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Bixio, una vendetta commissionata Deve solo risolvere la resa dei conti di due fazioni ... «Travolsero ogni ostacolo; appiccarono il fuoco ad alcune case, al teatro e all’archivio comunale; uccisero chi vi si opponeva, soddisfarono vendette personali, e con spietata ferocia ristabilirono il diritto avito. Vendette perpetrate con spietata perizia chirurgica, e spiegate dalle cariche pubbliche delle vittime: il notaio della ducea, il segretario della ducea, l’impiegato del catasto, il cassiere comunale, l’usciere, la guardia rurale. (...). A Brunti nun c’è tempu, La reazione della ducea fu immediata, affidata al console britannico John Goodwin e da lui intimata al prodittatore Garibaldi che subito incaricò il generale Bixio della spedizione punitiva con la quale la rivoluzione italiana - per incontrovertibile logica - avrebbe ripristinato l’ordine pubblico. E con l’ordine restituito la piena proprietà delle terre alla ducea inglese, resa ancor più piena per la decadenza delle leggi del Borbone che ancora tutelavano parte degli antichi privilegi pubblici. Bronte: intricato intarsio di case inerpicate sul ripido declivio lavico, labirinto di vicoli e cortili, inespugnabile fortezza affacciata sulla valle del Simeto. Bixio vi giunge con un battaglione di 400 unità, quasi la metà dei fantomatici mille che occorsero per conquistare la Sicilia intera. Malgrado il numero, se solo avesse voluto Bronte avrebbe inghiottito nel suo ventre quella masnada mercenaria. Invece l’accoglie offrendosi fiduciosa alle speranze d’italia. Subito si insediò un tribunale militare, che in mancanza dei colpevoli che nel frattempo s’eran dileguati sui monti, non esitò a condannare gli innocenti. Bronte non teme Bixio; Bixio non teme Bronte. Bronte ha ricevuto la sua avanguardia, guidata da Poulet, e Poulet ha riferito a Bixio della situazione tornata alla tranquillità. I ribelli scesi dalle montagne avevano soddisfatto la propria vendetta, e alle montagne erano risaliti, lasciando che alla devastazione subentrasse l’ordine. Bixio, risalendo la valle, non giunge perciò a Bronte per ripristinare un ordine già ripristinato, ma - come già i ribelli - per adempiere alla vendetta commissionatagli: la sua non è una missione militare, e non sosterrà nessuna battaglia, né affronterà nessuna resistenza. Deve solo risolvere la resa dei conti di due fazioni dello stesso partito, indipendentista nel ‘48 e italiano nel ‘60. Bixio fu solo il sicario incaricato a risolverla. Non senza premurarsi di rispettare tutte le forme del rito processuale, fin’anco presentandosi la Corte come “commissione mista” civile-militare, e ammettendo il diritto per gli imputati di eleggere un difensore che per loro presentasse le eccezioni e le difese scagionanti depositandole presso il cancelliere preposto. Tale diritto fu ammesso alle ore 12,00 del 9 agosto, fissandone la scadenza dei termini di presentazione delle istanze di difesa alle ore 13,00 del medesimo giorno. Quelle presentate dall’avvocato Cesare - forse le uniche che affannosamente si riuscirono a presentare -, incaricato della difesa di Lombardo e di altri tre imputati, pervennero alle ore 14,00. Pertanto furono dichiarate dal tribunale irrecettibili perchè prodotte fuori termine. Alle ore 20,00 di quello stesso giorno il tribunale, ai sensi e per le disposizioni dell’art. 129 del codice penale del Regno delle due Sicilie - per aver eccitato la guerra civile tra sudditi del Regno -, emise la sentenza di morte “in nome di Vittorio Emanuele II, Re d’Italia”. Una legge decaduta applicata in nome di un re di una Italia non ancora proclamata condannò proprio quel Nicolò Lombardo che da avvocato quella legge conosceva, infrangeva e combatteva proprio per dare l’Italia a quel re . E quel re di una Italia che ancora non c’era lo condannava con le leggi del re del Regno che lui stesso aveva rinnegato e combattuto. Nicola Lombardo, deputato del parlamento rivoluzionario del 1848, liberale, e fieramente “italiano”, e da un paio di giorni sindaco per supplire l’assenza del sindaco fuggiasco De Luca, e dallo stesso De Luca indicato come ispiratore e capo della rivolta. Per combattere i ducali aveva combattuto per l’Italia contro il proprio Regno, e adesso - vincitore - vedeva l’Italia accorrere a difesa dei ducali. s’ambrogghiunu li carti: Placido Altimari (Il brano è tratto da "Bronte" di Placido Altimari, 2016 - I versi sono tratti dalla canzone dedicata a Nicolò Lombardo "Chi dici Nicò" di Carlo Muratori) | |||||||||||
di Girolamo Barletta Frequentavo negli anni '40 le medie inferiori. Si era ancora in regime fascista. Il mio docente di lettere, che del fascismo era entusiasta, non faceva che parlarci di Risorgimento e di Garibaldi. Ci teneva il vecchio professore a ripetere per amore di verità che non 1000 erano i gagliardi Garibaldini, ma 1089 tra cui forse anche una donna. Per alcuni giorni il professore si assentò e a supplirlo venne una donnetta che, per doverosa rettifica o per malcelato rancore verso il collega, mormorò frasi dissacratorie del mito garibaldino. Ci capii poco, ma mi resi conto che la figura dell'eroe dei due mondi era discutibile. Nel dopoguerra, nei momenti duri della rivolta separatista in Sicilia, i seguaci di Finocchiaro Aprile demonizzavano il nostro eroe sino a contestare l'intitolazione all'«eroe biondo» di strade e l'erezione di monumenti. Gli oratori unitari invece riscuotevano applausi scroscianti alla menzione di Garibaldi e delle sue imprese. Giovanni Verga nella novella «Libertà» - come scrive Zino Papa in «Sicilia e oltre» - trasfigurò artisticamente i fatti di Bronte e per il processo celebrato da Bixio tramite «una commissione mista di guerra» per ordine di Garibaldi, a sua volta aizzato contro i contadini dagli inglesi, liquidò con poche parole l'operato del generale garibaldino: «Questo era l'uomo e subito ordinò che gliene fucilassero 5 o 6, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che gli capitarono». Una cruda repressione dei «villici» che avevano con caparbietà azzannato i «padroni» chiedendo ai liberatori le terre promesse. Ripensai in quei giorni alla mia supplente di storia e alle sue sorprendenti riflessioni. Che Garibaldi non sia stato davvero quel fior d'eroe che mi era stato illustrato? In una lettera scritta in francese a Cavour dopo l'incontro di Teano Vittorio Emanuele II descrive il personaggio in maniera inusuale: «Non è affatto docile come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l'affare di Capua e il male immane che è stato commesso qui; ad esempio l'infame furto di tutto il denaro dell'erario, è attribuito interamente a lui che si è circondato di canaglie, ne ha seguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una spaventosa situazione». Nel processo a Bixio, celebrato a Bronte nell'ottobre 1985, per iniziativa del sindaco Pino Firrarello, la giuria presieduta da Giuseppe Alessi, primo presidente della Regione Sicilia, esamina gli avvenimenti dell'agosto 1860. Del comandante Bixio si svelano particolari agghiaccianti. Un ragazzetto che vuol portare due uova al prigioniero Nicolò Lombardo viene respinto dal feroce generale, evidentemente certo che il poveraccio sarebbe stato l'indomani condannato a morte, in maniera sprezzante. «Altro che uova, domani avrà due palle in fronte». O forse l'episodio si verificò dopo che la condanna era stata già pronunciata? «La sua condotta - conclude la giuria del processo - non può andare immune da censure di imprudenza e di eccessiva durezza». Scrive del processo il curatore degli atti, Salvatore Scalia: «Nella rivolta di Bronte si scontrano due uomini con gli stessi ideali, ma su di loro si stende la maledizione della ducea di Nelson, frutto di tradimento e simbolo di oppressione. Sicché l'uno, Nino Bixio, diventa il carnefice, l'altro, Nicolò Lombardo, la vittima. Si consuma così una grande tragedia del Risorgimento e del movimento garibaldino, che sacrifica alla vittoria la componente più radicale». Fu vera gloria quella di Garibaldi e dei suoi fidi scudieri? «In due vivaci saggi - annota Gianfranco Morra - Massimo Viglione demitizza l'epopea del Risorgimento, preparata e decisa da pochi uomini e sette collegate o affiliate alla massoneria. L'unificazione della Penisola ci ha dato uno Stato autoritario e centralista, ma non una Nazione unita e dotata di coscienza civica». Il revisionismo storico non dà tregua. (Articolo pubblicato su "La Sicilia" del 29 Dicembre 2006) (Corriere della Sera del 23 Gennaio 2002) Contadini contro galantuomini Così il Sud condannò l’Unità di Paolo Macry I contadini -ma anche una parte dell'élite locale - vogliono la divisione delle terre del demanio. I duchi e tutti coloro che utilizzano - meglio, usurpano - quelle terre, si oppongono. Finché nel 1860, sull'onda delle promesse di Garibaldi e del crollo dello stato, il conflitto esplode. Mobilitati dall'élite antifeudale, cui la situazione sfuggirà presto di mano, i brontesi massacrano, oltre alla duchessa(1) l'odiato notaio e una decina di «galantuomini». Qualche giorno più tardi, le truppe, di Bixio ristabiliranno l'ordine; passando per le armi alcuni rivoltosi, fra cui un avvocato, il loro presunto leader. Gli altri verranno processati e, quattro anni dopo, condannati. L’episodio smaschera una lettura canonica del Risorgimento che rimane tuttora opaca, spesso apologetica e reticente. Se i fatti di Bronte sono stati per lo più ignorati. da questa storiografia è perché rendono esplicito il debole radicamento del processo unitario la profonda incomunicabilità che, già neI1860, emerge tra Nord e Sud. A Bronte il linguaggio della nazione è assente e la lotta tra borbonici e unitari - o tra assolutisti e liberali - impallidisce di fronte ai ben più corposi conflitti di fazione che dividono la comunità. Un quadro che rivela, già prima del brigantaggio, le ferite della lotta di classe (su cui ha insistito la storiografia gramsciana) ma anche - come rileva Paolo Pezzino - forme e motivi tipici di una guerra civile. Per parte loro, i liberatori non sembrano capirci molto. Il Mezzogiorno, confiderà Bixio alla moglie, «è un paese che bisognerebbe distruggere, e mandarli in Africa a farsi civili». A Bronte, è difficile dare pagelle. I rivoltosi, per difendere la legalità, contro le usurpazioni, compiono un feroce linciaggio. I garibaldini, per restaurare la convivenza civile, organizzano esecuzioni sommarie. ----- (1) Charlotte Nelson-Bridport non fu oggetto di alcuna atrocità; la "signora duchessa" in quel periodo stava infatti nella sua Inghilterra. «A nessuno degli insorti - scrive lo storico B. Radice - venne in mente di dare il sacco al palazzo ducale; nessuna voce s’udì minacciosa contro di quello, sebbene da più di mezzo secolo gli covasse contro tanto odio di popolo. La bandiera inglese sventolante al palazzo e al Castello Maniace, il non lontano e sgradito ricordo della vana sommossa del ‘48 e più che altro il sapere che il popolo inglese aveva aiutato la rivoluzione, distolse la plebaglia dal tentarlo.» | |||||||||||
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