbiamo la democrazia speciale, - dicevano, - i signori stanno sulla piazza e chi muore, muore. In una casa, non più grande di tre metri, abitavano dieci cristiani. - Come dormite? - La sera facciamo l'albergo, - mi spiegarono. C'era però, in un angolo, un rubinetto d'acqua, ma, applicato al rubinetto, un contatore lucido e nuovo che sembrava più grande della casa. - Quando piove, - mi disse un contadino, - s'à da mettere gli stivala a' Napulione. In via Pindaro, una donna sapeva chi fosse la persona a cui era intitolata la strada. - Pindaro, - mi disse, - era uno di Bronte, un barbiere che abitava qui -. Una vecchia dalla porta mi dice: - Lu feto che c'este alla mattina, semo tutti bogliuti. Un bracciante ha qui una casa dove si può entrare soltanto carponi e gli costa cinquecento lire al mese di affitto. Nel Cortile delle Orchidee corrono le acque putride. Una giovane sposa mi guarda con aria desolata, e con voce dolcissima mi dice: - Ci vuliva li beddi cessi, na bedda cunduttura. Cosi vivono i braccianti in Bronte, migliaia di contadini senza terra, che aspettano le terre della riforma agraria, che da un secolo e mezzo combattono per vivere contro la Ducea feudale di Nelson, che si muovono ogni tanto per occupare le terre come nel 1848 e in questo dopoguerra, che ne sono scacciati e ci ritornano pazienti e tenaci e pieni, malgrado tutto, di umana vitalità, e riescono ancora, nei loro fetidi Cortili, a sperare nel futuro. Il centro dei loro pensieri, l'origine delle loro miserie è la Ducea: decidemmo allora di andare a visitarla. Scendemmo al ponte sul Simeto, sul fiume che qui è profondamente incassato nella roccia, in una piega faglia della crosta terrestre. Di qui la vista di Bronte sulla collina e, dietro, il nuovo profilo dell'Etna visto da nord-ovest, impassibile, coi suoi fumacchi chiari sul cielo, contrasta meravigliosa con le brulle pendici del feudo alle nostre spalle. Non potemmo proseguire perché la strada era interrotta, e prendemmo l'altra via, verso Randazzo e Passo Pisciaro. Si incontravano per le strade i tortoriciani, alti e grossi, poi, tra lave antiche e recenti, si torna nel deserto, cui sovrasta solo e nudo, l'Etna incombente, e compare il piano della Ducea, dove nascono i tre affluenti del Simeto, Martello, Cutò e Saraceno, e i monti desolati su cui corre l'ombra delle nuvole. Sulle pendici dei monti si vedono, piccolissimi, i pagliari, piccole costruzioni di paglia a cono, con una porticina bassa, in cui vivono, alla rinfusa, i contadini del monte. Scendemmo in fretta al Castello di Maniaci, il castello dell'ammiraglio Nelson e dei suoi eredi. C'è una chiesa antichissima con una Madonna bizantina, un cortile, tra mura di pietra che sanno di caserma e di prigione e, in mezzo, una croce di lava con la scritta HEROI IMMORTALI NILI Ci sono gli uffici della Ducea, un ufficio postale, i carabinieri. Lord Rowland Arthur Nelson Hood Visconte Bridporth, Duca di Bronte, l'attuale proprietario, ufficiale della marina inglese, erede di Nelson e parente della famiglia reale, non è qui in questo momento. La storia di Maniaci richiederebbe un libro per essere raccontata. In breve, questa terra, vinta dal guerriero bizantino Giorgio Maniace nel 1040 contro i Saraceni, data a Giovanni Calafato nel 1221 da Federico II, data a Giovanni Ventimiglia da re Martino nel 1396, passata più tardi all'ospedale Grande e Nuovo di Palermo e infine regalata a Orazio Nelson da re Ferdinando di Borbone nel 1799 come compenso per avergli salvato il regno e ammazzato i liberali di Napoli, questa terra ha cambiato signori, ma i suoi contadini hanno continuato a vivere negli stessi pagliari, senza mutamenti, da mille anni. Ma la lotta per la terra fu sempre viva e ora è più viva che mai, sicché la Ducea di Bronte può essere presa a esempio (come le miniere di Lercara Friddi) del più assurdo anacronismo storico, della persistenza di un perduto mondo feudale e dei difficili tentativi contadini per esistere come uomini. Meriterebbe di raccontare per esteso questa lunga e complicata vicenda, e come questa terra fosse sequestrata durante la guerra come bene straniero, e come gli ufficiali inglesi si precipitarono a riprenderne possesso il giorno della Liberazione, come oggi essa sia stata dichiarata soggetta a scorporo nei piani della riforma agraria siciliana, come l'amministrazione del Lord Bridporth si opponga, in tutti i modi legali e illegali, alla Riforma, come reagiscano i contadini alle mosse della Ducea. Gli ultimi episodi di questa lunghissima guerra sono addirittura incredibili, e io stesso non vi crederei se non ne avessi avuta precisa testimonianza. Giravamo per i campi parlando con i contadini, e uno di essi mi raccontava che, per evitare lo scorporo, la Ducea aveva costretto i contadini a comperare le terre dove lavoravano. Costretti con la minaccia di venderle ad altri e di cacciarli immediatamente dal loro lavoro: e queste vendite forzate avvennero, in buona parte, dopo il termine ultimo del 27 dicembre 1950 consentito dalla legge siciliana di riforma. Ai contadini che non avevano denaro fu detto di farselo prestare, e tra gli usurai di Tortorici e di Randazzo il tasso usuraio è del 35, del 40, del 50 per cento; il prezzo della terra, imposto dalla Ducea, il doppio del suo valore. I contadini vendettero le vacche, le masserizie per pagare la prima rata e non essere cacciati dalle loro case. La terra deve essere pagata in cinque anni, ma, quando non potessero pagare una rata, tornerebbe proprietaria la Ducea. Cosi i contadini forzati ad acquistare, si trovano indebitati, rovinati, padroni di una terra venduta dopo i termini legali, soggetta perciò a essere espropriata per la Riforma e data ad altri, in lotta quindi anche fra loro, coi braccianti senza terra di Bronte. Dovettero pagare le spese dell'atto di acquisto, mentre Orazio Nelson, l'eroe di cui Giovanni Meli cantava: Eccu di novi fulmini la manu già t'arma Bronti ch'a li tanti provi cridi in tia trasmutatu lu gran Giovi fu, lui, esentato dal generoso Borbone, quando ebbe Bronte in dono, dal pagare la somma dovuta per il diritto di investitura. Mentre i contadini mi raccontano questi fatti, passano armati i campieri e ci guardano diffidenti. C'è nell'aria un feudale terrore. Arriva un contadino, piccolo e magro, a cavallo: è uno di quelli che ha dovuto comprare la terra, è disperato, mi dice: - Siamo cani rinnegati come al tempo dei Saraceni. Anche lui ha dovuto vendere le sue vacche, prendere in prestito il denaro da un usuraio di Tortorici, pagare quarantamila lire per l'atto, non sa più come fare a vivere. Ne arriva un altro, un terzo, un quarto, ciascuno mi espone con precisione di cifre i suoi conti, le sue spese, i suoi guadagni, i suoi debiti. L'astuto piano del Lord Inglese, o della sua Amministrazione, sarebbe, secondo i loro racconti, quello di sottrarsi alla Riforma vendendo le terre e riprendere le terre più il denaro dai contadini indebitati e nell'impossibilità di pagare, di mettere i contadini in lotta contro i braccianti, di scoraggiare gli uni e gli altri chiudendoli nell'eterna servitù. Ma questi contadini sanno resistere e per quanto abbandonati e miseri cercano di difendersi. - Qui nella pianura, - mi dicono, - stiamo già bene. Vada sulla montagna, veda la gente nei pagliari, che vivono come bestie, ce n'è di quelli che vi sono nati e non sono stati neanche denunciati allo stato civile, non si sa quanti sono. Partimmo dalla Ducea turbati. È forse destino che le cose rimangano in eterno nella loro cristallizzata ferocia e che il contadino debba sempre combattere, senza armi, contro i signori feudali, gli eroi del mare, e gli avvocati delle amministrazioni? Scoppiano ogni tanto, anche qui, come dappertutto, nelle terre contadine, le rivolte della «cafonità», e finiscono con la morte. Qui a Bronte, nel 1860, dal 2 al 5 agosto il popolo si sollevò per la divisione delle terre, spinto dalle promesse di Garibaldi e dall'antica speranza. Naturalmente, come sempre avviene in queste esplosioni contadine, la rivolta fu feroce, molti i morti tra i signori borbonici, molte le case bruciate. Agli occhi dei contadini di Bronte la conquista garibaldina non poteva avere che un senso: il possesso delle terre, la libertà dal feudalismo; e in nome di Garibaldi si misero a trucidare i signori. Erano più avanti dei tempi. Garibaldi, pressato dal console inglese di Catania timoroso per le sorti della Ducea, mandò Nino Bixio a rimettere ordine. Nino Bixio giunse a cose già calme, dopo che un altro garibaldino, il colonnello Poulet con una compagnia di soldati era già pacificamente entrato in Bronte. Bixio fu feroce. Con una parvenza di processo fucilò immediatamente i capi della rivolta, fra cui un avvocato, Nicolò Lombardo, un liberale che aveva già guidato in Bronte i moti del '48. Scendevano dall'Etna le prime ombre della sera e attorno al cratere si allungavano, tirati dai venti, i fusi colorati delle nubi. Entrammo in Randazzo dalla porta antica tra il castello e la chiesa di lava scura e di pietra bianca. È una città storica, ma noi passammo in fretta tra i suoi neri conventi, le sue nere chiese, le sue nere case, nelle strade nere, fuggendo verso i vigneti di Linguaglossa. La luna, piena e rotonda, si era ormai levata nel cielo, illuminando di fredda luce le colate di lava e i boschi. Già il mare brillava lontano di là da Fiumefreddo, e appariva meravigliosa nella distanza, sul mare lucente, la montagna di Taormina. Le barche dipinte partivano per la pesca, i lumi delle lampare splendevano nell'acqua verde come scintillanti costellazioni. (…) Carlo Levi (Le parole sono pietre, Einaudi Torino, 1955, pagg. 75-86)
| La Sicilia di Levi Dove le parole diventano pietre di Salvatore Scalia Negli Anni 50 lo scrittore torinese visitò l'Isola e raccolse gli appunti nel volume che descrive anche la madre di Salvatore Carnevale, il contadino ucciso dalla mafia «Le parole sono pietre», titolo di un fortunato libro di Carlo Levi pubblicato nel 1955 e riedito da Einaudi con una prefazione di Vincenzo Consolo, è diventato un modo di dire di cui facciamo spesso uso ma di cui ignoriamo l'origine, o almeno l'occasione che ne ha rinvigorito il significato. S'intuisce il senso che riguarda l'effetto morale contundente di certe affermazioni, ma abbiamo perduto memoria di persone, fatti e circostanze. Diciamo subito che sono pietre le parole di Francesca Serio, la madre di Salvatore Carnevale, il contadino ribelle assassinato dalla mafia perché aveva fondato a Sciara nel 1951 la sezione del Partito socialista e la Camera del lavoro. Sono pietre scagliate nell'aula del Tribunale di Palermo da una madre siciliana che, trovando il coraggio nel suo disperato dolore, aveva osato per prima sfidare cosa nostra, la legge del feudo e le complicità con i vari livelli di potere istituzionale. Carlo Levi la incontrò in uno dei suoi tre viaggi in Sicilia, nel 1952, nel 1953 e nel 1955, i cui resoconti raccolse in volume. «Le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre». E sono pietre scagliate contro una Sicilia immobile che, anche attraverso il sacrificio di Salvatore Carnevale, tenta faticosamente di liberarsi di un sistema sociale anacronistico per entrare nel grande fiume della storia moderna. Questo è il filo conduttore del racconto di Carlo Levi, e la morte, una Sicilia di anime morte come gli aristocratici e gli ecclesiastici conservati nei loro vestiti sgargianti come se fossero in vita nelle cripte del cimitero dei Cappuccini a Palermo, costituisce una delle chiavi di lettura del libro. [...] A raccontare la Sicilia è un torinese illuminato che ha fatto la Resistenza, si è formato con Gobetti e ha militato nel movimento antifascista Giustizia e libertà dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, osservatore acuto del mondo contadino, autore già di un libro anch'esso entrato nei modi di dire italiani, «Cristo si è fermato a Eboli», testimonianza di un anno di confino in Lucania durante il fascismo. Convinto con Gramsci che il Risorgimento sia stata una rivoluzione mancata, racconta la Sicilia del feudo e delle miniere, cogliendone i tenui segni di risveglio, [...]. Solo i contadini di Bronte appaiono senza speranza: da un secolo e mezzo, da quando nel 1799, i Borboni la donarono all'ammiraglio britannico grati per averli rimessi sul trono e aver tradito la parola data impiccando l'ammiraglio Caracciolo, combattono contro la Ducea di Nelson, beffati dalla riforma agraria così come erano stati ingannati nel 1860 dai proclami di Garibaldi sulla terra ai contadini. «Bixio fu feroce. Con una parvenza di processo fucilò immediatamente i capi della rivolta, fra cui un avvocato, Nicolò Lombardo, un liberale che aveva già guidato in Bronte i moti del '48». E furono pietre le parole di Carlo Levi sulla realtà del comune etneo, sui bambini dai visi di angeli con le pance gonfie per la malaria; sulla fame secolare, sui tuguri malsani in cui abitavano in vie dai nomi beffardi che evocavano profumi, piante, muse e fiori. Sicché lo scrittore prese la Ducea di Nelson a modello «del più assurdo anacronismo storico, della persistenza di un perduto mondo feudale e dei difficili tentativi dei contadini per esistere come uomini». Perché i contadini brontesi acquistassero la piena dignità umana e sociale sarebbero dovuto passare altri vent'anni, di lotte aspre e di occupazioni delle terre. La rivoluzione mancata del Risorgimento sarebbe stata portata a compimento dopo più di un secolo. [...] A oltre cinquant'anni di distanza la Sicilia di Carlo Levi appare un mitico mondo contadino che il sacrificio dei suoi eroi ha restituito alla storia. Eppure ora che siamo entrati nella modernità e facciamo parte dell'Europa, resta grande il disagio sociale; il lavoro è sempre meno un diritto; l'inefficienza dei governi una costante; altre madri hanno dovuto subire l'assassinio del figlio e gridare il loro dolore; e la mafia, di cui ora almeno l'esistenza è certificata, è sempre più potente e inquina la vita economica e politica. Con il benessere i contadini hanno avuto fretta di cancellare le tracce di quel mondo, e noi siciliani stentiamo a rintracciare l'esatta riproposizione di quelle situazioni nelle case e nei volti degli immigrati. [Salvatore Scalia, La Sicilia, 5 Settembre 2010] |
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