I Fatti del 1860

150 anni dal 1860, Dibattiti, Ricostruzioni, le Opinioni...

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ANTEFATTI - DECRETI DI GARIBALDI - SITUAZIONE LOCALE - I FATTI DAL 2 AL 9 AGOSTO - DIBATTITI E RICOSTRUZIONI


1860-2010 / 150 anni non sono bastati

La ferita aperta di Bronte, quando Bixio fucilò i contadini

Il Risorgimento e la perdita dell'innocenza

di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

Corriere della Sera del 31-7-2010, pag. 12/13Benedetto Radice, lo storico che nel 1910 scrisse «Nino Bixio a Bronte», narrò una storia di sopraffazioni da parte di «monaci ingordi», abati e signori nei confronti dei contadini defraudati nel corso dei secoli delle terre comuni.
Nel «paese dei pistacchi» regalato a Nelson le camicie rosse fucilarono i contadini in rivolta. E oggi la ribellione è contro il governatore Lombardo

Quattrocentocinquantasei anni non sono bastati a chiudere una volta per tutte il più interminabile tormentone giudiziario di tutti i tempi.

Cominciò l'anno in cui Filippo II di Spagna portò all'altare Maria d'Inghilterra e Michelangelo cominciò a immaginare la Pietà Rondanini.

E non è ancora finito. Tanto che, sorride Giuseppe Castiglione, presi­dente della provincia di Catania e coordinatore del Pdl isolano, «molti contadini che hanno avuto le terre della Ducea di Nelson con le riforme agrarie degli anni '50 e '60 mi risulta non abbiano mai completato le pratiche per l'assegnazione definitiva. Prati­camente sono ancora pro­prietari provvisori».

Provvisorietà siciliana. Eterna. Se mezzo millennio non è stato sufficiente a esaurire una causa per la restituzione alla popolazione dei terreni dati inizialmente all'Ospe­dale Grande e Nuovo di Palermo, c'è poi da stupirsi se nella città che più ricorda con rancore Nino Bixio esiste ancora la via Nino Bixio nonostante un quarto di secolo fa fu solennemente scalpellata la targa con scritto Nino Bixio?

Ogni tanto, l'odio si ravviva di improvvise fiammate. Così come, a capriccio, sullo sfondo a levante, si ravviva l'Etna. Poi, come si placa il vulcano, si placa l'odio. Per un po' ... Capiamoci: c'è odio e odio.

Assopito sotto le ceneri quello per Garibaldi, il suo braccio destro e i Mille, che repres­sero duramente esattamente 150 anni fa la sanguinosa rivolta di quei conta­dini che avevano preso troppo sul serio gli inviti alla rivolta contro i Borboni e i «borboniani», ne divampa oggi uno non meno velenoso e tutto isolano.

Da una parte ci sono il senatore Pino Firrarello (che gli avversari descri­vono il puparo e gli amici come il Richelieu del Pdl siciliano), suo genero Giuseppe Castiglione detto Peppe, l'ex governatore Totò Cuffaro e infine il presidente del Senato Renato Schifani, uniti dal «patto del pistacchio».

Dall'altra c' è il governatore attuale Raffaele Lombardo.

Una guerra frontale. Senza esclusione di colpi. Con reciproche accuse di incon­fes­sabili rapporti d' affari e ambigui legami con ambienti mafiosi. Col governatore che usa parole da romanzone ottocentesco: «Gli ascari e i pupi, che fanno lo stesso mestiere dei capimafia, control­lano che i potenti saccheggino la Sicilia. Ma noi non ci faremo intimidire dai mille sicari che questi ascari e pupi assolderanno. Stiamo sovvertendo secoli di saccheggi. Infangando me hanno infangato l'onore della mia terra. Io tengo al mio onore, alla mia libertà e in terza istanza alla mia vita».

Risposta gelida di Don Pino Firrarello: «Questa poteva essere una sta­gione d' oro per la Sicilia. C'erano 14 miliardi di fondi strutturali vari. C' era un governo amico. C' era una maggioranza bulgara in consiglio regionale. Tutto buttato via per colpa di questo criminale politico».

Per capire cosa c'entri il pistacchio e come mai questo letale scontro intestino nella destra isolana possa avere oggi un'importanza deter­minante per lo stesso governo nazionale, occorre partire da lontano.

E cioè, con l'aiuto prezioso di Franco Cimbali e del sito internet bronteinsieme.it ricco di dotte citazioni storiche, dal XV secolo. E dalla prepotenza dei frati della abbazia benedettina che teneva in pugno le terre della zona.

 

1860/2010, 150° dei Fatti di Bronte

 - La ferita aperta di Bronte
 - Memoria e revisione dei Fatti di Bronte
 - Bronte e Roma allo specchio
 - Bronte, una strage e due verità
 - Ma perché a Bronte il popolo fu così violento?
 - Ma insomma, a Bronte chi aveva ragione?
 - Le grandi date, 1860: I ribelli di Bronte


 

I Fatti di Bronte

Simbolo del conflitto sociale del Risorgimento

di Salvatore Lupo

«La questione di Bronte, la strage, ma soprat­tutto la repres­sione, simbolo del conflitto sociale del Risorgi­mento».

Salvatore Lupo (Siena, 7 luglio 1951) è tra i maggiori storici contemporanei, professore ordinario di storia contemporanea all'Uni­versità di Palermo e preceden­temente docente di Storia contempo­ra­nea presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Catania.
E' presidente dell’IMES (Istituto Meri­dionale di Storia e Scienze Sociali) di Catania, vicedirettore della rivista storia e scienze sociali dell'istituto "Meridiana", nonché uno dei più quotati studiosi della mafia in ambito ita­liano, autore di numerose pubblicazioni sul fenomeno crimi­noso e di storia contemporanea.
Per la Donzelli ha pubblicato: Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri (1993, nuova ed. 2004); Andreotti, la mafia, la storia d’Italia (1996); Il fascismo. La politica in un regime totalitario (2000); Partito e antipartito. Una storia politica della prima Repubblica (2004).


Leggi gli Atti processuali
del processo istruito dalla Commissione Mista Eccezionale di Guerra per i sanguinosi Fatti di Bronte dell'Agosto 1860

Frati descritti da Benedetto Radice nel libro «Nino Bixio a Bronte» come «ribelli alla volontà dei re e dei papi, usurpatori dei beni finitimi del monastero (..) litiganti, congiuratori e mezzo briganti». «Potevano quei pii monaci avere scrupolo d' invadere i beni di poveri rustici ignoranti?» si chiede lo storico.

«Fu dunque facile a loro l'opera d' usurpazione, profittando della fede, dell'ignoranza, delle moltitudini sparse nelle masse. I monaci ingordi, non bastando loro i beni assegnati, agognavano l'altrui e crediamo che abbian potuto, con la complicità di mal nati cittadini, usurpare le terre comuni,».

Fatto sta che l'immenso possedimento, 13.963 ettari via via passati per varie mani comprese quelle indecenti del cardinale Borgia, destinato a diventare papa col nome di Alessandro VI, aveva finito per entrare di fatto tra le proprietà dei Borboni. I quali nel 1799, come ringraziamento a Orazio Nelson, che li aveva aiutati a reprimere la Repubblica napoletana e si era assunto il compito di impiccare sulla sua nave Francesco Caracciolo, pensarono di fargli un regalo. Gli offrirono dunque, con un gesto medievale alla vigilia dell'invenzione del treno e del telegrafo, un feudo siciliano a scelta tra Partinico, Bisacquino o Bronte.

Narrano che l'ammiraglio inglese, oltre che dalle informazioni sulla ricchezza di quelle terre, si lasciò guidare nella scelta dalla leggenda secondo cui Bronte era stata fondata dall'omonimo ciclope che coi fratelli Piracmon e Sterope era stato condannato a lavorare al servizio del dio Vulcano nelle viscere della montagna. «Anch' io ho un occhio solo» avrebbe detto Nelson, che aveva perduto l'altro in battaglia.

E Bronte fu sua.

Certo, il regalo non gli portò bene. Morì a Trafalgar prima di vedere di cosa era padrone. E non venne mai neppure il primo dei suoi successori, William, padre di Lady Carlotta, la prima a fare capolino nel feudo. E via via, insomma, i Nelson trattarono quelle terre siciliane, gestite attraverso l'invio di amministratori dal pugno duro, come avrebbero potuto trattare un bananeto in Rhodesia.

La prova, del resto, è sotto gli occhi di tutti al monastero fortificato, rilevato anni fa dal comune («fu una rivincita del paese che voleva riappropriarsi di quel simbolo di protervia» ricorda Pino Firrarello, anche allora sindaco come oggi) e noto come il castello Nelson: mobili inglesi, quadri inglesi, monili inglesi, stemmi nobiliari inglesi...

La cittadina, che oggi ha quasi ventimila abitanti, un reddito pro capite che secondo le stime di tre anni fa era di 6.589,9 euro (un terzo di Basiglio, Milano o Pino Torinese anche se superiore a quello della grande maggioranza dei comuni isolani ) una produzione media di 16.000 quintali di pistacchi sgusciati per l'80% esportati all'estero, è colpita oggi da una crisi pesante. Come la Sicilia, che secondo il presidente di Confindustria, Ivan Lo Bello, si ritrova con un reddito pro capite precipitato «a valori inferiori al 1974, quando era pari al 65% del reddito medio nazionale».

Niente a che vedere, tuttavia, nonostante la fatica che fanno le famiglie per arrivare a fine mese, con la situazione che trovò Carlo Levi nel 1952. «Per terra, nelle strade, nei Cortili in pendio, scorrono, per mancanza di fogne, le acque putride e il tanfo prende alla gola. Le case, se cosi si possono chiamare, sono delle tane dove piove dai tetti di canne, affumicate, spoglie, senza finestre, dove in pochi metri quadrati vivono accatastate otto, dieci, dodici persone. I bambini, dagli splendidi visi di angeli, hanno le pance gonfie per la malaria: è lo spettacolo della più estrema miseria contadina, inaspettata in questa costiera di paradiso».

Immaginate dunque come dovevano vivere i braccianti di Bronte un secolo prima. Quando dovevano dare ai Nelson il 60% del loro raccolto più la restituzione delle sementi.

Come potevano non illudersi quando vennero diffuse i primi proclami di Garibaldi? Quello del 2 giugno 1860 non lasciava dubbi: «Giuseppe Garibaldi comandante in capo delle forze nazionali in Sicilia, in virtù dei poteri a lui conferiti, decreta: Art. 1. Sopra la terra dei demani comunali da dividersi, giusta la legge, fra i cittadini del proprio comune, avrà una quota senza sorteggio chiunque si sarà battuto per la Patria. In caso della morte del milite questo diritto apparterrà al suo erede. Art. 2. La quota, di cui è parola all'articolo precedente, sarà uguale a quella che sarà stabilita per tutti i capi di famiglia poveri non possidenti...».

Pareva al fianco loro, l'Eroe dei due mondi. Lo aveva ribadito nel Messaggio di cittadini del 13 giugno 1860: «A voi robusti figli dei campi (..) Voi potete tornare oggi alle vostre capanne colla fronte alta, colla coscienza di aver adempiuto un' opera grande. Come sarà affettuoso l'amplesso delle vostre donne inorgoglite dì possedervi accogliendovi festose nei focolari vostri. E voi conterete superbi ai vostri figli i pericoli trascorsi nelle battaglie per la santa causa dell'Italia. I vostri campi non saranno più calpestati dal mercenario, vi sembreranno più belli e più ridenti. Io vi seguirò col cuore nel tripudio delle vostre messi...».

E chi potevano essere i «mercenari» che calpestavano i loro campi se non i Nelson e i loro alleati? La presero sul serio, la rivoluzione. Troppo. Senza tener conto che Garibaldi, i Mille, i Savoia, dovevano molto all'Inghilterra. E questa faceva sì tifo per l'Unità, purché non fossero toccate le proprietà inglesi. Come finì, si sa.

1860, I fatti di Bronte, La fucilazione (disegno di Federico Maggioni, Corsera 31-7-10)Delusi dalla decisione di non applicare ai possedimenti dei Nelson i proclami garibaldini, i «comunisti» brontesi, ché così si chiamavano rivendicando le terre comunali in contrapposizione ai «cappelli», i borghesi che stavano con i «ducali», si lasciarono travolgere dal furore. Fu un' ondata di violenza mai vista, frutto di secoli di violenza subita.

Sedici morti ma il peggio, avrebbe scritto Giovanni Verga, «avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l'oro, non si sa come, travolto nella folla.

Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: - Neddu! Neddu! - Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anche esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l'aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. - Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; - strappava il cuore! - Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant' anni - e tremava come una foglia. - Un altro gridò: - Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!».

Riconosce oggi il senatore Firrarello, pur rivendicando di essere stato lui a convocare nel 1985 a Bronte il processo pubblico a Nino Bixio che vide la partecipazione, tra gli altri, di giuristi celeberrimi, che no, «il braccio destro di Garibaldi non aveva alternative alla legge marziale. La situazione si era fatta incandescente».

Fatto è che nella coscienza non solo dei brontesi ma di tutti i meridionali che hanno letto Radice e Sciascia o hanno visto il film di Florestano Vancini («non c' è ragazzo della mia generazione che non l'abbia visto tre volte: elementari, medie e superiori» sorride Vincenzo Pappalardo, autore del libro «L'identità e la macchia / Il battesimo della coscienza civile a rompere nel dibattito sulla strage del 1860») la brutale repressione dei contadini etnei è il simbolo stesso della fine della grande illusione garibaldina e irredentista.

È vero, da altre parti come a Pontelandolfo, al quale dedicheremo una delle prossime puntate, la ferocia degli «italiani» nei confronti delle popolazioni meridionali talora rimaste fedeli ai Borboni fu addirittura maggiore. Ma è a Bronte la perdita dell'innocenza.

È lì che si macchia, come ricordano Franco Cimbali («c' è chi ha detto che la storia si scrive a matita, ci vuole tempo a volte per riscrivere quella dei vincitori») e il professor Pappalardo, il mito liberatorio garibaldino.

È lì che viene sacrificato il primo patriota che credeva davvero, nei valori liberali e unitari. Quel Niccolò Lombardo che aveva guidato il movimento di riscatto sociale e filogaribaldino e non era poi riuscito a fermare la rabbia popolare messa in moto.

Eppure Bronte non è solo il luogo fisico dove si spezza un certo sogno unitario. E anche il luogo simbolo del tradimento delle plebi meridionali da parte di troppi poteri: la Chiesa, i Borboni, i garibaldini pressati dalla Gran Bretagna, i Savoia, lo Stato italiano.

Basti ricordare che non solo l'Italia democratica e repubblicana restituì inizialmente ai Nelson i loro possedimenti requisiti dal fascismo e permise ai padroni della Ducea di demolire il Borghetto Caracciolo che era stato fondato proprio con quel nome per ricordare l'eroe della Repubblica napoletana del 99.

Ma non bastò neppure la legge agraria regionale del 1952, l'anno del terrificante reportage di Carlo Levi, a demolire il feudo e a distribuire le terre ai contadini.

Distribuzione avvenuta solo tra il 1963 e il 1965. E ostacolata fino all'ultimo dalla tignosissima famiglia che nel libro «The Duchy of Bronte», una sorta di memoriale, aveva rivendicato: «Un tempo la Ducea doveva mantenere cinque avvocati a Catania, due a Palermo, uno a Messina, uno a Roma, uno a Tortorici, oltre ad un notaio a Bronte».

Ma se per mezzo millennio è stata campo di battaglia, sociale, politica e avvocatesca intorno alla Ducea, Bronte lo è oggi per il potere (quello vero) dentro la destra siciliana. Che poi rappresenta il nocciolo duro (si pensi ai 61 seggi parlamentari su 61 conquistati nel 2001) della destra italiana. A maggior ragione centrale, come dicevamo, oggi. Dopo la diaspora finiana. E come sempre anche stavolta pare averci messo lo zampino Luigi Pirandello.

L'intera storia politica di don Pino Firrarello, l'oscuro patriarca secco secco del Pdl isolano, cugino acquisito e sodale dell'euro-deputato berlusconiano Vito Bonsignore (uno dei politici-finanzieri più potenti della penisola, brontese d'origine e torinese d'adozione) ruota infatti intorno a tre Lombardo. Lombardo (Nicolò) era il povero intellettuale fucilato da Nino Bixio al quale il nostro restituì l'onore con il processo postumo del 1985 e la famosa demolizione della targa stradale mai seguita dalla reale abolizione toponomastica.

Lombardo (Nunzio) era il boss andreottiano della Dc di Bronte quando il giovane Pino prese possesso della cittadina: «Era potentissimo, io lavoravo al dazio e mi chiese di stracciare una multa. Non la stracciai e mi dichiarò guerra. L'accettai. Durò 10 anni, la guerra. Alla fine non contava un pistacchio».

Anche quella contro il terzo Lombardo, Raffaele, è una guerra che va avanti da anni: «Lo inquadrai definitivamente quando si insediò alla presidenza della provincia. Fece venti minuti di filippica contro Cuffaro: "Usa l'accetta, taglia tutto, smettila con le clientele!". Poi ha fatto sempre il contrario. Non è un governatore: è uno sgovernatore. No, non credo che sia stato lui a scatenare i giudici contro Totò. Ma lui ne ha approfittato per rifarsi una verginità».

Il governatore ha risposto andandogli a dare battaglia in casa, a Bronte. Candidando alle ultime comunali un funzionario dell'Asl addetto ai ticket sanitari, Aldo Catania, che aveva miracolosamente raccolto una montagna di preferenze alle provinciali. E accusandolo direttamente nell'aula dell'assemblea regionale non solo di avere rapporti ambigui con un mafioso, Carmelo Frisenna, ma di coltivare affari non chiari nel mondo dei rifiuti, facendo riferimento a una «società che faceva capo al signore che era il leader della mafia nella Sicilia orientale», cioè Nitto Santapaola, «coinvolta nell'affare dei termovalorizzatori» e chiedendo che su questi inceneritori si andasse a fondo cercando «nomi e prestanomi».

Non contento, ha tirato in ballo Firrarello anche in un'audizione all'antimafia rivelando poi ai cronisti di aver parlato molto «di Paternò a proposito dei termovalorizzatori e della compravendita dei terreni».

«A mmia?» è sbottato Firrarello. E non perde occasione per sparare a zero, insieme con Beppe Castiglione, sul rivale: «Io so che dove ci sono gli inceneritori non c' è il caos. Perché in Sicilia non li fanno? Il problema è l'area? Li faccia da un' altra parte. Sulle sue insinuazioni l'ho già querelato. Faccio solo notare che il governo regionale, in controtendenza con il resto del mondo, non solo insiste ma ampia il sistema delle discariche. Perché lo Sgovernatore non vuole inceneritori? Le discariche sono più redditizie».

Su un solo punto, dice, lui e il genero che alla provincia di Catania è subentrato proprio a Lombardo («Lui aveva 39 dirigenti, io li ho portati a 26. Se avessi la stessa struttura sua spenderei 6 milioni di euro in più: io ho nove assessori, lui ne aveva 15) non vanno d' accordo: «Diciamo pure che la famiglia ad avere opinioni diverse. Io e mia figlia saremo per rompere subito con Lombardo in tutte le realtà locali, una quarantina, in cui siamo ancora insieme. Mio genero e mia moglie solo per lasciare per ora le cose come stanno, pensando che si logori».

Chi la spunterà? Pare impossibile, ma il destino della destra siciliana e di rimando perfino quello della destra italiana potrebbe dipendere, almeno un pò, da questo bisticcio in casa Firrarello.

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

[31 luglio 2010, pag. 12-13]






 1860 - 2010 / Nel paese etneo dove Bixio represse una rivolta

Nel paese etneo, dove Bixio represse una rivolta fucilando innocenti, è in corso una guerra furibonda: è il nucleo forte, tutto siciliano, dello scontro nella destra italiana

Bronte e Roma allo specchio

La politica del governatore Lombardo di togliere Garibaldi dalle vie e dalle piazze dell'isola non è che una metafora. Per mettere in discussione l'autorità del capo

Avevo giurato di non parlare di Berlusconi. Ma a Bronte, il paese dell'Etna dove Nino Bixio represse una rivolta fucilando cinque innocenti, il nostro capo del Governo si è messo così di traverso che mi tocca scriverne, anche se temo non ne sarò capace. Mi ci vorrebbe la penna di Camilleri per raccontare come a Bronte ho fiutato un fortissimo profumo di pistacchio (il frutto benedetto del vulcano) nell'ascesa di B., e come già senta un analogo, sicilianissimo odore di pistacchio in quello che pare il suo declino.

Avevo già sentito parlare del collegio Capizzi. Nel film di Vancini sulla tragedia di Bronte l'avvocato Cesare, che falsamente si qualifica come "liberale da prima del '48", presenta a Bixio padre Palermo, "direttore del collegio Capizzi, che avrà l'onore e il piacere di ospitarvi". E aggiunge: "Il collegio è l'unico asilo confortevole di questo nostro disgraziato paese". Ma la pia istituzione non è solo un asilo: è il cuore della restaurazione. Così ospita il processo che condanna a morte il più liberale e garibaldino dei notabili locali, l'avvocato Lombardo.

Quel regolamento di conti di cui Bixio si fa strumento è un capolavoro di gattopardismo che lascia intatto il potere feudale.

Oggi, dopo 150 anni di imbarazzato silenzio istituzionale, davanti al convento di San Vito hanno messo una lapide che condanna quella giustizia sommaria avallata dall'eroe dei due Mondi.

Ma ci vuol poco a capire che dalla fucilazione (e la restaurazione che seguì) il notabilato brontese ha tratto un vantaggio di cui gode ancora i frutti. Da qui una condanna distratta, approssimativa, con la lapide che sbaglia di cinque giorni la data dell'esecuzione. Cinque agosto invece del dieci.

Dunque me ne sto pacifico a sorbire un gelato al pistacchio in corso Umberto, a pochi metri dal collegio Capizzi, quando vedo un traffico di pie donne attorno alla chiesa del Sacro Cuore, contigua al venerando convitto di cui sopra.

Entro, e tra incensi e canti vespertini scopro una navata barocca restaurata come una bomboniera. Subito apprendo alcune "mirabilia".

Primo, il rifacimento è firmato da ambienti Fininvest. Secondo, il Capizzi è stato il collegio di Dell'Utri. Terzo, lì hanno studiato altri siciliani vicini al potere di B. Esempio: il brontese Antonio Fallico, l'uomo di Banca Intesa che fa da mediatore tra B. e Vladimir Putin.

Ma le sorprese non finiscono. Mentre ordino un secondo gelato al pistacchio, ecco che si apre scricchiolando il portone del collegio. Ne vedo uscire un omino nero in clergyman con in mano un mazzo di chiavi.

Curvo, sugli ottanta, se ne va, quasi invisibile nello struscio serale, cui non pare minimamente interessato. È il direttore, don Giuseppe Zingale, il maestro di Dell'Utri. Pare che dorma nello stesso appartamento in cui fu ospitato Bixio. Mio Dio, lì dentro non è cambiato niente. Il consiglio di amministrazione è ancora da Ancien Régime: due preti, un avvocato, un nobile e un borghese.

Possibile che tutto sia così leggibile? In chiesa, sulla sinistra, c'è un altare moderno in bronzo di pessimo gusto. Contiene le ossa del fondatore, Ignazio Capizzi vissuto nel Settecento, qui trasferite quindici anni fa da Palermo, e indovinate da chi? Per conto e con i soldi di Dell'Utri.

Sotto c'è una calorosa dedica, ma le manca la firma, e la firma, mi spiegano, era ancora di Dell'Utri. L'hanno raschiata via da poco, da quando l'uomo, che ha determinato il potere di B., è caduto in disgrazia. Ma allora è chiaro. C'è guerra furibonda a Bronte, e quella guerra è il nucleo forte, tutto siciliano, dello scontro che sfianca il Cavaliere a Roma. Non è cosa fra destra e sinistra, ma fra due fazioni della destra, partorite dallo stesso ambiente clericale. Quella dei separatisti di Dell'Utri e quella degli azzurri ultras. A giugno ci sono state le elezioni comunali, e lo scontro è stato micidiale.

Hanno vinto i secondi, quelli che hanno raschiato la targa. Ma i primi non restano a guardare. Attaccano, con potenti segnali. E indovinate attraverso chi passano questi segnali? Garibaldi.

Qui tutto è rappresentazione, mi ha spiegato lo storico Nino Buttitta e oggi ne ho clamorosa conferma. In Sicilia attaccare Garibaldi significa discutere l'unità, e dietro l'unità, la leadership di B. Uno più uno eguale due.

Quando il sindaco di Bronte, che è pure senatore, ha chiesto di partecipare alle celebrazioni per l'impresa dei Mille, il governatore Lombardo - suo nemico giurato - gli ha risposto escludendo dalla kermesse il paese dell'Etna, proprio quello che avrebbe fatto più gioco alle sue tesi ultra-autonomiste. Mossa insensata, dunque? Niente affatto. Basta mettere B. al posto di G. (Garibaldi) e il bisticcio si chiarisce.

"De-garibaldinizzare" le vie e le piazze della Sicilia, ordina ai sindaci il governatore; ma è solo una metafora per discutere l'autorità del capo. E quando il sicilianissimo Gianfranco Micciché (qui definito "il ventriloquo di Dell'Utri") rilascia una furibonda intervista dichiarando che Garibaldi altro non è che un miserabile colonialista assassino, il discorso non va minimamente inteso in senso storico. È tutta e solo politica.

Frastornato dalle rivelazioni, la sera torno in albergo e in sala ristorante trovo una tavolata enorme a ferro di cavallo, con tovaglia zafferano e, intorno, camerieri in fibrillazione. È la festa di ringraziamento del sindaco, senatore Pino Firrarello, ai suoi grandi elettori.

Un'ora dopo, nella sala strapiena di convitati, chiedo al primo dei brontesi che ne pensa delle sparate di Micciché, e la risposta è quella che immagino. Firrarello difende Garibaldi, che pure è il mandante teorico della repressione nel paese da lui amministrato. "L'uscita di Micciché? Fuori luogo e volgare". De-garibaldinizza le strade anche lei? "Corso Umberto sarà dedicato a Federico II. Ma Garibaldi, Cavour e Mazzini non si toccano". Come giudica G.? "Avrà fatto degli errori ma non era un disonesto e credeva in quello che faceva".

Vado a dormire con la testa che mi frulla. Cerco di concentrarmi sulla storia vera, ripassando un bel libro sui fatti di Bronte scritto dal professor Vincenzo Pappalardo, saturo di fonti dirette. Ma sotto sotto il tarlo lavora.

Cosa sia il vero in Sicilia solo Pirandello lo sapeva. Penso: se Bixio ha fatto il gioco del collegio Capizzi, e il collegio Capizzi ha fatto Dell'Utri, forse c'è Bixio, dunque Garibaldi, dietro il potere di Berlusconi. E chissà, magari sarà uno come don Zingale a sancire un giorno la sorte del governo e della repubblica.

Allucinazioni siciliane? Forse soltanto italiane. Dalla finestra vedo un fiume di sterpaglia selvaggia colare dal vulcano sotto la Luna. Penso che a Bronte non è cambiato nulla, tranne una cosa: il popolo che ieri combattè per la terra, oggi è tragicamente felice di essersene liberato.

Paolo Rumiz

[Tratto da del 23 Agosto 2010 - Rubrica Il viaggio/Camicie rosse, di Paolo Rumiz]




 


 1860 - 2010 / Un episodio che ha fatto accapigliare gli storici

, 7 Agosto 2010 (Cultura e Spettacoli)

Domani i 150 anni del processo di unificazione dell'Italia coincideranno con un episodio che ha fatto accapigliare gli storici ed esacerbato l'odio dei «lazzaroni» contro i Piemontesi, dei sudditi dei Borboni contro i Savoia invasori.

Ma insomma, a Bronte chi aveva ragione, i garibaldini o le «coppole»?

L'8 Agosto 1860 a Bronte

L'8 agosto 1860 a Bronte - la città dei pistacchi andata pochi giorni fa in prima pagina per il tredicenne ucciso da un ragazzo poco più grande - avvenne la cosiddetta «strage», l'«eccidio».

Le Camicie Rosse di Nino Bixio dopo un processo sommario, fucilarono cinque uomini.

Fu l'ultimo atto di disordini che avevano fatto 16 morti tra i civili. E che erano scaturiti dalla rivolta dei contadini del paese siciliano. Capeggiati da Nicola Lombardo, occuparono le terre dei latifondisti, volendo così accorciare i tempi delle promesse di Giuseppe Garibaldi: ripartire i poderi secondo giustizia. La ribellione delle «coppole» - i popolani - contro i «cappelli» - i grandi proprietari - montò tra la fine di luglio e i primi di agosto. I «comunali» o «comunisti», nel senso che difendevano gli interessi del Comune, distrussero edifici, commisero violenze.

Ci furono sedici morti tra i civili, e poi l'invasione della Ducea di Nelson, proprietà della famiglia dell'ammiraglio inglese.

Alla situazione incandescente mise mano Garibaldi. Inviò Nino Bixio che con un tribunale misto di guerra, e un processo durato meno di quattro ore, giudicò 150 persone e ne condannò alla fucilazione cinque, tra le quali Lombardo.

La storiografia sudista, borbonica, fece di questi avvenimenti un chiodo per il j'accuse antigaribaldino. E per oltre cent'anni Bronte significò infamia sabauda, Unità d'Italia costruita sulla violenza e sul sangue.

«La repressione si allargò a Niscemi e a Regalbuto. Bixio fece mattanza, eseguì solo lui 700 fucilazioni».

Ecco la vulgata, peraltro suffragata da tante altre efferatezze compiute dai piemontesi nel processo di unificazione.

Ma la vicenda dell'agosto 1860 va riletta. E non come fece, nel 1972, Florestano Vancini nel film «Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non raccontano» realizzato con la consulenza di Leonardo Sciascia. Ora di Bronte i libri di storia raccontano. E i giorni dell'eversione e del giudizio sono a lungo sceverati nei corsi e negli studi delle cattedre universitarie.

Ma insomma, a Bronte chi aveva ragione, i garibaldini o le «coppole»?

Dice Romano Ugolini, direttore dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano: «Il nocciolo della questione è la protesta inglese per l'occupazione dei terreni di Nelson. Ci fu una precisa richiesta britannica di ripristinare la legge e Garibaldi non potè esimersi dall'ubbidire. Il 20 luglio aveva vinto a stento a Milazzo, aveva il problema di superare lo Stretto.
Non poteva tirare la corda con gli inglesi. Perché nell'epopea trionfalistica dell'impresa garibaldina non si tiene nel debito conto che la spedizione dei Mille fu una guerra. E che le Camicie Rosse, se pur diventarono poi diecimila, affrontavano l'esercito del Regno delle Due Sicilie.
Entrando a Napoli, liquidando i Borboni, Garibaldi avrebbe mutato l'assetto europeo. Non poteva permettersi l'ostilità del Regno Unito. Stava facendo l'Italia. Le decisioni di Bixio, rapide, brutali, si spiegano in questo contesto. Era un militare, usò un tribunale militare per giudicare i capipopolo».

Concorda lo storico Francesco Perfetti, ordinario di Storia Contemporanea alla Luiss: «Non si può condannare Nino Bixio. Garibaldi gli aveva chiesto di risolvere la crisi con gli inglesi. Ma a questa urgenza se ne aggiungeva un'altra, altrettanto se non più fondamentale. La rivolta aveva assunto una valenza sociale. Si colpivano i cosiddetti "galantuomini", i latifondisti. Erano stati incendiati il teatro, le case, l'archivio comunale. A Bronte era ormai caccia all'uomo, alla quale partecipavano anche delinquenti.

Certo, ci furono violenze, arresti da parte dei garibaldini. Ma alla fin fine Bixio diede l'ordine di fucilare cinque persone, se pure dopo un processo spiccio. Le vittime causate degli insorti furono molte di più. Di questo non tiene conto la storiografia coeva, borbonica. Che ha ovviamente alterato i fatti».
 

Visto dal Sud

«Io, prof di liceo classico quella storia la spiegherei così»

LA FUCILAZIONE DEI CINQUE BRONTESI (MURALES)Vincenzo Pappalardo insegna al liceo classico di Bronte. Lunedì 9 introdurrà nella città del pi­stac­chio la proiezione del film di Vancini «Bron­te, cronaca di un massacro che i libri di storia non raccontano».

Obiettivo, precisa: «No, raccontano. Mezza pa­gi­netta, nei testi scolastici. E non po­treb­be essere altrimenti, nel mare magnum del­l'epopea risor­gi­mentale.

Ma bisognerebbe spiegare altro, ai ragazzi di tutta Italia.

In Sicilia mancò la formazione di una borghesia agraria. La proprietà era tutta in mano ai latifondisti.

Così i piccoli pro­prietari andavano a rosicchiare le terre dema­niali, trovando l'ostilità dei contadini, che in quegli appezzamenti di nes­suno si recavano per fare legna, per il pascolo.

Anche per questo il Meridione ci ha perso, con l'Unità d'Italia. Almeno all'inizio».
[Li. Lom.]


Leggi gli Atti processuali del processo istruito dalla Commissione Mista Eccezionale di Guerra per i san­gui­nosi Fatti di Bronte dell'Agosto 1860 -



 


 1860 - 2010 / L'identità e la macchia

I primi di agosto di 150 anni fa odio di classe e violenza si abbatterono sulla cittadina in coincidenza con lo sbarco dei «Mille»: i contadini si rivoltarono contro i borghesi e ne uccisero 16. Poi Bixio soffocò nel sangue la rivolta. Dalle ceneri di quella cruenta rivolta nacque la nuova coscienza di unità

Ma perchè a Bronte il popolo fu così violento?

Il sindaco Pino Firrarello: Garibaldi non riservò ai brontesi lo stesso trattamento dei palermitani cui restituì il feudo di Bisaquino; anzi i presunti sobillatori della rivolta furono fucilati per evitare di compromettere i rapporti coi Nelson

I primi giorni di agosto per la Sicilia e gli appassionati di storia rappresentano l’anniversario dei “Fatti di Bronte” del 1860, quando una sequenza impressionante di odio di classe e di violenza si abbatté sulla cittadina, in coincidenza con lo sbarco dei “Mille”.

I contadini si rivoltarono contro i borghesi chiamati “cappeddi” e ne uccisero 16, prima che Bixio soffocasse nel sangue la rivolta, uccidendo simbolicamente degli agitatori presi a caso, dando orecchio agli odi e alle calunnie che in quei giorni ribollivano.
Ma perché a Bronte il popolo fu così violento? Cosa ha distinto la voglia di riscatto dei brontesi rispetto a quello del resto della Sicilia? Quali implicazioni sociali si celavano dietro questo episodio che la storia per molto tempo ha colpevolmente dimenticato?
Lo chiediamo al sindaco di Bronte, sen. Pino Firrarello, nato a San Cono ma che, vivendo da decenni nella città del pistacchio, dove si è sposato, ha coltivato un sincero amore verso questa città e un grande interesse per la sua storia.

I brontesi - dice - legati da sempre al lavoro della terra, accettavano mal volen­tieri l’usurpazione del loro territorio demaniale a favore dell’ospedale Maggior di Palermo e soprattutto a favore degli amministratori fraudolenti degli eredi di Orazio Nelson. In quel tempo non è errato dire che esisteva un opprimente stato di vassallaggio che aveva provocato un animato desiderio di rivincita, nella speranza di poter riacquisire i beni perduti».

Ma, se sono noti a tutti i motivi che convinsero i Borboni a donare la Ducea Nelson all’ammiraglio inglese, che aveva avuto il merito di sopprimere la rivolta partenopea, perché questa, con tutte le sue terre e le rendite, prima apparte­neva all’ospedale Maggiore di Palermo?

«Fu Papa Innocenzo VIII nel 1491 a donarla in feudo ai rettori dell’ospedale palermitano ai danni dei brontesi. Una donazione che provocò la reazione di questo popolo che intraprese una lotta gigantesca, ma impari, nel tentativo di riavere i beni e i diritti persi. Ne venne fuori una lunga contesa giudiziaria durata 4 secoli che sfiancò la già povera comunità brontese, costretta a subire le usurpazioni e le ingiuste pretese avanzate dall’ospedale di Palermo».

E quando arrivò Nelson la situazione cambiò?
«Assolutamente no. La lite giudiziaria continuò anche contro gli eredi di Nelson, ovvero i Nelson-Bridport. Anzi la voglia di riscatto delle terre si inasprì e con essa le tensioni sociali, fino a sfociare nei fatti del 1860. Già nel 1820, nel 1848 e nel 1849 si verificarono dei moti rivoluzionari con l’obiettivo di riavere l’immenso patrimonio terriero della Ducea e soprattutto quei beni demaniali che la Ducea aveva con frode annesso».

«Vurimmu 'a Terra»

1860-2010 / «Vurimmu 'a terra» (Vogliamo la terra), un murales dedi­cato al 150° anniversario dei Fatti di Bronte disegnato dagli alunni della Scuola Media "L. Castiglione", sulla parete di ingresso dell'Istituto.

Bronte 10-12-2010, annullo postaleUn particolare dello stesso murales è stato utilizzato nel dicembre 2010 per un annullo postale filatelico commemo­rativo dal tema “Verso il 150° anni­ver­sario dell'unità d'Italia”.
L’evento, realizzato dalla nostra Associazione ha voluto in qualche modo ricor­dare la sanguinosa rivolta dei contadini brontesi dell’agosto 1860 repressa dura­mente da Bixio con la fucilazione di cinque malcapitati.

Allora l’arrivo di Garibaldi che prometteva lo smantellamento dei latifondi e la spartizione delle terre doveva rappresentare il momento del riscatto. Perché non fu così?

«Perché Garibaldi non riservò ai brontesi lo stesso trattamento riservato, per esempio, ai palermitani che ebbero restituito il feudo di Bisaquino, in precedenza donato dal re di Napoli ad un suo favorito; anzi i presunti sobillatori della rivolta furono fucilati, onde evitare di compromettere i rapporti con il governo inglese rappresentato dagli eredi di Nelson. Ricordatevi che a Bronte, caduto il regime Borbonico, non solo non furono restituite le terre ai contadini, ma non fu neanche abolita la tassa sul macinato che penalizzava i più poveri».

È vero anche però che a Bronte prima dell’arrivo di Bixio si verificò un orrendo massacro. I rivoltosi uccisero 16 persone, fra quelli definiti “galantuomini” o i “cappelli”. Più che una lotta contro gli usurpatori è sembrata una guerra civile.
«Sì, perché quei civili, che godevano degli affitti dei terreni demaniali illegittimamente annessi dalla Ducea, agli occhi del popolo erano concretamente il nemico, che privava i contadini di terre che, nel diritto medievale erano destinate a loro. Anni di tensione sociale avevano determinato la formazione di due partiti: quello dei “ducali” e quello dei “comunisti”. Fra i ducali c’erano i “cappeddi” che sostenevano la legittimità non solo dei possessi ma anche delle illecite annessioni di terre dei Nelson, mentre fra i secondi coloro che denunziavano l’indegna usurpazione. Se tutti i contadini erano uniti da una parte, non tutti i borghesi lo erano dall’altra».

Alla fine dalle ceneri della sanguinosa rivolta il prof. Vincenzo Pappalardo ne “ “L’identità e la macchia”, fa nascere la nuova coscienza di una Bronte unita.
«Pappalardo ha ragione. Il dibattito sulle radici del massacro che si sviluppò ha condotto i brontesi del tempo a discutere sulle loro fondamenta storiche, sviluppando il comune senso di appartenenza e di convivenza. Il capolavoro cinematografico di Florestano Vancini, le giuste considerazioni di Leonardo Sciasciaia e il Processo a Bixio del 1985, ebbero il merito di dare forza a quell’autocoscienza».
  

Cenni storici su Bronte

I Fatti del 1860
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