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Nicola Lupo

Fantasmi - Storiette paesane

Le carte, i luoghi, la memoria

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Itinerari brontesi

Un simpatico percorso tra negozi, personaggi, luoghi caratteristici dell'altro secolo

Gli itinerari una volta a Bronte, almeno per me, erano semplici e invariabili: nato in Via Cavour e con il nonno pater­no abitante nella parte del corso Umberto, ora denominata piazza Piave, e la nonna materna in via Roma, ora via Marconi, il mio itinerario più importante per andare al centro e a scuola era costituito dalla via principale, corso Umberto, appunto, che era formata dalla traversa interna della provinciale Adrano-Randazzo, ora statale n. 284.

Questa strada era praticamente divisa in tre sezioni: quella centrale 'a chiazza, basolata con marciapiedi e illuminata, costituiva il centro, con negozi, botteghe, farmacie, scuole, caffè, circoli e case di un certo decoro; la parte che andava verso Adrano e Catania portava al Cimitero, passando dallo Sciaràndru, belvedere sulla valle del Simeto verso il mare, e dopo dalla Madonna Grazia, dalla Cuntùra, dal Rinàzzu, dalla Primmària ecc.; quella che, invece, andava a Randazzo portava all'Ospedale, al mattatoio, a Salice, zona degli stazzùni, dove con l'argilla locale si fabbricavano mattoni e tegole, ed era anche la carrozzabile per la stazione della Circum­etnea, e dopo a Brugunòvu, alla Cisterna, alla Difesa, alla Rocca Calanna, dove c'erano delle piccole grotte, forse, vecchie tombe Saracene, quindi al bivio per Maletto e poi a Randazzo.

Altro itinerario importante era quello costituito dalla via Cardinale De Luca che si diparte da circa la metà della chiazza e portava alla Posta e alla Pretura che, ai miei tempi, erano allocati nell'ala nuova del Col­legio Capizzi, dal quale era divisa dalla chiesa barocca del Sacro Cuore, e poi all'Oleificio «S. Giuseppe», di cui mio padre era socio fondatore, e più giù 'e cazzerabbò, a S. Nicola, allora zona di orti, al Polisportivo fino al Simeto 'o bazu 'a càntara, per poi proseguire a destra per Maniace, Castello Nelson, e dritto per Cesarò e Troina.

Un secondo itinerario per il centro, passando dalla casa di mia nonna materna di via Roma (ora via Mar­coni), era quello che, dopo San Bastiano, nel cui largo c'era un pozzo pubblico, ora coperto e, superato il bivio per la chiesa dell'Annunziata, porta alla Matrice e quindi, superato il carcere, alla salita del passu poccu che immette su corso Umberto davanti a S. Giovanni e al Rosario.

Tangenziale al triangolo via Cavour, stratùni e via Roma, questa continuava per lo sciaràndru passando per 'u pizzucutùgnu, (ora Via Cotogno), stradina che scendeva per i campi, ma che era praticamente un pubblico cacatoio per i contadini che andavano o tornavano dal lavoro. Perciò era un tratto di strada che, se possibile, si cercava di evitare.

All'apice di questo triangolo, prima di arrivare allo sciaràndru, c'era 'a Santa Cruci con accanto il posto di dazio, davanti al quale avvenivano le scene più simpatiche o tristi, fra contadini che cercavano di evadere il dazio e i dazieri che imponevano il rispetto della legge comunale.

Parte di questo triangolo, dal lato più corto, costituito da via Cavour e stradelle limitrofe, era denominata orto Camu­to, un tempo proprietà dei miei avi materni, sulle cui case, all'epoca della mia fanciullezza, mia nonna Nunzia percepiva ancora il censo: presta­zio­ne medievale dovuta dal beneficiario di un diritto su un immobile al proprietario dell'immobile stesso. Detto censo, che era di poche lire annue, venne consolidato dagli inte­ressati intorno agli anni Trenta.

La casa in cui sono nato passò poi ai Maruzzella e quindi ai Curcuruto, la cui figlia Ninetta è diventata mia cognata, e in seguito? ...

Uscendo da casa si scendeva da mia nonna in via Roma e i personaggi che si incontravano, a seconda dell'ora, erano o Pecciavanèlli, contadino famoso per il suo canto del battemmàtri (Stabat Mater) alla pro­cessione del Venerdì Santo, o il capraio su Savvatùri, dritto come un fuso, il quale la mattina mungeva il latte delle sue capre davanti alle porte dei compratori, e la sera, al rientro dal pascolo e dopo aver consumato il suo unico pasto, andava in una can­tina, preferibilmente da Patìnchia o dai Suggi, con gli amici e ne usciva dopo aver fatto il pieno, che smaltiva poi all'angolo di casa sua con una lunga pisciata che, dopo il sonno della notte, lo faceva presentare lucido e scattante, come se nulla fosse successo: e questo tutti i santi giorni!

Si poteva incontrare anche don Turi u Saddàru (Salvatore Bruno, mio padrino di battesimo), commerciante di tessuti, il quale con la sua parlata napoletana costituiva, assieme a Gennarino Maruzzella, suo nipote, an­ch'egli commerciante di tessuti e grande amico, assieme alla moglie, una Caponnetto, dei miei genitori, la piccola e simpatica colonia parteno­pea di Bronte.

Da ragazzo, risalendo via Cavour, dove dal n. 4 ci eravamo trasferiti al n. 24, in una casa nostra, costruita su quella di mia nonna, incontravo un mio compagno di scuola, figlio del Notaio Cimbali, che però in classe veniva chiamato Addesso.

Ciò per me costituiva un vero mistero che mi fu chiarito un po' più tardi quando mi fu spiegato che per il codice di quell'epoca i figli nati da una donna sposata dovevano portare il nome del marito legale, anche se non erano suoi.

Infatti la madre del mio compagno, abbandonata dal marito, viveva more uxorio con il notaio Cimbali, dal quale aveva avuto diversi figli, formando una famiglia normalissima, ma non legale, perché allora non c'era il divorzio che ora permette di sciogliere il matrimonio civile e di contrarne un altro, per cui i figli possono portare il cognome dei genitori naturali.

Per andare a scuola si potevano percorrere due strade: o risalire via Cavour e, svoltando a sinistra, percorrere tutta la via principale fino a batìa, o scendere subito a via Roma e, passando dalla chiesa Matrice, risalire per 'u passu poccu, che sbocca a S. Giovanni, e continuare per 'a chiazza.

I due percorsi riservavano diversi incontri: all'angolo fra via Cavour e 'u stratùni, sulla sinistra, c'era la bottega di zio Giovanni, fratello di mio nonno, falegname anche lui, ma suo concorrente invidioso, e forse perciò io e mio fratello Nino lo burla­vamo facendone la caricatura; infatti egli, mentre lavorava, teneva la lingua fuori dalla bocca, piegandola ora a destra, ora a sinistra, e ogni tanto rigirava in senso orario il berretto che teneva in testa.

 

FANTASMI
Storiette paesane

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"... la parte che andava verso Adrano e Catania portava al Cimitero, pas­sando dallo Sciarandru, belvedere sulla valle del Simeto verso il mare, e dopo dalla Madonna Grazia..."


"... e dopo a brugunovu, alla cisterna, alla difesa, alla Rocca Calanna, dove c'erano delle piccole grot­te, forse, vecchie tombe Saracene..."




Il Centro storico: salita del "passu poccu"
"...e quindi, superato il carcere, alla salita del pas­su poccu che immet­te su corso Umberto da­vanti a S. Giovanni e al Rosario."



 



Visita con noi il Centro storico di Bronte

Questa irriverente imitazione causava ]e sue rimostranze con nostro padre il quale non ci faceva mancare una sonora razione di schiaffi.

Proseguendo verso 'a chiazza, che iniziava dopo un centinaio di metri e che si chiamava, perciò, 'a punta' a chiazza, si incontrava sulla destra la forgia di Jàpicu Carastro, allegro e simpatico beone a cui, dicevano, piacessero tanto i gatti, non come amico degli animali, ma come buongustaio.

E proprio perciò, continuavano a dire i suoi biografi, un bel dì si trasferì con tutta la famiglia a Roma, proprio in una zona particolarmente ricca di gatti: via Cancello a ridosso di via della Scrofa.

Subito dopo la forgia di Jàpicu c'era la bella casa di gaburazza in cui c'era anche un monaco. Questa casa era caratteristica perché vi si accedeva per una scala che dava su un ballatoio coperto a logge.

Dirim­petto a questo palazzetto, che si stendeva in lunghezza, c'era la casa di Patinchia che nel pianterreno aveva una mescita di vino molto accorsata e che faceva concorrenza a quella di Suggi che si trovava nella traversa successiva, via Santi, che è la strada che a sinistra porta a S. Bastiano e all'Annunziata e a destra a S. Vito.

All'altro angolo, dopo la casa dei Castiglione (Suggi), c'era a sinistra il palazzo, con relativo studio, del notaio Venia, il cui unico figlio maschio, Nino, era compagno di mio fratello e fu anche sindaco di Bronte, e a destra il complesso del colleggetto di Padre Giuseppe Salanitri e la chiesa della Catena.

La camera del Padre dava sulla via Santi ed era alta come un terzo piano, tuttavia quando egli dormiva il suo russare si sentiva da lontano, anche perché la sua finestra era sempre aperta, pure d'inverno.

Subito dopo, sempre sulla sinistra, c'era la casa del comandante delle Guardie comunali, Talamo, padre di quel brutto-simpaticone di Gennaro, personaggio caratteristico del nostro paese e grande burlone, che faceva concorrenza a Filippo Scagghìtta.

A fianco aveva casa e bottega u Griciszi, Ciraldo, sarto di vaglia e uomo civile ed elegante, che aveva due figli, uno dei quali è vissuto tanti anni a Bari, come direttore della Casa Farmaceutica Lederle.

Proseguendo si arrivava ad uno slargo, piazza Enrico Cimbali, che dal lato destro e per una lunga e ripida scala porta alla chiesa della Catena e al Seminarietto di Padre Salanitri, e subito dopo al palazzo Pace, deli­mitato da una seconda strada per S. Vito.

Al pianterreno del palazzo Pace c'era la bottega di falegnameria di Arcidiacono,”pavurinu”, padre di Vincenzino che a Milano, messa da parte la sua laurea in lettere, divenne un grosso commerciante di pellicce, e accanto l'Asso­ciazione dei coltivatori diretti.

Tra due strade per S. Vito c'era una schiera di case più basse e modeste, fra le quali quella dei Rappazzo Cimigghiella, e poi ancora, sulla terza strada per S. Vito, sulla sinistra domina il palazzo del farmacista Aidala, in alto, e sotto, all'an­golo con il corso, la casa Ardizzone il cui membro più importante era l'Arcipretino, indicato con questo diminutivo per la sua finezza di modi, ma efficace predicatore che ben si misurava con il sanguigno e irruento Mariano Gatto.

Sul lato sinistro scendeva verso la Matrice la via Dusmet, dove abitavano i Grasso-Guzzardi, tre fratelli: Pep­pino, Anto­nio e Alberto. il secondo era l'imbattibile terzino sinistro della squadra del Collegio Capizzi, dive­nuto poi professore di ginnastica a Napoli, mentre gli altri due, medici, si stabilirono a Roma dove avevano una clinica privata: il maggiore chirurgo e il più piccolo radiologo ed entrambi morti abbastanza giovani.


"... e a destra il com­plesso del colleggetto di Padre Giuseppe Salanitri e la chiesa della Catena"



"Proseguendo si arrivava ad uno slargo, piazza En­rico Cimbali, che dal lato destro e per una lunga e ripida scala porta alla chie­sa della Catena e al Seminarietto di Padre Salanitri ..."



 

Piccolo vocabolario brontese di N. Lupo
Parliamo brontese

Di fronte al palazzo Ardizzone c'era la casa dei Lupo Santamatta che diede uno dei due primi chimici bron­tesi, Mario; l'altro fu Fiorenza, figlio di Nascamangiàta, che si stabilì a Milano dove il padre, prima pittore e poi imprenditore, gli mandava il sommacco che serviva per l'estrazione del tannino per la concia del pellame.

Un terzo chimico, affermatosi anche nel campo universitario, ma della generazione di mio fratello Elio, è Pep­pino Zerbo, soprannominato dai suoi compagni di liceo Lavoisier; e mai soprannome fu tanto premonitore!

Da una delle due strade discendenti da S. Vito, nella piazzetta E. Cimbali, incrociavamo sempre qualcuno dei cugini Lupo Crucifissu il cui esponente è diventato Vito, abitante a Roma, il quale per comportamento, pro­fessionalità e cultura, ha raggiunto i vertici della burocrazia finanziaria; infatti è stato direttore generale del mini­stero delle Finanze, poi distaccato a palazzo Vidoni come segretario del Consiglio Superiore della Pubblica Amministrazione e infine membro della Commissione centrale tributaria.
Non avendo noi nessun soprannome, il maggiore di questi cugini Crucifissu, Gaetano, ci apostrofava così: «Lupu, scu­petta e cani! sparatici 'nde peri undi 'i viriti!»

Quella piazza E. Cimbali mi ha offerto, giovane, voli di rondini e festosi scampanii mai più goduti in altre parti d'Italia: emozioni giovanili o suggestione di nostalgici ricordi?

Continuando il cammino si arrivava alla bottega di mio nonno che aveva il suo deposito dirimpetto, sotto la casa dei genitori del dott. Biagio Pecorino, eletto poi senatore dai suoi estimatori del quartiere S. Cristoforo di Catania, casa che era contraddistinta dall'unico albero che c'era in tutto il paese, un eucaliptus, per cui era indicata come la casa dell'albero. Ci sarà ancora? Spero di sì.(1)

Quella bottega suscita in me tanti ricordi, ma voglio menzionarne uno solo: quando frequentavo le scuole elementari mio nonno, forse con la segreta speranza che io potessi continuare il suo lavoro, cercava di inculcarmi l'amore per quel mestiere, (o forse per il lavoro in genere? ed in ciò c'è riuscito!) e perciò mi dava dodici soldi la settimana se ogni pomeriggio, dopo aver eseguito tutti i compiti, andavo a bottega.

La paga era sempre la stessa: sei parancùni che erano le grosse monete di rame da due soldi, cioè dieci centesimi di lira. Lì seguivo con attenzione e ammirazione tutte le fasi dei diversi lavori e mi piace ricordare la paziente cura con cui egli rifiniva anche il lavoro più umile, come, ad esempio, un paio di papìti, cioè zoccoli di legno, che nulla avrebbero da invidiare a quelli moderni venduti anche nelle farmacie.

Accanto alla bottega di mio nonno abitavano i fratelli Castiglione, maestri elementari. Il più grande era celibe, mentre il piccolo era sposato, ma ingiustamente gelosissimo. Una volta, trovata la moglie sporca di carbone per i lavori dome­stici che allora erano massacranti e imbrattanti, fece una chiassata gridandole: «Ti sei baciata col carbonaio! Vatti a confessare!» senza volere ascoltare i flebili dinieghi della poveretta.

Seguivano poi le botteghe dei calzolai Schilirò Maccella e D'Aquino che, oltre a essere scuole di buon artigianato, erano sede, spesso all'aperto, di sceneggiate spontanee con i più vari passanti, specie se fore­stieri. Dirimpetto a D'Aquino c'era la casa dei Bellameggiòia: famiglia composta dalla madre, vedova, che mandava avanti una cantina che il figlio grande, carrettiere e gran bestemmiatore, riforniva del miglior vino delle pendici orientali dell'Etna, da una figlia che faceva la sartina e dal piccolo, Illuminato, che studiava con noi e divenne professore rimanendo a Catania.

Fu vera bella gioia per quella famiglia molto religiosa, quando il grande si ravvide, andò in seminario, fu ordi­nato sacer­dote e, dopo molti anni trascorsi fuori, ritornò a Bronte dove divenne anche Arciprete, facendo dimenticare il suo tristo passato.

C'era poi sulla destra la famosa farmacia di don Antuninellu Aidala a cui è successo Giovannino Zappia, caro e generoso compagno, distinto per la sua ritrosia; e accanto la sartoria del padre del mio amico e com­pagno di scuola Nzullu (Vincenzo) Battiato, che mi ricorda la diatriba su Ciullo d'Alcamo, che per i setten­trionali era ed è ancora Cielo; opinione confutata magistralmente dal nostro professore di filologia romanza dell'Università di Catania, Salvatore Santangelo.

Si arrivava quindi a sinistra alla casa dei Cannata, amici di mio padre, specie Eduardo u Pappaleccu simpa­ticissimo specie quando raccontava storie che non riusciva a portare a termine per la sua balbuzie, e allora veniva soccorso garbatamente dall' intervento di uno dei due amici inseparabili e colleghi di ufficio (erano tutti e tre funzionari comunali) Salvatore Castiglione, detto Suggi, e Nunzio Saitta-Camuto.

I giovani Cannata, figli dell'unico sposato della famiglia, l'Avvocato, erano nostri coetanei e compagni di scuola e Nino, il maggiore, era mio compagno: di lui m'è rimasta impressa la dolcezza, ereditata dalla madre, venuta dal Nord dopo Caporetto, e affettuosissima anche con tutti i compagni e amici dei figli.

Sulla destra, invece, si susseguivano i palazzi degli Interdonato, i messinesi, separati dal palazzo arretrato rispetto agli altri due, dell’On. Avv. Francesco Cimbali, abitato dal figlio Antonino e da uno dei fratelli De Luca, medici, che ne aveva sposata la figlia.

(1)
Purtroppo, fra le flebili pro­teste di alcuni, circa dieci anni fa l'albero (a de­stra nella foto) è stato ta­gliato; ora c'è il solito ano­nimo palazzoto con i soliti negozi. (NdR)




"... di fronte alla chiesa di S. Giovanni che aveva l'unico orologio del paese, che ha battuto tutte le ore liete e tristi della nostra giovinezza."


"Di fronte al caffè Isola c'è la piazzetta del Rosario..."

Uno di questi Interdonato, don Enrico, era famoso per la sua passione per le belle auto Lancia e per le belle donne; ma quando mise testa a partito si sposò e, anziché vivere solo delle sue rendite agrarie, fondò con i fratelli Isola, il maestro Franchina e mio padre, l'Oleificio «S. Giuseppe», e da solo aprì una concessionaria Fiat a Messina, per intercessione del Dott. Luigi Lupo, banchiere in Parigi, il quale fece ottenere un’altra Conces­sionaria Fiat a Ninetto De Luca-Cimbali, in società col fratello Arturo Lupo, in Paternò.

Sempre sulla sinistra si allineavano i negozi ru cutillèri e l'orologeria di Giovanni Greco, proprio di fronte alla chiesa di S. Giovanni che aveva l'unico orologio del paese, che ha battuto tutte le ore liete e tristi della nostra giovinezza.

L'orologeria di don Giovanni Greco, che formava angolo con 'a scinduta ru passu poccu, esponeva nella vetrina centrale anche una lunga serie di coltelli a serramanico ed a scatto che attirava la nostra attenzione e curiosità, perché non ne conoscevamo l'uso a volte delittuoso.

Dopo la chiesa di S. Giovanni, all'angolo, c'era la drogheria di Caponnetto, don Angelo, il quale stava quasi sempre seduto davanti alla porta, con il giornale in mano, mentre le figlie nubili mandavano avanti egregia­mente gli affari, vendendo tutti i loro articoli fra cui, per noi, spiccavano i nnicchi-nnacchi (piccoli biscotti dalle forme varie). Alla povera gente che, passando, chiedeva: «Don Angelo, che porta u giornali?» egli, invaria­bilmente rispondeva: «Così! così!»

Seguiva la tabaccheria di don Peppi Di Bella, rinomato per u piombinu: infatti un altro mattacchione del paese, il più brutto simpaticone dei maldicenti, Gennaro Talamo, raccontava di avere incontrato un'estate alla Plaia di Catania il sullodato don Peppi Di Bella in costume da bagno. Ma poiché i pantaloncini erano un pò slabbrati, gli pendeva un testicolo come un filo a piombo, e perciò gli era stato affibbiato l'apostrofe: «Don Pe', u piombinu!»

E arriviamo quindi al caffè ru zu Nònziu Isola, gran maestro di dolci, crespelle, granite e gelati (i famosi schiumoni), tutta roba di una volta, genuina e lavorata a mano. Una volta io e mio fratello Nino avemmo l'idea di mangiare una granita di caffè con panna... e brioche, cosa che ad un nostro compagno sembrò disdicevole, perché da morti di fame, e allora ne nacque una scazzottata che fu poi punita da nostro padre con una buona razione di ceffoni, perché avevamo malmenato il figlio di un suo collega, Nino Radice, compagno di mio fratello e nostro amico.

Di fronte al caffè Isola c'è la piazzetta del Rosario, sulla quale affacciava la casa di un De Luca, padre del nostro amico Mimì. (Il figlio avv. Pietro, una volta conversando, mi ha precisato che i De Luca medici, non erano loro parenti, ma solo omonimi).

A piano terra c'era il magazzino-ufficio di don Peppino Meli, padre del mio compagno-amico Gino, dove si riunivano i cinque fratelli che costituivano la coscienza critica di Bronte, e i cui figli erano tutti nostri amici e compagni. Di fronte c'era il negozio dei Botta, di cui ho parlato, in seguito divenuto in parte farmacia Minissale e in parte caffè Lupo, cugino di mio padre, uno dei figli di quello zio Giovanni di cui abbiamo detto all'inizio di questo itinerario.

Peppino Minissale aveva grande fiducia e stima di noi fratelli Lupo, infatti subito dopo la guerra ci aiutò nella nostra iniziativa per l'estrazione dell'olio di lino, fornendoci, per il primo esperimento, tutto il seme di lino che aveva in farmacia, e dell'olio di mandorle, divenendo il nostro primo cliente. Ma poi questa nostra iniziativa fu ostacolata dai nostri soci dell'oleificio «S. Giuseppe», mentre il farmacista Minissale si servì della collaborazione esterna di mio fratello Elio, divenuto in seguito suo collega, ma fuori Bronte.

Altro personaggio con negozio su quel tratto di chiazza era don Luigi Lovecchio, orologiaio-orefice: alto, mas­siccio e imponente che faceva il paio con il fratello avvocato-notaio il quale fu spauracchio dei liceali di quel tempo, come insegnante di educazione militare; infatti un anno bocciò solo nella sua materia il caro Nitto Santangelo, nostro amico e compagno, figlio di quel don Tino nella cui tipografia molti di noi hanno fatto conoscenza con l'arte della stampa e della legatoria.

Accanto all'oreficeria Lovecchio c'era la calzoleria del Saitta Mangiapane, padre del mio compagno Nunzio e di Angelo, incontrati poi a Roma, dove Angelo è stato anche il mio bravo sarto, nonché affettuoso amico.

Continuando nel nostro percorso incontravamo il magazzino di don Salvatore Leanza Scimuni, commerciante di man­dorle e pistacchi, caratteristico per la sua voce baritonale che risuonava per tutto il quartiere; e dopo, sutta i loggi un locale dove gli Isola, padre e figlio, con altri, fondarono la seconda banca di Bronte, dopo la Cassa Mutua, che però ebbe vita breve tanto che i soliti denigratori la chiamarono 'a banca u sapuni.

A fianco a questo locale c'era la macelleria di Meli u Guaddarrutàru, di cui ricordiamo Pasqualino, simpatico nostro fornitore, specialista per la salsiccia a punta di coltello, delizia dei gourmets brontesi e forestieri.

Di fronte, come dicevamo, c'erano Antonino Isola e il figlio Aurelio, droghieri, la cui attività è stata continuata dal nipote Umberto.

All'angolo del negozio Isola si apre una piazzetta dove sono il negozio di Filippo Spitaleri, detto Scagghìtta, mio padrino di cresima, al quale ho dedicato uno di questi miei fantasmi: simpaticissimo burlone e presidente del circolo della forbice.

Egli, Gennaro Talamo e Luigi Salanitri, detto u Fungiutu, formavano il triumvirato dei brutti-simpatici burloni del paese. Ora la gestione del negozio di materiale elettrico è continuata da una delle figlie.(2)

Accanto invece c'era il caffè di Caròinu, ex mugnaio, frequentato specialmente dai soci del Casino dei civili dirimpet­taio, situato in posizione sopraelevata con terrazzino triangolare antistante. Vicino all'inizio della via Scafiti c'era la tabaccheria di Musuraca che aveva due splendide figlie, ammirate da tutta la gioventù brontese dell'epoca.

All'angolo con il corso c'era l'edicola di Battiato, con annessa sala da barba, mentre sopra abitavano Longhitano e Di Bella che avevano altre tre belle ragazze a cui aspiravano tanti giovani e poi sposate a fore­stieri. Accanto, su corso Umberto, c’era la casa di un’altra Longhitano, moglie dell’ avv. Ignazio Liuzzo e madre, morta giovane, dei nostri compagni e amici Gabriele, avvocato, e Adolfo, farmacista, ritrovati a Roma.

Di fronte a Battiato, c'era Barbaria, panettiere e capo-banda del corpo musicale brontese, formato da artigiani e operai che avevano la musica come hobby e come secondo lavoro.

Accanto alla barberia-edicola di Battiato c'era la salsamenteria della moglie di nostro cugino Nunzio Lupo, falegname, divenuto celebre per avere sputato contro il ritratto di Mussolini, portato in corteo durante una manifestazione del partito al governo.

Quel suo gesto, eloquente e coraggioso, gli fruttò un processo e una condanna e gli lasciò in eredità il diritto di essere ospite dei Carabinieri ogni qual volta c'era una qualsiasi manifestazione politica. Suo figlio Nunziello, assieme ai fratelli, può essere fiero di tanto padre!

E sempre su quel lato sinistro del corso Umberto troviamo la barberia-edicola di Biagio Sciavarrello che in prosieguo di tempo diventa libreria ad opera del figlio Peppino (coadiuvato dal fratello Nunzio, divenuto poi pittore), dopo aver lasciato la scarperia di Nunzio Gangi Piruzzu. Questa fu la nostra libreria che ci forniva le opere di Croce e le altre novità come il Dedalus di James Joyce.

Ma prima abbiamo saltato il negozio nuovo di Gennarino Maruzzella e Nina Caponnetto, trasferitisi dal passu poccu alla nuova casa con sottostante magazzino.

Naturalmente, come si vede, in queste citazioni non è rispettato l'ordine cronologico e topografico.

Si arriva così all'incrocio con via Nunziata (la discesa per il vecchio Municipio e la chiesa di S. Blandano), dove incon­tria­mo il negozio di frutta e verdura della Saranella, la cui figlia Maria, sempre sorri­den­te, accet­tava volentieri i complimenti dei suoi numerosi ammira­tori, giovani e meno giovani, i quali vedevano in lei il ritratto della salute generosa e abbondante.

Ancora negli ultimi tempi ci riconosceva e ci faceva le feste come una volta, sempre pronta a darci la merce migliore con il solito sorriso accattivante, anche se già appannato dal passare inesorabile del tempo.

E di seguito c'erano i negozi dei fratelli Isola, Placido e Vincenzo, commercianti di tessuti, poi soci di mio padre nel­l'oleificio «S. Giusep­pe», i cui figli sono stati nostri amici e compagni ed ora sono stimati profes­sionisti. Solo Nunzio, uni­co figlio di Placido e mio compagno, andò a Roma, dove lo trovai funzionario della Goodyear, e morto prematura­mente.


"...don Luigi Lovecchio, orologiaio-orefice" in una caricatura de Il Ciclope (n. 17 del 4.9.1949)








"... il fratello avvocato-notaio" (Giacomo Lovec­chio, in "Galleria" de Il Ciclope"






"... e dopo, sutta i loggi un locale dove gli Isola, padre e figlio, con altri, fondaro­no la seconda banca di Bronte, ... 'a banca u sapuni."











(2) Oggi il negozio di Fi­lip­po Spitaleri è stato tra­sfor­mato nella solita piz­zeria-panineria (NdR).




 

FACCE DI BRONTESI




Maria Caruso, meglio no­ta come "Maria Sa­ra­nel­la" «... sempre sor­riden­te, dal solito sor­riso acat­tivante».

Scriveva Il Ciclope nel 1986 che «all'esercizio di Maria Sara­nella, si va per comprare un limone e si va via con tre chili di aran­ce, cin­que mazzi di broc­coli, un cavol­fiore, cinque finocchi, mezzo chilo di castagne arrosto e co­me... con­ten­tino un cop­petto di ceci ab­bru­stoliti! Poten­za del­le buone manie­re!».

Accanto a quei negozi c'era l'antica bottega di zio Vito Lupo, punto di riferimento del Partito democratico, che per primo veniva salutato dall'avv. Vincenzo Saitta, deputato, quando rientrava nella sua Bronte e suo collegio elettorale.

Di lui ricordo la reclame che consisteva in una stampiglia a vernice rossa raffigurante una forbice con la scritta: «Vota V. Saitta». Egli, dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, fu il primo sindaco di Bronte e faceva dire in giro, con la sua abituale megalomania, che era stato nominato direttamente da Churchill: immaginate!

L'on. Saitta aveva un figlio di nome Ugo il quale a Roma fu il primo cineasta di Bronte, ma senza molta for­tuna. Altro brontese che si dedicò alla stessa arte, però a Milano, fu un certo Lo Turco la cui famiglia abitava vicino alla casa di mio nonno; ma di lui non ho particolari notizie.

All'angolo con via Cardinale De Luca c'era la casa del signorino Fernandez che, già maturo, sposò una De Luca; quella casa, come tutte quelle che si trovavano ai quadrivi del corso, fu fatta saltare dai tedeschi in ritirata per ritardare l'avanzata degli Alleati.

All'inizio di via Cardinale De Luca c'erano la vecchia Posta e la Pretura, con la simpatica figura del giudice Cucuzza, grande sportivo.

Di fronte al palazzo Fernandez c'era quello di altri Saitta, uno avvocato e l'altro don Alfredo, dal classico pizzetto, proprietario terriero, che stazionava spesso davanti al portone, dove il fratello aveva lo studio, o nel magazzino attiguo di don Turi u Baddunàru, chiacchierando amabilmente con lui o con i passanti.

Un vicolo divideva il palazzo Saitta da quello un po' fatiscente del maestro don Giulio Di Bella, poi acquistato e ricostruito dal notaio Azzia, figura caratteristica della Bronte popolare prima, e democristiana poi.

Siamo già nella zona del Collegio «Capizzi» al quale appartenevano l'ala di via Cardinale De Luca, tutto il prospetto, vecchio e nuovo, diviso dalla chiesa del Sacro Cuore, all'interno di stile barocco, e l'ala Nord che, ricongiungendosi dietro con la via Cardinale De Luca, forma un grande isolato a «U».

Di fronte al «Capizzi» c'era la vecchia locanda omonima, perché di proprietà del Collegio, gestita, però, dai Trischitta i cui componenti maschi erano nostri simpatici amici. Sotto detta locanda, alla quale si accedeva o dalla scalinata che la divideva da un altro palazzo Saitta o, dal retro, attraverso quei vicoli che isolavano i vari caseggiati, c'erano diversi negozi come quello di tabaccheria-cartoleria di Luigi Mauro, un caffè di cui non ricordo il nome, nonché la macelleria di Pinnicùni.

Nella zona, quasi dirimpettaie, c'erano le altre due farmacie del paese: quella del Dott. Rizzo e quella del Dott. Nunzio Leanza, poi comprata dal Dott. Pillo Liuzzo.

Nella via che fiancheggia il lato Nord del Collegio c'erano la trattoria dei Mirenda e la tipografia di don Tino Santangelo, citato prima, sulle quali abitavano i Cimbali-Grisley con entrata dal Corso.

Ai due angoli della strada che, di fronte, portava alla Caserma dei Carabinieri, c'era il Circolo del pubblico impiego, sede deputata alla maldicenza e alle burle, e il caffè del Randazzese in cui facevamo interminabili partite di scopone scientifico con gli amici Meli, Sofia, Zingale e tanti altri.

Oltrepassati i palazzi Grisley e quello del notaio Radice si arrivava ad uno slargo triangolare antistante il palazzo del dott. Placido De Luca, ultimo podestà di Bronte.

Questa piazzetta era famosa perché vi si affacciavano i negozi dei tre fratelli Benvegna: uno di fer­ra­menta, il secondo di pellami e cuoio e l'altro di articoli vari.

Ma i tre fratelli erano noti non solo per la bravura dimostrata nei loro lavori (Francesco Paolo aveva vinto addirittura un premio per avere brevettato un tipo di ferro di cavallo adattabile a qualsiasi zoccolo), ma perché avevano in tutto cinque splendide figlie le quali abbellivano i loro negozi e, quando andavano a passeggio o rinazzu, riempivano tutto il Corso con i loro corpi spavaldi e formosi che facevano rimanere senza fiato molti giovani brontesi.

Di fronte c'era il nostro barbiere D'Andrea il cui figlio, Felice, era un buon musico che aiutava i giovani a portare le serenate alle loro belle.

Nella traversa a sinistra c'era la forgia di F. P. Benvegna davanti alla quale mi fermavo a guardare come venivano ferrati gli asini, i muli e qualche cavallo, per il cui pagamento c'era un sistema elettronico per quel­l'epoca: un pezzo di ferula, diviso in due longitudinalmente e sulle cui facce interne si praticava contempo­raneamente una tacca ad ogni prestazione.

Un pezzo, sul quale veniva marcato a fuoco il nome, o meglio l'ingiuria, del cliente, era conservato dalla ditta infilato, assieme agli altri, ad un lungo fil di ferro; l'altra metà veniva consegnata al cliente che la riportava ogni qual volta doveva richiedere un'altra prestazione.

All'epoca dei raccolti si facevano i conti che venivano pagati in natura: cioè con grano, legumi, olio, vino o altro.

Sempre su quella traversa, ma affacciata sulla piazzetta di cui sopra, c'era la Banca Mutua, diretta da don Peppino Interdonato, che insegnò a mio padre la partita doppia, e poi da don Placido Faranda il quale, al contrario di Inter­donato, sempre serio e quasi imbronciato, era allegro e sorridente.

Il Presidente allora era uno dei fratelli De Luca, il dott. Nunzio, il cui figlio Nninittu, come è stato detto sopra, ha una concessionaria Fiat a Paternò assieme ad Arturo Lupo, ed il cassiere era quel Ciraldo che abitava in Via Cardinale De Luca e il capo-officina Mariuzzo Carastro che prima aveva l’autorimessa con il cugino Nino Carastro.

E siamo arrivati alla piazza intitolata al nostro grande filosofo del Settecento, Nicola Spedalieri, detta anche della batìa, perché sul lato superiore, più largo, si stagliava il monastero di Santa Scolastica con annessa chiesa di S. Silve­stro, sede della Confraternita della Misericordia e di S. Rocco. Poi il complesso fu mutilato sulla destra per costruirvi la nuova Scuola elementare.

Al centro di questa piazza campeggia il monumento ai Caduti della guerra del 1915-18, davanti al quale si conclude­vano tutte le manifestazioni patriottiche.

A destra c'era la casa dell'on. Vincenzo Saitta, sulla sinistra il Teatro comunale e, in basso sul corso, la tabaccheria dei fratelli Sofia.

Nell'ultimo tratto della chiazza c'erano i palazzi di Radice-Grisley e del prof. Luigi Margaglio e, in fondo a destra, la piazza dei Cappuccini con la Chiesa e i locali dell'Opera Balilla, poi dell' Azione cattolica, dove abbiamo trascorso il tempo libero della nostra infanzia e giovinezza.

Tutto  ratto, diciamo nobile, del Corso, prima che arrivasse l'elettricità, era illuminato da un modestissimo gruppo elettrogeno installato accanto al molino di Chiavùni, di fronte al palazzo della Ducea, poi smembrato e nei cui giardini retrostanti sorgono ora il nuovo Palazzo Comunale e altri uffici pubblici.

Detto impianto entrava in funzione all'imbrunire e veniva spento a mezzanotte con il preavviso di tre inter­mittenze; le altre strade del paese, e non tutte, erano illuminate da rari lampioni che venivano accesi e spenti dall'omino addetto alla bisogna.

L'altro itinerario della mia infanzia-giovinezza era quello di via Roma, ora denominata Marconi. Esso era una scor­ciatoia per andare a scuola e passava davanti alla chiesa di San Bastiano e alla Matrice e dopo, all'altezza del vecchio carcere, per la salita del passu poccu, arrivava a S. Giovanni e al Rosario.

In questo tratto di strada c'era, davanti all'antico pozzo di San Bastiano, ora coperto, un caratteristico cut­tìgghiu; un cortile con unica via di accesso, sul quale si affacciavano, in cerchio, diverse case tutte costruite allo stesso modo: sotto la stalla-deposito, e al piano superiore, al quale si accedeva tramite una scala esterna, con relativo ballatoio, l'abitazione che aveva anche qualche finestra che affacciava sempre sul cortile. Era, quindi, un complesso chiuso all'esterno, perciò abbastanza sicuro contro i ladri e i malfattori.

La chiesa Matrice mi ricorda la nostra frequentazione della Messa domenicale, celebrata da padre Mariano Mauro, e le prediche dell'arciprete padre Giuseppe Ardizzone, che contendeva il primato della predicazione a padre Mariano Gatto, di cui abbiamo parlato in uno dei primi fantasmi.

Di questa chiesa, che ricordo semplice e spoglia, ma che è ben descritta dal nostro storico Benedetto Radice, rammento il particolare sagrato (pronao scoperto), in pietra lavica e di stile barocco, distrutto anche nella memoria fotografica.

Prima di arrivare al carcere c'era una rivendita di generi alimentari di proprietà di un certo mastro Antonino Mussu Stottu(3), dove mi colpiva sempre la vista di una oleografia divisa in due parti: nell'una c'era raffigurato un commer­ciante tristemente appoggiato al suo spoglio bancone sul quale campeggiava la scritta: «Ho venduto a credito!»; nell'altra, invece, era rappresentato un bel negozio fornitissimo con il suo proprietario ben pasciuto ed allegro, sormon­tato dalla dicitura: «Ho venduto sempre in contanti!»

La famosa discesa del passu poccu era dedicata ai cortei degli sposi, con relativo seguito di invitati, ed era simbolo di felicità o di tristezza a seconda della riuscita o meno del matrimonio, allora senza possibilità di divorzio.


"Di fronte al «Capizzi» c'era la vecchia locanda omonima ..."

"Ai due angoli della stra­da che, di fronte, portava alla Caserma dei Cara­binieri, c'era il Circolo del pubblico impiego, sede deputata alla maldicenza e alle burle, ..."

"... c'era la Banca Mutua, diretta da don Peppino Interdonato, che insegnò a mio padre la partita dop­pia, e poi da don Placido Faranda il quale, al contra­rio di Inter­donato, sempre serio e quasi imbronciato, era allegro e sorridente."


"...la piazza dei Cap­puc­cini con la Chiesa e i locali dell'Opera Balilla, poi dell' Azione cattolica..."


"La chiesa Matrice...  sem­pli­ce e spoglia, ...ram­mento il particolare sa­grato (pronao sco­perto), in pietra lavica e di stile ba­rocco, distrutto anche nel­la memoria fotogra­fica".








(3) Tutti i soprannomi (ingiurie) citati in questo libro, che erano più noti ed importanti dei cogno­mi. po­trebbero essere per qual­che giovane bron­tese oggetto di stu­dio per una ricerca di tradizioni popo­lari.

 




"La famosa discesa del pas­su poccu era de­dicata ai cortei degli spo­si..." che andavano a sposarsi alla Matrice . Nel­la foto, un corteo matrimo­nia­le (anni 20-30) sfila lun­go il Corso Umberto "nell'ultimo tratto della chiazza" dove finiva la pavimentazione con basole laviche.


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Nicola Lupo: "Fantasmi"