I Fatti del 1860

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ANTEFATTI - DECRETI DI GARIBALDI - SITUAZIONE LOCALE - I FATTI DAL 2 AL 9 AGOSTO - DIBATTITI E RICOSTRUZIONI


I DIBATTITI E LE RICOSTRUZIONI DEI FATTI DI BRONTE

Bronte processa Bixio

La Sentenza

Per ricordare e riscrivere i tragici fatti del 1860, Bronte celebrò, dopo oltre cent’anni, dal 17 al 19 Ottobre 1985 un convegno - processo a carico di Nino Bixio. La sentenza e le conclusioni della Corte (estensore il prof. Ettore Gallo) emesse il 24 Novembre furono  illustrate dal presidente sen. Alessi nel marzo del 1987.

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La Commissione

(designata dal sindaco di Bronte con lettera 22 luglio 1985) composta dai signori:

Sen. avv. Giuseppe Alessi - Presidente dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Relatore (eletto presidente della commissione).
Prof. Antonino La Pergola - Ordinario di diritto costituzionale nella I Università di Roma, Vicepresidente della Corte costituzionale.
Prof. Ettore Gallo - Ordinario di diritto penale nella Università di Roma, giudice della Corte costituzionale. Estensore.
Prof. Vittorio Frosini - Ordinario di filosofia del diritto nella I Uni­versità di Roma, Componente del Consiglio superiore della magistratura.
Dott. Martino Nicosia - Presidente della Corte d'appello di Catania.

Ascoltati gli interventi degli storici professori Candido, Ganci e Giarrizzo nella tavola rotonda presieduta dalla professoressa Emilia Morelli, nonché le ragioni dell'accusa, sostenute dagli avvocati Seba­stiano Aleo e Armando Radice, che conclusero per la responsa­bilità del generale Nino Bixio nella fucilazione dei cittadini di Bronte, e quelle della difesa, rappresentate dal prof. avv. Guido Ziccone e dall'avv. Cesare Zaccone, che hanno sostenuto l'assoluta estra­neità di Nino Bixio, udita la relazione del presidente sen. avv. Giuseppe Alessi, acquisiti numerosi documenti e testi storici e biografici, e a seguito di varie sedute durante le quali sono state riesaminate le trascrizioni degli interventi registrati e discussi i vari punti di fatto e di diritto dei quesiti proposti,

ha espresso il seguente motivato avviso.

1) Come ha precisato più volte il presidente di questo collegio, solo impro­priamente si è parlato di "processo", e altrettanto impropria­mente si defini­rebbe "sentenza" l'apprezzamento che la commissione è stata chiamata ad esprimere a conclusione di tre giorni di appassio­nato ed elevato dibattito su fatti e comportamenti ormai consacrati dalla storia del Risorgimento. Non senza ragione al dibattito, oltre ai giuristi, hanno partecipato anche storici e politici.

Vero è che, essendo peraltro questo collegio composto esclusiva­mente da giuristi, giuridico è evidentemente il responso che da esso si attenderebbe.

Ma la natura del giudizio non comporta, per ciò solo, la comparsa della "giurisdizione"; la quale si sostanzia non soltanto nella valutazione di una condotta storicamente verificatasi, ma altresì, nell'affermazione dell'ordina­mento riguardo ad essa.

Affermazione che questo collegio non può dare in termini di "giurisdi­zione", sia perché non è investito dei relativi poteri, e sia perché, sul piano penali­stico, l'affermazione dell'ordinamento in ordine ad una certa condotta, com­porta altresì il comando di sottoporre o non sottoporre il suo autore ad una sanzione nel che, anzi, si risolve propriamente l'oggetto del pro­cesso penale, secondo la più moderna dottrina processualistica.

Comando inibito nella specie, non soltanto per la già rilevata carenza del corrispondente potere, ma altresì per la mancanza del soggetto cui il comando andrebbe riferito, visto che negli ordinamenti civili non si usa sottoporre a procedimento persone prive di vita.

Ne deriva che quanto questo collegio potrà, in definitiva, esprimere sarà soltanto un giudizio di revisione critica attorno ad un episodio cruento occorso nella storia del Risorgimento italiano, tenendo conto delle acqui­sizioni e degli apporti documentali e di pensiero frattanto intervenuti.





 

La Corte del Processo a Nino Bixio:
Vittorio Frosini, Antonio La Pergola, Giuseppe Alessi, Ettore Gallo, Martino Nicosia.
Sulla destra, l'allora sindaco di Bronte, sen. Pino Firrarello.
Sostennero le ragioni dell'accusa gli avvocati Sebastiano Puleo e Armando Radice; difesero Bixio il prof. avv. Guido Ziccone e l'avv. Cesare Zaccone

A destra, Nino Bixio

Nino Bixio



Le risultanze della Corte

Ritiene complessa la responsabilità per gli eccidi, le violen­ze, le devastazioni e gli incendi occorsi in Bronte dal 2 al 5 agosto 1860;

manifestamente ingiusta la sentenza del 9 agosto 1860 della Commissione mista di Guerra che condannò a morte l'avv. Lombardo e gli altri quattro cittadini di Bronte addebi­tando la responsabilità della storica grave ingiustizia esclusi­vamente ai giudici straordinari che hanno deliberato la sen­tenza;

esclude la corresponsabilità di Nino Bixio nella fucilazione ma censura il comportamento di Bixio, quale Generale delle truppe di occupazione, per grave imprudenza e per l'eccessiva ed ingiustificata durezza della sua condotta nei riguardi dei condannati.

La Corte assolve, infine, i giudici per aver agito in partico­lari situa­zioni psicologiche "che, purtroppo, trovano riscontro nel cor­so degli eventi bellici, ma non giustificazione nella co­scien­za etica dell'umanità".


 

Gli atti del convegno, il dibattimento proces­suale e la sentenza della Corte sono stati da noi pubblicati in una edizione digitale libera­mente scaricabile dal ns. sito

 Scarica il "Processo a Bixio"

(in formato PDF, 830 Kb, 71 pagg.)

 
 

IL DIARIO DI NINO BIXIO

Una sorta di taccuino di appunti, dove Bixio elabora i testi dei decreti da emanare, degli avvisi da diffondere alla popolazione, degli ordini da conferire ai suoi subalterni e della corrispondenza da spedire

Giudizio che andrà necessariamente inquadrato nel momento storico in cui si è verificato, in guisa che i comportamenti dei protagonisti do­vran­no es­sere considerati nel contesto e nella dinamica delle vicende che si andava­no sviluppando, utilizzando quella tecnica che la dottrina penalista defini­sce di "prognosi postuma": giudizio, perciò, bensì giuridico, ma alla luce della legislazione dell'epoca, e nel valore che i fatti ebbero nella loro realtà storica.

Più delicata, invece, l'ipotesi di apprezzamenti morali, che negli accesi dibattiti delle giornate d'incontro, ma anche da parte di taluni storici, sono stati largamente espressi più o meno obbiettivamente. Per verità, il giudizio nel processo penale, così come nel diritto penale stesso, dovrebbe prescinderne.

La tesi del diritto penale come sanzione del cosiddetto "minimo etico" non incontra più riconoscimenti nella prevalente dottrina moderna: e ciò non foss'altro perché - prescindendo da considerazioni filosofiche - ci sono sicuramente comportamenti che la società avverte come riprovevoli sul piano morale e tuttavia il diritto penale non punisce, mentre poi ce ne sono altri che il diritto penale reprime ma che la coscienza sociale non considera immorali.

D’altra parte pur scontando talune costanti etiche almeno per grandi epoche storiche, è di comune osservazione la relatività dell'apprezza­mento morale nel corso dei tempi. Precipitare il neonato deforme dalla rupe Tarpeia non parve allora immorale a quello stesso popolo che oggi lo disapproverebbe senza esitazioni: e, del resto, basterebbe considerare quanto è accaduto al così detto "comune sentimento del pudore” nel breve spazio degli ultimi cinquant'anni.

Tutto ciò non esclude, tuttavia, che il collegio possa qua e là sottolineare, quando se ne ravvisi l’opportunità, anche l'incidenza di taluni com­portamenti sul piano etico, specie quando essi si propongono come espressioni di costume, in relazione a taluni ambienti sociali o a categorie di cittadini.

Ciò detto sulla linea metodologica del giudizio che il collegio intende seguire, si passi alla ricostruzione dei fatti nel contesto delle vicende storiche in cui si svolsero.

2)  Quando Nino Bixio, informato della grave situazione creatasi a Bronte, riceve da Garibaldi l’ordine di accorrervi, sommosse e disordini si stavano verificando qua e là per l’isola : particolarmente - anche se non con manifestazioni così preoccupanti - in ben venticinque comuni della Sicilia centro-orientale. Dalle stesse lettere di Bixio appare chiaramente che in Randazzo, Castiglione, Linguaglossa, Maletto, Adernò, tutti comuni non lontani da Bronte, disordini erano in atto e moti erano in crescendo: tanto che è costretto a dislocarvi reparti della sua I brigata.

Per comprendere appieno, però, lo stato d'animo e la concitazione di Bixio, occorre ricordare che egli, al comando della terza colonna, stava risalendo lungo il litorale jonico per raggiungere Messina, dove Garibaldi aveva già concentrato le altre due colonne, l’una comandata dal Medici e l'altra dal Cosenza, dopo avere con esse espugnata la fortezza di Milazzo (20 luglio). In realtà, Bixio si era attardato perché aveva avuto l’incarico di fare proseliti lungo la via, accogliendo volontari ed insorti delle varie località ma ora aveva fretta di arrivare a Messina dove Garibaldi stava preparando lo sbarco in Calabria, il cosiddetto "passaggio".

L’ordine di Garibaldi, che lo raggiunge nel primo pomeriggio del 4 agosto a Giardini, dove aveva posto gli alloggiamenti, era di interrompere l'avanzata per accorrere nella zona dei moti e sedarli: ed è un ordine che lo contraria, perché teme di non arrivare più in tempo per lo sbarco. Sarà questa, anzi, l'ossessione che dominerà tutto il comportamento, e più volte egli stesso lo ricorderà.

Tuttavia, per quanto, nella lettera alla moglie del 17 agosto 1860, egli definisce questo inaspettato incarico “missione maledetta", sembra evi­dente, invece, che, se Garibaldi decideva di privarsi dell’apporto di importanti reparti operativi e dello stesso Nino Bixio, giusto nel momento in cui stava predisponendo lo sbarco, vuol dire che attribuiva rilevante importanza bellica al ristabilimento dell'ordine alle spalle della spedizione.

Vero è che da taluno (Cimbali) è stato scritto che Garibaldi si sarebbe risolto a distogliere Bixio dall’avanzata perché sollecitato dal console inglese in Catania, che temeva pericoli, ad opera degli insorti di Bronte, per gl'impiegati e la proprietà della Ducea di Nelson. E' verosimile che la sollecitazione ci sia stata e che Garibaldi non volesse mostrarsi ingrato ed ingeneroso nei confronti di alleati che avevano favorito e tuttavia favorivano la spedizione. Ma ciò non esclude affatto che, pure accanto a siffatti sentimenti, la notizia di quei moti particolarmente efferati gli destasse intanto ben altre preoccupazioni.
In realtà, è impensabile che uno stratega come Garibaldi, reso esperto da imprese e insurrezioni di due Continenti, accingendosi a portare la guerra nel cuore del regno borbonico, nell'Italia peninsulare, si rassegnasse a lasciare nell'isola pericolosi focolai di guerra civile e di turbativa nell'ordine sociale. Col rischio che, se questi fossero estesi, non avrebbe più potuto confidare soltanto sulla guardia nazionale, ma avrebbe dovuto impiegarvi parte delle sue truppe, ormai troppo preziose per il prosieguo della campagna.

Bixio, perciò, obbedisce, con piena consape­volezza dell'importanza della missione, e profonde coscienziosamente ogni energia: tant'è vero che, partito da Pistorina alle 18 del 4 agosto con due battaglioni di bersaglieri, arrivava a Bronte all'alba del 6 con due aiutanti, su di una carrozza noleggiata a Randazzo per precedere la truppa; che giungerà, infatti, tra la sera ed il mattino successivo a marce forzate.

Il suo soggiorno nella zona dei moti è febbrile - com'egli stesso scriverà - per l'ansia e la preoccupazione di non arrivare in tempo al passaggio dello Stretto. Il suo nervosismo, quella certa mal contenuta rabbia, trovano origine prima in questi suoi contrastati sentimenti. Uomo d'arme quale era, votato all'unificazione dell'Italia, fatto certo dalla sua incondizionata fede di compiere una missione ideale che sovrastava interessi e particolarismi locali, era incapace di comprendere il dramma di "questi nuovi comunisti che hanno il coraggio di scendere in piazza armata mano". "Colpa di ogni tempo - soggiungerà - verso un governo nazionale, ma più grave oggi che i tempi sono solenni e in cui tutti gli sforzi dovrebbero essere quelli di aiutare il Governo e non creargli degli imbarazzi" (lettera 7 agosto da Randazzo al governatore di Catania).

Ma la sua rabbia non è diretta soltanto contro gli insorti. Egli se la prende anche con quelle autorità locali che, elette recentemente perché in apparenza favorevoli al Dittatore vittorioso, in realtà non sanno (o non vogliono?) mantenere l'ordine.

Se, da una parte, egli non esita ad af­fermare che "sarà pur necessario dare qualche esempio capace di intimorire chi cerca sconvolgere l'ordine pubblico, spingendo a delitti orribili come in Bronte" (lettera citata al governatore di Catania) dall'altra, scrive al maggiore Dezza di mandare a Castiglione il 2° Battaglione "con istruzione che raccolga il Municipio e la Guardia nazionale e le faccia intendere che vogliamo che il Governo funzioni e non ci costringano a misure di rigore, altrimenti guai a loro". Dove la minaccia è alle autorità.

Così come se la prende altresì con quelli "che in Sicilia si chiamano galantuomini e che noi chiamiamo miserabili vigliacchi perché non si difesero (visto che nel disarmo dei civili comparvero a Bronte ben 350 fucili)? Perché nemmeno lo tentarono? Tutti disertarono il loro posto gridando aiuto, e pochi ignoranti e tristi rimasero padroni del paese. Non è così - esclama - che si conducono gli uomini di onore!" (lettera 10 agosto da Bronte al governatore di Catania).
E conclude alla fine: "Signor Governatore, io dichiaro a lei che, dato l'esempio di Bronte (i cinque erano stati fucilati quello stesso mattino alle 8), io non punirò nessun altro che i capi delle Amministrazioni, i Delegati, i Comandanti, le Guardie nazionali che non sieno alloro posto".
Ma conclude la sua lettera dell'8 agosto, al consiglio comunale di Cesarò, auspicando: “… e la pace farà ritorno fra noi, e noi ritorneremo i sol­dati della libertà che siamo venuti”.

A quella guerra di liberazione, infatti, il suo pensiero tormentato corre frequente, come dimostra la lettera del 7 agosto da Bronte al maggiore Dezza con questo finale: “…ma, badate bene, se vi giunge sentore d'operazione a Messina verso il Conti­nente, staccate immediatamente la marcia avvisandomi subito perché io vi raggiunga: e questo è l’importante!" Questo solo, infatti, è al som­mo delle sue preoccupazioni.

3)  E veniamo ai fatti di Bronte. Va detto subito che le responsabilità venivano da lontano. Come risulta dalla storia locale (Benedetto Radice), da 350 anni Bronte lottava per recuperare i diritti di cui il popolo era stato spogliato prima dalle donazioni di Papa Innocenzo VIII nel 1491 e poi da quella di Ferdinando I a Nelson nel 1799. Ospedale Grande di Palermo e "Ducea" di Nelson (così era chiamato il territorio donato al duca dal re Borbone) erano visti come usurpatori: e ancor più come tali furono considerati i cosiddetti "civili" o "galantuomini" che, dopo la corag­giosa partecipazione di Bronte alle rivoluzioni liberali del luglio 1821 e del gennaio 1848, approfittarono della restaurazione borbonica per ingrandire i loro domini, a spese dei beni demaniali.

Il popolo aveva anche tentato di riacquistare i propri diritti con mezzi pacifici e legali, ricorrendo alla magistratura soprattutto contro la "Du­cea", mediante l'assistenza proprio di quell'avv. Nicolò Lombardo che sarà poi protagonista della vicenda.

Ma le lunghe e costose cause, nelle quali la Ducea aveva resistito difesa dall'avv. Nunzio Cesare, non avevano mai avuto esito favorevole ai rivendicanti. Sì che i villici, oppressi dalle gabelle, spogliati dei beni comuni, umiliati dalla giustizia, non nutrivano certo né simpatia né fiducia per i reggitori della cosa pubblica.

In questa situazione di conflittuale tensione si erano delineate in Bronte due opposte fazioni: quella dei conservatori, che in qualche modo si accentravano attorno alla “Ducea”, comprendente i maggiori proprietari terrieri nonché i notabili e professionisti più moderati, oltre alla mag­gior parte del clero; e quella cosiddetta dei “comunisti” (espressione da intendersi in senso "civilistico", vale a dire di coloro che rivolevano la comunione dei beni demaniali usurpati), cui appartenevano, oltre ai villici e ai proletari, anche elementi di spicco della borghesia illuminata, fra cui noti professionisti e qualche sacerdote più moderno. In sostanza, questi ultimi erano dei liberali, con qualche punta radicaleggiante.

Al momento dello sbarco di Garibaldi a Marsala, i primi - che detenevano il potere attraverso la leadership del municipio e il comando delle guardie - si mostrarono borbonici legittimisti, nel timore che mutamenti così radicali avrebbero potuto compromettere la loro egemonia. Gli altri, da sempre cospiratori e taluni, anzi, reduci dai combattimenti del '48 a Messina, abbracciarono subito la causa dei garibaldini, anche con la legittima speranza di vedere finalmente premiata la loro vocazione alla libertà con l'essere chiamati a governare il nuovo ordine.

Ma le cose non si svolsero secondo quelle aspettative. Certo, il paese si era imbandierato del tricolore d'Italia e il popolo era sfilato per le vie, con gli avvocati Lombardo e Cesare alla testa, dopo la vittoria di Calatafimi (15 maggio). I vecchi reggitori erano ormai in pena: si erano tenuti in gran riserbo fino allora, nella secreta speranza che il "Filibustiere" fosse sconfitto.

Ma quando Garibaldi entrò in Palermo (27 maggio) e Catania insorse (31 maggio), ogni speranza fu spenta, e gli stessi borbonici fecero buon viso mostrandosi propensi al vincitore. Il 29 giugno il comitato liberale inviò a Garibaldi un indirizzo di adesione, e molti giovani brontesi corsero ad arruolarsi fra i garibaldini.

Frattanto il Dittatore, dal 17 maggio al 30 giugno, emanava, da Alcamo prima e da Palermo poi, una serie di decreti che disponevano circa la istituzione del nuovo governo, la formazione dei nuovi consigli comunali, la nomina dei governatori, nonché in materia di giustizia e di finanze, anche locali.
In particolare, interessa innanzi tutto, ai fini delle vicende in esame, il decreto 17 maggio 1860 con cui si dava mandato al governatore del distretto di ristabilire in ogni comune i consigli civici (e tutti i funzionari) così com'erano prima dell'occupazione borbonica: con espressa esclu­sione, comunque, dei fautori del presente regime "o di chi si oppone alla redenzione della Patria". Il governatore stesso è chiamato a vigilare e a decidere sui motivi di incapacità.

Con successivo decreto del 19 maggio, Garibaldi aboliva la famosa tassa sul macinato ed ogni altra imposta voluta dal Borbone dopo il 15 maggio 1849, data della Restaurazione.

E, infine, il 2 giugno 1860 emanava le non meno famose norme per la divisione delle terre dei demani comunali, assegnandone fra l'altro una quota certa senza sorteggio ai combattenti per la libertà o ai loro eredi, se caduti: stabilendo altresì che, qualora i comuni non avessero de­manio proprio, "vi sarà supplito con le terre appartenenti al demanio dello Stato o della Corona" (art. 3).

Questo complesso di norme, che testimoniava della linea politica che il Dittatore intendeva seguire, accrebbe a dismisura la popolarità della spedizione e aprì il cuore dei liberal-radicali e dei diseredati alla speranza dell'avvento finalmente di un'epoca di giustizia sociale e di democra­zia. L'avvocato Lombardo giudicò venuto il suo momento politico e la possibilità di attuare dal seggio municipale le riforme popolari che da tempo andava propugnando. Ma aveva fatto male i suoi conti.

Egli non aveva considerato, infatti, che una parte del suo ambiente ruotava attorno alla Ducea: fra gli altri Rosario Leotta, perché ne era il segretario, Franco Thovez, perché ne era il governatore, lo stesso avv. Nunzio Cesare, che ne era il legale e, come tale, si era più volte trovato a resistere alle azioni del collega Lombardo. In realtà, durante gli ultimi dieci anni della Restaurazione, la Ducea era stata compren­sibilmente un centro cospirativo liberale, e spesso i patriotti si erano riuniti nella residenza ducale.

Ma posti a fronte del radicalismo del Lombardo e dei suoi amici, uomini e seguaci della Ducea preferirono tenerli lontano dal potere: e poiché erano solo gli abbienti a votare, agli effetti elettorali non aveva alcuna incidenza la gran massa di popolo che seguiva il Lombardo.

Avvenne così che, quando nella seconda quindicina di giugno vennero indette le elezioni, le ingenue speranze del Lombardo rimasero forte­men­te deluse. Infatti, come più avanti vedremo, risultò alla fine eletto presidente del municipio Sebastiano De Luca anziché Nicolò Lombardo e, in luogo di Carmelo Minissale o del dott. Luigi Saitta, salì alla presidenza del consiglio il barone Vincenzo Meli, ritenuto inetto e conformista.

Si sperò, tuttavia, che i vincitori compensassero la minoranza sconfitta nominando almeno a giudice il Lombardo, in guisa da favorire un clima di pacificazione. Quelli, invece, vollero stravincere, e l'avvocato Cesare ebbe così il premio della sua fedeltà alla Ducea conseguendo la nomina a giudice.

4)  Se i nuovi eletti, pur essendo sicuramente dei conservatori, come dimostrarono di essere, avessero posseduto un minimo di buon senso po­litico, avrebbero almeno obbedito ai decreti del Dittatore in tal modo dando a vedere di voler seguire una politica più aperta e moderna. Inve­ce, non soltanto si guardarono bene dal procedere alla divisione delle terre, che pure era legge dello stato, ma non si dettero cura nemmeno di abolire l'odiosa tassa sul macinato che, già prima di Garibaldi, lo stesso re Borbone aveva da ultimo tolto di mezzo nell'estremo tentativo di accattivarsi il popolo.

Allora tutto parve un tradimento alla rivoluzione. Invano Lombardo e i suoi si rivolsero al governatore e al comandante della guardia nazionale affinchè intervenissero a ripristinare almeno la legalità. Nessuno si mosse, e il malumore si diffuse nel paese e nelle campagne fra mastri e villici.

Le antiche ire contro le vessazioni, le rivendicazioni di sempre, rinverdirono. Si ebbero dimostrazioni al grido di "Abbasso il Municipio! Abbasso i Borboni! Viva Garibaldi! Viva Lombardo! Vogliamo la divisione delle terre!" La notizia che Adernò, Biancavilla, Regalbuto ed altri comuni avevano già proceduto alla spartizione delle terre comunali fra i proletari esasperò gli animi.

Si ritornò a cospirare, vi furono adunanze notturne dai Minissale e dal Lombardo, mentre le quattro compagnie di guardia nazionale che si erano costituite in paese rinfocolavano gli odi: di queste, infatti, tre erano di parte ducale, comandate rispettivamente dall'avv. Cesare, dall'avv. Leanza e da Franco Thovez, mentre la quarta, comandata dal Lombardo, era formata da contadini e da qualche civile o mastro. Frequenti erano le reciproche provocazioni fra quest'ultima compagnia e le altre.

Fu prevista per il 5 agosto una grande dimostrazione di popolo, che avrebbe dovuto portare alle dimissioni dell'amministrazione comunale: e nulla più di quanto previsto si sarebbe probabilmente verificato, se non fossero intervenuti fattori estranei di cui nessuno aveva potuto in precedenza tener conto.

Innanzitutto, la circostanza che cittadini brontesi, detenuti per delitti comuni nelle carceri di altre città, approfit­tando dei disordini erano evasi ed erano rientrati a Bronte, dove avevano colto subito l'occasione per infiltrarsi nelle manifestazioni e nelle trame, esacerbando l'animo­sità ed incitando ad atti vandalici e crudeli.

In secondo luogo, è noto che altri agitatori accorsero dai paesi vicini per collegare i disordini e dare loro carattere eversivo. Lo stesso Bixio, nella lettera 7 agosto che da Bronte dirige al comandante la G.N. di Maletto, lamenta che "voci persistenti accusano Maletto di essere il focolare degli assassini che infestano la provincia".

Furono sicuramente questi elementi che, uniti a taluni efferati scesi dalla montagna (leggi: carbonai), riuscirono a trasformare manifestazioni, che l'indole dei villici locali avrebbe probabilmente mantenuto in limiti accettabili, in un eccidio orrendo che non aveva più niente di umano.

Ottusità e insipienza politica delle autorità locali, imprevidenza e sottovalutazione da parte di quelle provinciali (già avvertite dei moti che dilagavano in quella zona), interferenze di veri e propri delinquenti, interessati esclusivamente a trar vendette personali e bottino - oltre che al gusto sadico della devastazione -, e infine ire secolari troppo a lungo represse per denegata giustizia, rappresentano il complesso di cause, variamente interferenti, che determinarono la selvaggia esplosione.

Il resto fece la psicosi della "folla in tumulto": situazione che l'odierno legislatore penale considera fatalmente eccitante per l'animo dei partecipanti, al punto di valutarIa come circostanza obiettiva di attenuazione della quantitas delicti.

5) Ebbene le risultanze obiettive del processo dell'epoca e gli apporti storici degli studi successivi, escludono che l'avv. Lombardo, come del resto il Saitta e il Minissale, siano stati istigatori e determinatori dei gravi fatti occorsi, e tanto meno esecutori o materialmente partecipi di essi. Così come non esiste alcuna prova concreta di una effettiva partecipazione ai delitti di Spitaleri e Longhitano. Particolare è, invece, la posizione di Nunzio Ciraldo Fraiunco e di Nunzio Samperi Spiridione.

La sentenza dei giudici straordinari non ha tentato la menoma valutazione delle testimonianze, né ha in alcun modo considerato la persona­lità di chi deponeva e la parte politica in cui militava: il che, trattandosi di processo squisitamente politico, come denota l'imputazione di guerra civile, rappresenta l'aspetto più lacunoso della metodologia ermeneutica usata dalla commissione mista speciale di guerra.

Il vero è che alla parte politica che ruotava attorno alla Ducea, e comunque agli elementi locali più conservatori, non parve vero di cogliere l'occasione di caricare il tutto sulle spalle degli avversari e sbarazzarsene definitivamente. Molti degli accusatori avevano tanto da nascon­dere circa il loro passato di sostenitori della monarchia borbonica: sostegno che avevano protratto fino a quando era stato possibile senza danno: e tutti poi erano ben consapevoli di aver esasperato gli animi oppressi da antiche vessazioni, ostinandosi a negare anche ciò che i proclami del Dittatore apertamente concedevano.

Ma quando Bixio li interpellava (e non poteva non interpellarli essendo loro i legittimi detentori del potere) tutti si affrettavano a dare un'uni­ca preordinata versione sulle cause dei gravi fatti: l'ambizione dei loro avversari, e l'oscuro conseguente disegno di defene­strarli colla violen­za dalle posizioni di potere che le elezioni avevano loro attribuito, al solo scopo di mettersi al loro posto.

Ora, che l'acquisizione del potere fosse tra i fini perseguiti dagli avversari politici, non solo non può essere escluso ma deve dirsi, anzi, che è una naturale necessità della lotta politica, come inderogabile premessa per l'attuazione di un programma politico.

Ma ciò che gli accusatori non dicono è il perché i loro avversari perseguissero il potere, e perché mai la stragrande maggioranza del popolo (anche se non era tutta di elettori) al potere li avrebbero voluti: tutti erano, però, ben consapevoli che per i radicali il potere era strumen­tale all'attuazione di riforme popolari che la rivoluzione garibaldina aveva promulgato a sollievo della grande indigenza delle masse contadine.

Ma proprio questo era lasciato in ombra giacché, essendo quanto i conservatori non volessero concedere ed essendo la causa prima ed effettiva dell'insurrezione, ponevano ogni cura a che non emergesse a fronte dei rappresentanti di coloro che la rivoluzione sociale portavano sulla punta delle loro baionette.

Tutto il dramma viene così ridotto all'ambizione personale di pochi eversori che avrebbero sobillato ed illuso le folle ignare per trame perso­nalmente interesse: e come tale la situazione viene rappresentata a Bixio, ed agli stessi inquirenti che l'assumono acriticamente, ed anzi la fanno manifestamente propria orientando in tal senso l'intera istruttoria. A questo punto, i protagonisti e la stessa gravità dei fatti occorsi impallidiscono.

Dal presidente del municipio alle parti offese, salvo qualche fugace allusione a fatti di sangue o devastazioni, tutte le deposizioni sono incen­trate, in forma stereotipa, sulla congiura dei capi e sull'apodittica affermazione che essi avrebbero voluto e diretto tutte le orribili violenze.

Nessuno, però, è in grado di spiegare le ragioni di siffatte affermazioni, né di affermare di avere personalmente visto gli accusati alla testa degli insorti negli episodi di violenza. In realtà finiscono con l'ammettere che quelli fossero gli istigatori delle violenze soltanto perché nelle loro case si era tenuta in luglio qualche riunione di parte, o perché così diceva "la voce pubblica" (testi: Pace, Ciarapino, Isola, Quagliarello): che poi era quella stessa che essi accusatori avevano diffusa.

Quest'ultima giustificazione, anzi, si allarga al dibattimento, perché anche due dei più velenosi testimoni (il sacerdote Giuseppe De Luca, f. 22 del processo -, e tale Francesco Paolo Benevegna - f. 28 del processo -) sono costretti a riconoscere che nulla, comunque, sapevano di loro scienza, avendo il tutto appresso, appunto, "dalla voce pubblica".

D'altra parte, era evidente che riunioni e contatti con taluno dei villici necessariamente c'erano stati, visto che effettivamente la parte liberal-radicale stava organizzando per il 5 agosto una manifestazione popolare ostile ai reggitori che negavano l'attuazione delle riforme di legge.

Ma nessuno aveva potuto affermare di scienza propria che in casa Lombardo si fossero decise violenze, che furono invece frutto dell'inseri­mento di elementi delinquenziali estranei e di improvvisazioni.

Nemmeno, però, una sentenza, pur così prevenuta, osa considerare come preordinato tradimento l'episodio di Don Rosario Leotta, che il buon Lombardo va personalmente a salvare, abbracciandolo e baciandolo, e portandolo poi nel collegio religioso dove tutti ritenevano che gli indiziati sarebbero stati al sicuro da violenze: e ciò anche se la vedova riferisce il fatto drammaticamente, attribuendo a Lombardo le imprevedibili tragiche conseguenze che, nello sviluppo dei disordini, si verificarono anche nel collegio, ma non solo per Leotta.

Nessuno, però, riporta nel processo del pianto e della disperazione dell'avv. Lombardo quando apprende delle uccisioni, anche dei suoi cari amici, e dei rimbrotti che riceve dal fratello medico per queste debolezze, e per il fatto che si vuole rinchiudere in casa per estraniarsi da tanti misfatti che disapprova. Né la sentenza ricorda che, nonostante tutti lo consigliassero a fuggire, attesa la piega che le cose stavano prendendo dopo l'arrivo di Bixio, egli persiste nel volersi presentare spontaneamente al generale che, senza consentirgli nessuna giustificazione, lo fa subito arrestare.

Tuttavia, accusatori ed inquirenti si erano resi conto già al secondo giorno di istruttoria (8 agosto) che le prove erano o indiziarie o evane­scenti: ed ecco al termine dell'istruttoria si tenta il colpo di scena facendo comparire un teste spontaneo, un ragazzotto ventenne ma alfa­beta che, come tale, (rara avis), avrebbe dovuto sapere il fatto suo e ben sostenere la sua parte. Il giovanotto afferma, infatti, (finalmen­te) di aver visto con i suoi occhi "a capo di quella masnada" i fratelli Lombardo, ma precisa "nei primi momenti di quei trambusti". Così limi­tata, la deposizione si svaluta perché, fosse anche vero, i primi momenti erano stati quelli della prevista manifestazione ostile, in cui tutto si era ridotto a qualche grido sedizioso. A fine luglio, anzi, proprio il Lombardo, sollecitato dal delegato di polizia, aveva parlato ai manifestanti che spontaneamente si erano affollati nella piazza, invitandoli alla calma e esortandoli a tornare a casa perché la riforma si sarebbe fatta pacificamente.

Non solo. Ma il subdolo teste finisce per rendere addirittura deposizione sostanzialmente favorevole quando, allo scopo di svalutare "le parole d'ordine e di pace" che Lombardo diceva pubblicamente alla folla, soggiunge che però, poi, "segretamente si avvicinava ai malfattori e parla­va loro a bassa voce, facendo credere a questo pubblico che egli invitasse a quegli eccidi che di fatto si avverarono".

Senonché, essendo incomprensibile come il teste abbia potuto comprendere parole pronunziate segretamente a bassa voce, e ancor più per­ché mai il Lombardo, uomo intelligente e colto, avrebbe tenuto, nello stesso contesto, comportamento così scioccamente contraddittorio, sono di rigore due deduzioni: 1° che quest'ultima affermazione non è frutto di oggettiva osservazione ma della gratuita malevolenza del te­ste; 2° che il teste stesso non può non riconoscere che il Lombardo si era, in realtà, adoperato a mettere pace.

Questi rilievi valgono altresì per le posizioni di Carmelo Minissale e Luigi Saitta. Ma, a proposito del Saitta, la sentenza ignora assolutamente una clamorosa risultanza del dibattimento che, se rettamente intesa e valorizzata, porta a rovina l'intero castello dell'accusa, così come assurdamente formulata nei confronti dei capi radicali.

Risulta dal verbale di dibattimento che, conclusa la deposizione confirmatoria di Sebastiano De Luca, presidente del municipio (uno dei con­ser­vatori più accaniti nell'accusa contro gl'imputati), il Saitta gli fa domandare se sia a sua conoscenza che egli rifiutò di accettare la cari­ca di presidente del municipio cui era stato eletto. Il teste, con evidente imbarazzo, è costretto ad ammettere che il rifiuto effettiva­mente ci fu, tanto è vero che egli subentrò a seguito della rinunzia del Saitta: anche se poi miserevolmente soggiunge che si trattò evidentemente di una "finzione", visto che, invece, quando il popolo lo acclamò presidente, (durante la sommossa) egli non rifiutò.

Ma la replica del Saitta è facile: come sarebbe stato possibile rifiutare ad una massa eccitata; che tanti eccessi aveva già commesso?

La sentenza, però, non rileva che l'emergere di un siffatto particolare, che anche gli studi successivi trascurano, fa crollare la tesi di fondo degli accusatori, secondo cui i radicali avevano scatenato quella sanguinosa rivolta soltanto perché, mossi da personale ambizione, volevano defenestrare gli eletti per mettersi alloro posto.

Il rifiuto del dott. Saitta ad assumere la carica di primo cittadino, cui era stato regolarmente eletto, dimostra che non si trattava di ambizioni personali, ma che i radicali conducevano una reale lotta politica intesa ad affermare i principi sociali che la conquista garibaldina sembrava voler diffondere. Saitta, infatti, rifiuta perché non intende rappresentare, alla testa del municipio, una maggioranza conservatrice che egli avversa.

Tutto ciò trascura la sentenza, mentre valorizza ad elemento d'accusa l'ingenua dichiarazione di Don Carmelo Minissale il quale, invitato a spiegare perché mai verrebbe ingiustamente accusato di fatti non commessi, afferma che forse gli aveva nuociuto l'amicizia del Lombardo.

La commissione di guerra interpreta tale dichiarazione come accusa, in quanto presuppone - a suo avviso - il riconoscimento delle responsabilità del Lombardo, mentre è evidente che il Minissale intendeva soltanto dire che era stato coinvolto nell'odio che gli avversari politici nutrivano contro il Lombardo (taluni studi sostengono che nel luglio avessero persino meditato di tendergli un agguato per ucciderlo, talché il Lombardo evitava di uscire di sera o lo faceva per un'uscita secondaria).

La stessa commissione, peraltro, sembra davvero condividere i non lodevoli sentimenti degli accusatori, se condanna il Lombardo persino per abusiva detenzione di armi, quando risultava per tabulas che egli era ormai arrestato nel momento in cui veniva reso pubblico il bando militare di disarmo: e che ciononostante aveva sua sponte, appena conosciuta la notizia, consegnata al segretario di Bixio la chiave di casa per consentire che prendessero le armi.

Quanto agli altri imputati, solo nei confronti di Nunzio Samperi Spiridione e di Nunzio Ciraldo Fraiunco era risultata una effettiva partecipa­zio­ne alla sommossa. Ma per entrambi si trattava di grida sediziose, o di atteggiamenti bizzarri per il Ciraldo Fraiunco, da tutti definito "mat­to". Nessuno li aveva visti partecipare ai fatti di sangue o alle devastazioni o agli incendi.

Quanto a Nunzio Spitaleri Nunno, aveva spiegato che gli insorti lo avevano obbligato con la forza ad impugnare il fucile per restare di guardia alla cinta della città, ma che null'altro aveva fatto. Per non dire del Longhitano che avrebbe dovuto esclusivamente rispondere di detenzione abusiva di armi improprie dopo la pubblicazione del bando di disarmo.

D'altra parte, ancor più di quanto non disponga l'attuale ordinamento (che, ancorando sotto l'art. 110 cod. pen. tutte le responsabilità ad un improbabile egualitario principio condizionalistico, consente qualche differenziazione esclusivamente fra le maglie dell'art. 114 cod. pen., o fra quelle più generali di cui all'art. 133 cod. pen.), i vecchi ordinamenti preunitari, attraverso le numerose varianti del coautore, del correo, della complicità primaria o secondaria, necessaria e non, concedevano al giudice amplissima possibilità di adeguazione della pena al concreto contributo dato e alla qualità del dolo effettivamente inserito in una condotta plurisoggettiva eventuale.

Ma la commissione mista eccezionale di guerra dispregia queste sottigliezze scientifiche, e fa d'ogni erba un fascio accomunando tutti nella morte.

6)  In realtà, sull'iniquo giudizio le erronee valutazioni della prova e la scarsa preparazione nel diritto sostantivo hanno influito molto meno di quanto non abbiano potuto le intollerabili violazioni processuali nelle quali la commissione è incorsa.

E' davvero grave che la sentenza abbia impudentemente scritto, fra l'altro, (e facciamo grazia dei rilievi sulla sintassi, con cui l'estensore non aveva evidentemente familiarità) "che l'accusato Lombardo, sebbene si diceva innocente, pure non seppe giustificare la propria innocen­za, e si assillava solo a vaghe difese ...", quando non solo gli era stato impedito di introdurre una nutrita e circostanziata lista testimoniale che l'avrebbe completamente scagionato, ma gli si era persino rifiutata l'audizione dei testi indicati in dibattimenti su specifiche circostanze difensive, che la commissione avrebbe potuto assumere con i poteri discrezionali, indipendentemente dalla sorte della lista presentata negli atti preliminari.
La quale sorte, poi, è molto eloquente circa i metodi sbrigativi che si volevano adottare: basti considerare che il pubblico ministero fa noti­ficare in carcere alle ore 12 il decreto di citazione a giudizio per le ore 14, assegnando una sola ora di tempo per la consultazione degli atti e la presentazione dei mezzi a difesa.
Ora, è probabile che il termine a difesa fosse fissato dall'avvocato fiscale perché, trattandosi di rito subitaneo, era egli stesso che ordinava la notifica del decreto di citazione diretta a giudizio, e non il presidente della commissione. Ma assegnare due ore per comparire, e di queste un'ora soltanto per presentare la lista testimoniale, integra una manifesta iugulazione intesa a vanificare ogni materiale possibilità di difesa.

Durante quell'ora, infatti, i detenuti dovevano far avvertire il difensore, affinché accedesse alla cancelleria della commissione per prendere visione e appunti degli atti: dopodiché il difensore stesso sarebbe dovuto accedere sia al collegio religioso, dov'era recluso il Lombardo, sia al carcere dove trovavansi gli altri, per conferire con i detenuti e, d'intesa con loro, predisporre le liste e posizioni testimoniali, a depositarle in cancelleria. Incombenze impossibili a realizzarsi entro sessanta minuti: tanto più che si trattava di ben cinque imputati.

Fra l'altro non si comprende per quale strano principio processuale si domandi a Lombardo di nominare il difensore per se stesso e per tutti gli altri: tanto più che poteva manifestarsi qualche incompatibilità, che in realtà la commissione ritiene realizzata (sia pure erroneamente) quando assume come accusatoria per Lombardo la dichiarazione del Minissale. Almeno a quel punto, si sarebbe dovuto allora provvedere a nominare al Minissale un difensore d'ufficio.

E, per concludere in tema di prove, che dire di quell'unica concessione che, nonostante il dissenso dell'avvocato fiscale, si fa al Lombardo consentendogli di produrre due lettere ufficiali: l'una del comandante la G.N. di Catania, datata 11 luglio, l'altra del governatore di quel distret­to datata 2 agosto? Non si capisce perché mai sieno state ammesse, visto che poi la sentenza non dedica loro una sola parola: eppu­re da esse traspariva la preoccupazione del Lombardo per la tensione che l'atteggiamento dei detentori del potere provocava in paese e nelle campagne, e la richiesta d'intervento alle autorità distrettuali. Strano comportamento davvero per chi stava - secondo l'accusa - ordendo nell'ombra un'insurrezione eversiva!

E, infine, l'aspetto più esecrando della sentenza: la condanna a morte con relativa fucilazione del totalmente infermo di mente, come avve­niva nel Medio evo: ma almeno le genti di quell'epoca avevano a loro giustificazione l'opinione che l'insanità mentale significasse anima pos­seduta dal demonio, in guisa che la morte rientrava fra i mezzi di esorcizzazione.

Sta di fatto che da tutte le risultanze emergeva che si trattava di un povero demente, perché l'intera cittadinanza come tale indicava Nun­zio Ciraldo Fraiunco. Se pure fosse residuato qualche dubbio, sarebbe stato sufficiente convocare al dibattimento un qualsiasi medico gene­rico locale per avere il conforto dell'esperto.

Infine, e sempre sul piano processuale, c'è anche da rilevare che - salvo che gli atti in processo di questo collegio sieno riportati sommaria­mente - non risulta che agl’imputati siano mai stati contestati dei veri e propri capi d'imputazione.

Sia nella cosiddetta "informazione giuridica" redatta dalla commissione, e notificata agl’imputati il 9 agosto (che è poi la prima formale conte­stazione dell'accusa), sia nel decreto di citazione a giudizio, non c'è alcuna contestazione dei fatti, ma soltanto quella della fattispecie lega­le. L'imputato, però, non può difendersi dalla norma giuridica, ma bensì dalla precisa contestazione di fatti che si assumono da lui commessi e che si pretendono elevati ad oggetto della qualificazione giuridico-penale delle fattispecie citate.

Anche sotto questo aspetto, pertanto, la commissione ha violato i più elementari diritti della difesa.

Ma la commissione non indugiava su simili bazzecole perché - per dirla con il Poeta - “in tutt'altre faccende affaccendata - a questa roba è morta e sotterrata".

Sentenza, dunque, fondamentalmente viziata sul piano processuale e gravemente erronea sul piano valutativo: in conclusione, assolutamente ingiusta.

Da quanto esposto appare manifesto che, scontate le altre di cui si è detto più sopra, la prima responsabilità del sacrificio dei cinque impu­ta­ti, e particolarmente del Lombardo, va attribuita alla commissione di guerra. Per quanto, infatti, fosse pressata dall'impazienza di Bixio, la commissione, tuttavia, per accertare i danni riportati dalle case devastate od incendiate, ha trovato il tempo di accedere con i periti l’8 Ago­sto 1860 in ben trentacinque abitazioni come risulta dai verbali redatti per l’occasione.

L'incombenza ha comportato sicuramente l'impiego di alcune preziose ore di quel giorno, che ben potevano invece essere utilizzate per con­ce­dere un tempo appena più ragionevole alla preparazione delle difese, o - meglio ancora - per assumere ex officio i testi a difesa indicati nel dibattimento. Fra l'altro, i giudici avevano agli atti tutte le dettagliate denunzie presentate dalle parti offese, con l'elenco minuzioso di tutti i danni subiti: sarebbe stato, perciò, più che sufficiente dare incaricai periti d’ufficio di recarsi sul posto e verificarne la veridicità per esprimere delle valutazioni.

Si noti poi che questi dati servivano in definitiva soltanto ad accertare sommariamente l'entità del danno ai soli fini della commisurazione della pena, dato che non c’era, e non poteva esserci, davanti a giudici straordinari, costituzione di parte civile. Basterebbe un siffatto com­portamento per squalificare da solo un giudizio che - come si è visto - ben altre e numerose ragioni rendono, del resto, inattendibile.

D'altra parte, se pure la commissione avesse prolungato il dibattimento di 24 ore e se, al termine, non avesse pronunziato condanna di morte ma invece qualche assoluzione sia pure dubitativa, o qualche ulteriore "non constare abbastanza", quale danno poteva venirle?

Più di qualche imprecazione da parte di Bixio (che, del resto, non ha comunque risparmiato ai commissari gli epiteti di "poltroni" e di "dormien­ti") null'altro poteva accadere, giacché sul piano formale il verdetto doveva essere rispettato. Certo, gli ufficiali della commissione mista (non, però, i giudici laici) potevano temere per la loro carriera: ma, se così è stato, deve dirsi allora che un siffatto timore è prevalso sulla loro coscienza di uomini-giudici, e che la possibile acquisizione di un vantaggio di carriera valeva per loro più della stessa vita umana.

Nemmeno la dura necessità di reprimere moti, che, nel perdurare della guerra, avrebbero potuto compromettere le operazioni belliche della spedizione, poteva giustificare sentenze esemplari fino all'ingiusto sacrificio della vita degli innocenti. Al più, ammesso che i giudici si fossero convinti di qualche responsabilità, non si sarebbero potute ignorare quelle non meno gravi di chi - con imperdonabile miopia politica - aveva esasperato gli animi delle popolazioni determinando le condizioni esplosive dell'insurrezione, né quelle di chi, pur preavvertito, non aveva tempestivamente provveduto, né infine quelle di coloro che, come la G.N. provinciale, accorsi per mantenere l'ordine, fecero causa comune con gli insorti: il che denotava quale fosse, in definitiva, lo stato d'animo dei popolani dell'isola, tutto proteso a cogliere il messaggio sociale del Dittatore.

Tutto questo, unito alla fatalità della folla tumultante che, esaltando gli animi, impedisce il funzionamento della razionalità e delle pulsioni criminorepellenti, ben avrebbe comunque potuto giustificare almeno concessioni di attenuanti tali da risparmiare la vita ai malcapitati, se non - come si è detto - quel "non consta" utilizzato per Saitta e Minissale, che avrebbe poscia consentito un più serio giudizio.

Tutto questo, però, proprio perché chiude in capo alla commissione di guerra la sentenza di tutte le interferenti responsabilità storiche nel susseguirsi di così tragici avvenimenti, sembra comportare - a giudizio del collegio - la conseguente liberazione da analoghe sostenute responsabilità in capo al generale Nino Bixio.

7)  Ma di ciò questo collegio deve darsi carico prendendo in esame le fonti di responsabilità da più parti indicate.

I°  -  Era nei poteri di Bixio "costituire" - come si è sostenuto - una commissione eccezionale di guerra per il giudizio cosiddetto "subitaneo" sui fatti di Bronte?
Per rispondere a siffatto quesito, che adombra un possibile arbitrio da parte del generale, va ricordato che Garibaldi, già con decreto 17 maggio 1860, dato da Passo di Renna, aveva sottratto i cittadini dell'isola alla giustizia ordinaria per tutta la durata della guerra, attribuen­do la competenza al consiglio di guerra e stabilendo che avrebbero risposto delle "pene prescritte dallo Statuto militare e dalle leggi in vigore fino al 15 maggio 1849", vale a dire prima della Restaurazione.
Successivamente, con decreto 28 maggio 1860, dato da Palermo, il Dittatore stabiliva che i reati di omicidio, furto, e saccheggio di qualunque natura, sarebbero stati puniti con la pena di morte, e giudicati sempre dal consiglio di guerra.
Infine con decreto 30 giugno 1860, pure dato da Palermo, Garibaldi stabiliva che "ogni individuo che, dalla pubblicazione della presente legge, perseguiti, o ecciti con parole o scritti il popolo a perseguitare un cittadino qualunque, sotto pretesto che costui abbia parteggiato, o dato opera colpevole, in servizio del cessato Governo... sarà per ciò solo punito come reo di omicidio mancato. Sarà punito di morte ove, in conseguenza del fatto suo, il perseguitato sarà ucciso, o gravemente percosso o ferito".
E all'art. 3 dello stesso decreto prescriveva che "la competenza di tali reati essendo delle Commissioni speciali, queste procedure saranno in simili casi con rito subitaneo".
Del resto, anche le leggi penali in vigore nell'isola prima della Restaurazione, prevedevano per i reati indicati dai decreti la pena di morte, sia pure con una tecnica di normazione più raffinata e con qualche maggiore rispetto del principio di determinatezza. Ci riferiamo in particolare agli art.li 129 - 130 - 131 - 351 e 355 del codice penale siciliano.
Ma ciò che qui importa soprattutto mettere in luce è che le commissioni speciali di guerra erano previste dal decreto del Dittatore, talché deve ritenersi che, in via ordinaria, dai consigli di guerra che potevano essere istituiti in ogni distretto, e dalle commissioni miste speciali che occorrevano nei luoghi dei disordini per procedere con rito subitaneo.
Ed, infatti, come risulta dalla lettera che Bixio manda a Garibaldi da Randazzo il 7 agosto 1860 per dargli relazione dell'esecuzione del suo ordine (B. Radice, p. 481; E. Morelli, Epistolario di Bixio, Roma, 1939, p. 376), egli, arrivato a Bronte e "intesa appena l'indole del moto ed i massacri ed incendi commessi...", chiamò da Adernò la commissione speciale di guerra per istruire il processo. Infatti, è conservata anche la lettera che il 6 agosto scrive da Bronte al presidente affinché ivi si rechi con la commissione speciale.
Non Bixio, dunque, aveva istituito per Bronte l'organo giudicante. Esso, era, invece, precostituito e già funzionava in Adernò, da dove Bixio lo chiamava per le esigenze di giustizia, così come previsto dall'art. 3 del decreto dittatoriale 30 giugno 1860. E la riprova si ha nelle lettere che il giorno successivo (8 agosto 1860) Bixio scrive da Bronte al governatore di Catania, al quale chiede altre tre commissioni per le insurrezioni che frattanto dilagavano nelle zone finitime (Randazzo, Cesarò, Centorbi, Regalbuto etc...): e chiede proprio al governatore di volerle formare, pregandolo di darne notizia al Dittatore.

II°  -  Si fa carico a Bixio di avere in realtà voluto il massacro, accusandolo di avere anticipatamente proclamato il giudizio della commissione. A riprova si indica:
a) la lettera 7 agosto 1860 da Bronte al maggiore Dezza, dove afferma che gli insorti sono fuggiti, ma che egli ha messo le "unghie addosso a uno dei capi".
b) la lettera 8 agosto da Bronte allo stesso destinatario, nella quale, comunicando che, a seguito di nuovi tumulti in Regalbuto, vi accorre in carrozza, assicura però che egli all'indomani, non appena il Dezza stesso sarà rientrato in Randazzo, rientrerà a Bronte "per la fucilazione".
c) la lettera che, nello stesso giorno 8, scrive al consiglio municipale di Cesarò, sempre da Bronte, nella quale annunzia che "La Commissione di guerra sta istruendo sommariamente i processi: i capi saranno fucilati e i complici loro tradotti a Messina dinanzi al Consiglio di guerra".
Ma non sembra che siffatte espressioni rappresentino reali anticipazioni del giudizio, in guisa da poterne indurre - come si adombra - che la commissione avesse in realtà eseguito i suoi ordini.
Che il Bixio ritenesse effettivamente l'avv. Lombardo uno dei capi, sembra rispondere al vero, soprattutto per il modo sgarbato e rigoroso con cui lo ha trattato quando si è spontaneamente a lui presentato. Ma è anche pacifico ormai che siffatta opinione dipendeva dalla relazione che dei fatti aveva ricevuto dai reggitori della cosa pubblica da lui convocati nell'immediatezza del suo arrivo a Bronte, come già si è ricordato agli inizi del paragrafo 5.
L'affermazione di Bixio, pertanto, è l'espressione di un'opinione personale indotta dalla classe dirigente del comune, che la sentenza ben avrebbe potuto correggere mediante adeguata motivazione, se avesse rettamente interpretato le prove d'accusa e non avesse rifiutato quelle a difesa: magari ricorrendo per tutti all'espediente dello stralcio.
Né è lecito arguire che egli avesse sollecitato la pena di morte dal fatto che in altre lettere alludeva alla "fucilazione dei capi". Una volta fattasi l'opinione di cui si è detto, perché aveva creduto alla subdola narrazione del presidente del municipio Sebastiano De Luca (vedi lettera 7 agosto da Randazzo al governatore di Catania), conoscendo le pene comminate sia dalle leggi penali comuni che dai decreti del Dittatore, si trattava in verità di una facile profezia, si vera fuissent exposita.
Ma la commissione che il processo aveva istruito, che le risultanze aveva acquisite, e che tutto avrebbe potuto chiarire assumendo le prove a difesa, aveva i poteri per smentire sommarie opinioni e affrettate profezie: e non lo ha fatto.
D'altra parte va sottolineata una notevole indifferenza del Bixio per il contenuto dell'attività della commissione. Ciò che a lui importava era che si facesse presto, perché temeva che giungesse "sentore di operazione a Messina verso il Continente" e che egli, invischiato in attività di polizia che non amava, rischiasse di restare escluso dal "passaggio".
Questa è in realtà la sua unica preoccupazione: e quando l'8 agosto scrive da Randazzo al maggiore Boldrini che è a Bronte, lo prega di chiamare il presidente per sollecitarlo ad affrettarsi. Ma non c'è un solo punto di un pur vasto epistolario, non esiste alcuna testimonianza fra i tanti testi storici, da cui risulti che Bixio abbia mai fatto pressione sulla commissione per orientarne il giudizio.
Del resto, proprio nei momenti decisivi del processo, Bixio è assente da Bronte. Va a Randazzo il giorno 7 e vi resta fino al mezzogiorno del giorno 8 (lettera a Boldrini da Randazzo dell'8 agosto), quando rientrerà a Bronte ma per poche ore. Infatti, l'8 stesso scrive al maggiore Dezza che egli si sta portando in carrozza a Regalbuto da dove si ripromette di rientrare a Bronte l'indomani, giorno 9 agosto, quando Dezza sarà ritornato a Randazzo col battaglione. In sostanza, dunque, durante tutta la durata del processo, egli resterà a Bronte soltanto poche ore del giorno 8 agosto, e vi rientrerà definitivamente soltanto l'ultimo giorno, quando il processo è ormai al termine.
Non sembra, questo, comportamento di chi è interessato a influire sullo svolgimento del giudizio, e sulle sue conclusioni che dello svolgimento sono la consequenziale illazione.

III° -  Si è tratto anche argomento dal triste episodio del garzone che si presentò a portare due uova al povero Lombardo, e fu invece respinto dal Bixio con le parole: "altro che uova, domani avrà due palle in fronte!". Segno evidente si dice - e questa volta senza possibilità di equivoci - che egli già conosceva l'esito di un giudizio da lui ispirato. Ma l'equivoco c'è, invece, e riguarda la collocazione temporale dell'episodio. Basta uno sguardo a quanto scrive Benedetto Radice (Nino Bixio a Bronte, Sciascia editore, p. 118 e 120) per rendersi conto che l'episodio si verifica dopo che la condanna era stata pronunziata (ore 20) e dopo che l'esecuzione era stata differita dalle ore 22 del 9 agosto alle ore 8 del 10 successivo.
Questa commissione, tuttavia, non può non rilevare che, se il comportamento di Nino Bixio non ha messo in luce elementi di correspon­sabilità giuridica nella fucilazione di quegli sventurati cittadini di Bronte, la sua condotta di comandante, però, non può andare immune da censure di imprudenza e di eccessiva durezza.
Imprudente fu senza dubbio l'avere accolto senza alcun vaglio critico, come assoluta verità, la versione dei fatti che i reggitori del comune fraudolentemente gli presentavano. Se avesse considerato - come prudenza suggeriva - che si trattava pur sempre degli stessi che ave­vano dominato per tanti anni in nome di Casa borbone, quanto meno non avrebbe rifiutato di ascoltare anche la versione di quella contro­parte che abilmente veniva messa dagli avversari in istato di accusa per screditarne in partenza l'attendibilità.
Non tenne alcun conto che l'avv. Lombardo si presentava a lui spontaneamente quando avrebbe avuto ampia possibilità di eclissarsi, come gli era stato suggerito; né considerò che un siffatto comportamento non solo poteva essere segno di serena coscienza ma sopratutto era testimonianza della fiducia che il popolo riponeva nelle forze della Liberazione.
Eccessiva poi, e senza giustificazione, la durezza usata nell'allontanare sgarbatamente il ragazzo che voleva recapitare qualche uovo all'ormai condannato Lombardo, proprio quando da sempre il costume delle genti civili consente qualche indulgenza a chi sta per subire la pena estrema che lo priverà della vita.
E, infine, addirittura crudele l'infierire sul povero demente che, dopo aver conclamato, per tutto il percorso che lo portava al supplizio, che la Madonna lo avrebbe salvato, gridava al miracolo e alla grazia quando la scarica dei fucili lo lasciò effettivamente e inspiegabilmente illeso mentre gli altri cadevano.
Il cosiddetto "colpo di grazia" viene inferto per risparmiare una dolorosa agonia al condannato ferito gravemente; ma, nei rari casi di inco­lumità, qualche pietosa tradizione sostiene, se non la grazia, quanto meno la commutazione della pena, per non sottoporre il condannato, che si era assoggettato all'esecuzione, ad una reiterazione di essa che la legge non prevede: e ciò per tacere delle interpretazioni che attribuiscono a quel segno, così eccezionale, valore solo per questo, valore di ammonimento divino.
Sotto questo profilo, ma solo per questo, la condotta del generale dev'essere disapprovata.

8)  Alla competenza della commissione eccezionale e alla regolarità del suo rito subitaneo, sono state mosse anche altre obbiezioni: rilievi che, se fondati, si riverberebbero sulla responsabilità di Nino Bixio, cui sicuramente si deve l'investimento delle commissioni in ordine al giudizio sui fatti di Bronte.
Si è sostenuto, infatti, nel presente dibattito, da parte dei rappresentanti dell'accusa che, essendo la competenza delle commissioni miste limitata "allo stato di guerra", Bixio non avrebbe potuto chiamare a Bronte la commissione mista perché non ricorreva la detta condizione. Secondo il detto ufficio, infatti, "stato di guerra" si avrebbe soltanto quando gli occupati "si scagliano contro gli occupanti": il che non era nella specie, dove anzi il popolo intendeva difendere i principi sociali propugnati dagli occupanti.

Ma il rilievo è inesatto.

La situazione che l'accusa descrive come quella corrispondente allo "stato di guerra" è in realtà una situazione di "resistenza". Stato di guer­ra, invece, è una particolare situazione giuridica oggettiva, che, sul piano interno, riguarda esclusivamente il diritto costituzionale, e che regola, in via straordinaria e temporanea, la sospensione di principi e garanzie costituzionali in vista di una guerra imminente od in relazione ad una guerra in corso.

Senonché la situazione giuridica che legittimava allora lo spostamento della giurisdizione penale ad organi straordinari non aveva nulla a che vedere nemmeno con lo "stato di guerra". Il Dittatore, infatti, rispetto al Regno delle due Sicilie che mirava ad occupare con la sua spedizio­ne, non era un organo interno dello stato che occupava, né ancora - a stretto rigore di termini - lo era dello stato piemontese, che sareb­be subentrato soltanto dopo le deliberazioni plebiscitarie o parlamentari (la Sicilia rivendicava il suo Parlamento).

In realtà la formula "Italia e Vittorio Emanuele" che precedeva i decreti di Garibaldi voleva soltanto indicare che egli affermava di ricevere i poteri da quel sovrano, e che procedeva all'occupazione in vista dell'unificazione dell'Italia. Sta di fatto, comunque, che i suoi erano i decreti di un comandante di un esercito occupante.

Come tale, perciò, Garibaldi non poteva darsi carico della situazione giuridica "stato di guerra", che semmai riguardava lo Stato delle due Sicilie, ma soltanto della "guerra" tout court, in senso internazionalistico, poiché egli operava in un territorio di stato diverso da quello legittimamente tenuto dal monarca da cui egli idealmente intendeva derivare i poteri.

E, difatti, il decreto 17 maggio 1860 non parla di "stato di guerra". L'art. 1 si apre con la ben diversa espressione: "Durante la guerra, il giudizio dei reati etc...". E nessuno può mettere in dubbio che, nell'agosto 1860, la guerra con lo Stato delle due Sicilie da parte del Dittatore, comandante dell'esercito di occupazione, ancora perdurasse.

Si è ancora soggiunto che Garibaldi sbagliava a richiamare il regno: né potevasi - si sostiene - intestare la sentenza a Vittorio Emanuele II, Re d'Italia, perché questi tale ancora non era.

Ma nemmeno un siffatto rilievo ha consistenza.

Garibaldi, infatti, non si è mai riferito a leggi borboniche, ma bensì a quelle "in vigore fino al 15 maggio 1849": vale a dire alla legislazione di quel regno che, sorto dalla rivoluzione del gennaio 1848, eleggeva il 15 marzo quel Parlamento che, il 25 successivo, dichiarava decaduta la dinastia borbonica e conferiva la reggenza del regno al capo del governo provvisorio, Ruggero Settimo.
Un regno, dunque, indipendente che, nelle speranze dei patrioti siciliani, si sarebbe dovuto unire alla Federazione italiana e che, fallita l'espe­rienza federalistica nel resto d'Italia, con l'aprile pontificio, il maggio napoletano e la sconfitta piemontese a Custoza nel 1849, fu dissolto dal ritorno cruento di Ferdinando I di Borbone, appunto il 15 maggio 1849.

D'altra parte, s'è già detto che agl'imputati di Bronte sarebbe bastato fossero contestate le fattispecie contenute nei decreti dittatoriali, che la sentenza, infatti, richiama, e cui ben poco potevano aggiungere le leggi penali del regno indipendente di Sicilia.

Quanto all'intestazione della sentenza, è esatto che nell'agosto 1860 Vittorio Emanuele II non era ancora Re d'Italia, giacché lo divenne con legge 17 marzo 1861 n. 4671, ma si dimentica che quella intestazione è comandata dal già citato decreto 17 maggio 1860 n. 84, dato dal Dittatore da Alcamo. L'art. 8 di tale decreto recita, infatti, testualmente "Le sentenze, le decisioni e gli atti pubblici saranno intestati: In nome di Vittorio Emanuele Re d'Italia".

Conclusioni

Richiamando riassuntivamente concetti già delineati nelle pagine precedenti, ritiene questa commissione che occorre tenere distinto il profilo temperamentale di Nino Bixio, e le opinioni che egli si era formate intorno ai movimenti insurrezionali (che serpeggiavano soprattutto attorno alle pendici dell'Etna), dal discorso sulle responsabilità personali, di carattere giuridico o politico, che su di lui possono storicamente gravare in relazione alla condanna e alla fucilazione dei cinque cittadini di Bronte.

E' certo - da quanto traspare dal suo epistolario e da quanto ne riferiscono i contemporanei - che egli fu ingannato sulla natura dei moti di Bronte e sulla parte che vi ebbero i tre notabili coinvolti nel processo.
A lui si fece credere che avidità di potere avesse mosso i leader e odio di classe avesse spinto i popolani alle gravi violenze, e glielo fecero credere proprio coloro che egli riteneva i rappresentanti del nuovo ordine, espressi dalle libere elezioni.

Ciò che particolarmente gli disse il presidente del consiglio municipale risulta dalla lettera che Bixio scrisse il 7 agosto al governatore di Catania da Randazzo: Lombardo gli era stato presentato non solo come fomentatore dei disordini e degli eccidi, ma persino come ladro, mandante dei furti e delle razzie compiuti nelle case affinché gli autori materiali "deponessero la roba rubata presso di lui che li avrebbe rimeritati, una volta innalzato a grande dignità". Ma quando si recarono a ritirare le armi a casa Lombardo, servendosi della chiave che egli stesso aveva consegnato, non risulta che fosse stato rinvenuto un solo spillo di proprietà altrui.

Del resto, ciò che egli pensava dei moti, non soltanto di Bronte, risulta dal proclama agli abitanti dei comuni di Francavilla, Linguaglossa, Randazzo, Maletto, Bronte, Cesarò, Centorbi e Regalbuto. Da esso appare evidente che gli astuti detentori del potere (molti dei quali erano quelli di sempre) gli avevano fatto credere che dietro a tutto vi fosse la "mano satanica" della "Corte di Napoli" per mostrare all'Europa quali fossero i frutti della tanto vantata libertà della Sicilia.
Solo più tardi si renderà conto che i popolani aspiravano a quella divisione delle terre che Garibaldi aveva ordinata, e che la Corte di Napoli non c'entrava per nulla, almeno in Sicilia e in quel momento.

In tale erronea opinione, le sue preoccupazioni e le sue ire trovano spiegazione: ed è fatale che la sua reazione si manifesti con l'impeto proprio del suo focoso temperamento. Chiede punizioni esemplari, tali da intimorire i tristi.
Minaccia le autorità che vilmente abbandonano i loro posti e non sanno tenere l'ordine. Corre da un paese all'altro, sposta truppe dappertutto, seda disordini, manda proclami, e su tutto domina la sua preoccupazione suprema di non riuscire in tempo ad assicurare tranquillità alle spalle della spedizione che deve attraversare lo Stretto per por­tare la guerra sul continente: e soprattutto che da quel balzo egli possa restare escluso per colpa di quei villici che imperversano con i loro moti.

Però, in definitiva, di tutto si dà carico aggirandosi per la zona, tranne che dell'operato di quelle commissioni che non da lui ma dall'editto del Dittatore traevano il loro potere.

Credendo all'infamia degl'imputati, è ben probabile che egli avesse auspicato in cuor suo una soluzione esemplare del processo, ma ciò evidentemente, se non giustifica la durezza usata nei confronti del povero demente, non basta, però, per coinvolgerlo nella responsabilità di una sentenza che dev'essere ascritta esclusivamente ai giudici che la hanno deliberata.

Del resto, alla fine, anche il suo duro cuore di soldato impegnato in un'impresa epica sembra avere avuto cedimento, se taluno gli vide gli occhi inumidirsi di lacrime: se, scrivendo alla moglie, malediceva la missione che, fuori dalle sue attitudini e dalle sue vocazioni, gli era stata affidata: se, nel crepuscolo dei suoi giorni, consapevole finalmente dell'autentica realtà del dramma di quella povera gente, ripensava con rammarico a quelle brucianti giornate.

D'altra parte, la storia insegna che è vano sperare autentica giustizia dai giudizi sommari di improvvisati tribunali nelle zone di guerra: perché è la guerra stessa che - tranne quella esclusivamente difensiva - è strumento di violenza e, come tale, profondamente ingiusta: sì che non è da attendersi che le sue manifestazioni abbiano della giustizia molto più della formale apparenza.

Ad oltre ottant'anni di distanza dai fatti di Bronte si è visto quali espressioni di barbara crudeltà abbia riservato all'umanità il Secondo conflitto mondiale nella civilissima Europa: dove quasi sempre il cinismo è stato tale da prescindere anche da un simulacro di giurisdizione, mentre si è infierito direttamente su popolazioni inermi ed innocenti, per puro spirito di rappresaglia e di vendetta, fino al genocidio.

Il vero è che, anche se pur sempre encomiabile, è inutile tentativo dare opera a ingentilire la guerra che, per sua natura, gentile non può essere, essendo mezzo di sterminio.

La guerra va soltanto ripudiata: come propone ai popoli del mondo l'art. 11 della Costituzione della Repubblica italiana.

Tutto ciò premesso e per tutte le ragioni anzidette.

Ritiene la commissione che:

1°) La responsabilità per gli eccidi, le violenze, le devastazioni e gli incendi occorsi in Bronte dal 2 al 5 agosto 1860 è complessa, e si articola in più componenti che, in varia misura, concorsero a determinare la selvaggia esplosione.
Vi contribuirono, innanzitutto, la sordità politica e l'egoismo delle classi dirigenti, che si ostinarono a negare, ad una popolazione indigente vessata da antiche ingiustizie, le riforme minime disposte dagli editti di Garibaldi.
Vi si aggiunsero l'ira, a lungo repressa, e la disperazione dei villici, esaltate dall'interferenza di autentici delinquenti, evasi dalle carceri od accorsi dai torbidi circonvicini e dal tumultuare della folla.
Vi concorse, infine, l'indifferenza o la sottovalutazione delle Autorità provinciali, che lo stesso Lombardo aveva tempestivamente informate della pericolosa tensione.

2°) La sentenza 9 agosto 1860 della Commissione mista di Guerra, che condannò a morte l'avv. Lombardo e gli altri quattro cittadini di Bronte (eseguita mediante fucilazione il 10 successivo), è manifestamente ingiusta.

A tale risultato la detta Commissione è pervenuta sul piano del merito, mediante unilaterale e capziosa valutazione della prova e, sul piano processuale, a seguito di numerose e gravi violazioni che hanno ignorato o vulnerato fondamentali diritti della difesa, quali:

a) La nomina di un unico difensore per tutti gl'imputati, espressa da uno solo di essi, e mantenuta dalla Commissione anche quando ebbe a rilevare incompatibilità fra due imputati.

b) La mancata contestazione del fatto.

c) La concessione di un termine assolutamente irrisorio per la predisposizione delle difese (1 ora).

d) Il rifiuto negli atti preliminari, reiterato al dibattimento, di assumere il testimoniale indicato dalla difesa.

e) L'avere giudicato e fatto fucilare un imputato, indicato notoriamente come grave minorato psichico, senza alcun accertamento sulla capacità di intendere e di volere.

3°) La responsabilità della storica grave ingiustizia ricade esclusivamente sui giudici straordinari che hanno deliberato la sentenza. Non esiste alcun dato, nemmeno indiziario, da cui desumere che Nino Bixio abbia esercitato pressioni sulla Commissione, Organo giudicante che non è stato costituito da Bixio, perché precostituito dai Governatori provinciali sulla base di decreto dittatoriale, e che diresse gran parte del­l'istruttoria e del dibattimento, mentre Bixio era assente da Bronte.

4°) L'ostilità di Bixio nei confronti degli imputati, e talune sue intemperanze verbali, debbono essere ascritte alla dolosa informativa delle auto­rità comunali rovesciate dalla sommossa, oltre che all'intolleranza caratteriologica e temperamentale della sua personalità, esaltata dalle preoccupazioni per l'ordine pubblico alle spalle della spedizione garibaldina e dal timore che l'incarico in atto lo privasse della partecipazione all'imminente sbarco sul continente.
Questa Commissione, tuttavia, pur esclusa la corresponsabilità di Nino Bixio nella fucilazione dei Cittadini di Bronte, non può non censurare per grave imprudenza, in relazione alle vicende in esame, il suo comportamento di Generale delle truppe di occupazione, e di eccessiva od ingiustificata durezza la sua condotta nei riguardi dei condannati.

5°) Se poi i giudici della Commissione, pur senza avere ricevuto pressioni, si fossero tuttavia sentiti condizionati dall'atteggiamento di Bixio, oppure se, condividendone le preoccupazioni per l'ordine pubblico, avessero inteso dare alle popolazioni un esempio di rigore che valesse come deterrente, sono situazioni psicologiche che, purtroppo, trovano riscontro nel corso degli eventi bellici, ma non giustificazione nella coscienza etica dell'umanità.

Dato a Roma il 24 novembre 1986.

(sen. avv. Giuseppe Alessi - Presidente - Relatore)
(prof. Antonio La Pergola - Componente della commissione)
(prof. Ettore Gallo - Componente - Estensore)
(Prof. Vittorio Frosini - Componente della commissione)
(dott. Martino Nicosia - Componente della commissione).
 


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