A ricordarglielo dopotutto, all’ingresso dell’auditorium, campeggiano ancora i poster a muro dell’evento insieme con l’avviso e il proclama che Bixio fece affiggere in paese e i cui originali biancheggiano a bella vista nella Biblioteca borbonica annessa al collegio. Se non bastassero, troneggia anche un pezzo unico in Sicilia: il ritratto gigante di Ferdinando II che mani sicuramente borboniche portarono da Palermo a Bronte e che qualche anno fa seguaci duosiciliani sono venuti religiosamente a visitare celebrando pure un rito. «Tanta gente ci fu allora qua dentro» ricorda don Zingale. La stessa gente che in verità, se processo doveva essere, non poteva che salire essa stessa sul banco degli imputati raggiungendo Garibaldi, perché fu il notabilato di Bronte a consegnare a Bixio i capi della rivolta, né supposti né sospettati, ma scelti tra i reprobi, fra cui l’avvocato liberale Nicolò Lombardo e lo scemo del paese, reo di dileggiare tutti, galantuomini compresi. Grazie a loro, a perpetuo monito contro nuove jacquerie, venne intestata a Bixio una via, non a caso proprio di fronte la chiesa di San Vito, sul cui piano i presunti rivoltosi furono fucilati. Naturalmente anche Garibaldi ebbe la sua via, ben più centrale, nonché re Umberto che intitola addirittura il corso principale. Una parte di Bronte scagionò dunque Bixio già 125 anni prima che venisse sottoposto al giudizio della storia. Ma l’altra metà lo ha ritenuto, a ragione, colpevole quantomeno di lesa umanità, la stessa accusa che Bixio mosse al paese e che «brucia ancora», a dire del giovane presidente della Proloco Dario Longhitano, per il quale il processo a Bixio non è mai finito. Un po’ anche per questo, permanendo la divisione delle coscienze, via Nino Bixio - istituita per puntiglio proprio lì, nel luogo del martirio e della sepoltura in via Campo dei fiori - non poteva durare. E così quattro anni fa l’allora sindaco Pino Firrarello l’ha fatta rinominare (ancorché nella zona venga ancora chiamata come prima) mettendo fine a un affronto diretto anche al monumento in ferro inaugurato nel 1985 in concomitanza del “processo” e posto ai piedi della collina di San Vito, in faccia alla via stretta e famigerata. Opera dell’artista locale Domenico Girbino, il monumento raffigura in uno stato di totale abbandono, di ruggine e in mezzo alle erbacce, un uomo cadente appena fucilato, chiuso in una gabbia di cerchi, metafora della libertà mancata. Libertà è una parola chiave a Bronte. Nel film del 1972 di Vancini “Bronte, Cronaca di un massacro”, l’avvocato Lombardo spiega a un ufficiale garibaldino che in Sicilia è sinonimo di pane e di giustizia: «Quando voi “dite di portare la libertà, la gente intende la terra». In nome della terra promessa da Garibaldi i brontesi massacrarono infatti sedici “sorci”: pensarono di ribellarsi ai loro oppressori e di meritare senz’altro l’elogio del dittatore, ma non capirono che, al pari della libertà, anche il concetto di oppressione si prestava a significati divergenti, come quello di rivoluzione. Furono certamente le interpretazioni date alle parole a segnare “i fatti di Bronte”, deliberatamente mai meglio definiti perché rimanessero nel generico. L’equivoco non è cessato. La vecchia via Bixio è stata infatti capziosamente chiamata “via Libertà”: a perpetuo fraintendimento dunque - come del resto suonano le epigrafi del monumento ferreo e delle lapidi murate nel 2010 a San Vito. In una delle due i nomi di “cappelli” e “berretti” sono riportati insieme perché riconosciuti tutti «vittime del cruento eccidio», dando perciò pure alla parola “eccidio” un ulteriore duplice riferimento: salvo nell’altra lapide specificare che «vittime di una giustizia sommaria, applicata in guerra in nome di una presunta ragione di Stato», furono i cinque brontesi fucilati. Che in sovrappiù sono ricordati nel cippo monumentale con parole altrettanto ambigue ed enigmatiche: «Ad perpetuam rei memoriam, che nell’agosto 1860 donò di cittadini brontesi la vita in olocausto». Parole dettate dall’intento di non irritare la vecchia classe “ducale” contrapposta a quella detta “comunista”, le due anime storiche di una città che ha avuto allo stesso tempo vittime e carnefici con i cui spettri non ha smesso di confrontarsi. Ma per Franco Cimbali, storico del Risorgimento e ultimo erede di una cospicua famiglia di fede regia, «nessuno oggi ha interesse a riesumare quei fatti. Nemmeno la scuola». Se ne è occupato invece uno studioso revisionista catanese, Placido Altimari, che quest’anno ha pubblicato un libro, Bronte, dove riconduce “i fatti” alle multireiterate ragioni di una crudele guerra di sopraffazione della Sicilia. Per un altro aspetto se ne è occupato anche Leonardo Sciascia che ha letto in una nuova luce la novella intitolata in maniera antifrastica giustappunto “Libertà” di Giovanni Verga. Lo scrittore etneo spacciò lo scemo passato per le armi per un nano e ignorò del tutto Nicolò Lombardo: due colpe gravi, secondo Sciascia, mistificazioni intenzionali montate a tutto vantaggio del suo ceto di appartenenza, perché parlare di nano e non di pazzo significava, «dissimulando in una menomazione fisica una menomazione mentale», incolpare un «essere pieno di malizia e di cattiveria» e non chi è «investito di sacertà» e perché tacere di Lombardo significava tenere all’oscuro i catanesi che ben lo conoscevano come fervente antiborbonico, a differenza dei suoi delatori tutti legati ai nemici di Garibaldi. Dopo 156 anni rimane dell’eccidio l’opinione condivisa che, conquistata ormai la Sicilia e sul punto di lasciarla, Garibaldi avrebbe ben potuto mostrarsi indulgente con i siciliani non solo di Bronte ma di molti altri Comuni etnei che si erano sollevati usando i suoi mezzi e confidando sui suoi decreti. Quando due anni dopo il generale tornerà in Sicilia, il processo ai veri rivoltosi (che diede apertamente al primo il senso di una decimazione) sarà in pieno svolgimento e si concluderà l’anno dopo con 37 condanne anche all’ergastolo. Naturalmente Garibaldi si guarderà bene dal passare da Bronte e dagli altri paesi normalizzati dà Bixio, forse perché consapevole o forse no di aver posto la sua firma alla prima strage di Stato della nuova Italia. |