La leggenda dell'arrivo a Bronte delle statue La Madonna dell'Annunziata |
di
Giuseppe Cimbali
(da “Terra di Fuoco – Leggende siciliane”)
Mentre Bronte era ancora al
principio della sua fondazione, una tempesta inaudita fece naufragare in sulla
costa occidentale della Sicilia una nave che veniva dalla Grecia diretta per non
si sa dove.
Tutto perì, uomini e cose; ma, superstite al comune naufragio, pochi giorni
dopo, si vide galleggiare vicino alla riva una grande cassa, che conteneva un
peso enorme e che mostrava nondimeno d'avere la leggerezza di una piuma.
Ripescata, quella cassa fu aperta; e, con sorpresa e confusione generale, fu
rinvenuta lì dentro l'immagine della Vergine Madre di Nostro Signore e quella
dell'Angelo Annunziatore.
Tutti caddero in ginocchio, umiliati e tremanti dinanzi allo spettacolo di tanta
bellezza celeste.
I primi occupanti se ne impadronirono e contavano di possedere
un tesoro inestimabile.
In quella stagione alcuni mercanti, in giro pel
commercio dell'albaggio, capitarono in quella costa fortunata dell'isola. Ebbero
sentore delle due statue ed aprirono l'animo alla speranza d'un negozio
vantaggioso.
Le loro speranze, infatti, non andarono fallite ed il negozio fu conchiuso:
barattarono le due statue con tutto l'albaggio che quell'anno portavano
appresso.
L'avrebbero poscia rivendute a caro prezzo in Catania, in Messina o in Palermo.
Si sarebbero fatti ricchissimi. Erano pazzi di gioja.
Ma non tardò molto che si
pentirono amaramente del negozio fatto.
Situate le due statue sopra un carro resistente improvvisato, non c'era forza
umana che potesse trasportarle. I buoi più gagliardi vi restavano oppressi,
schiacciati.
Era una disperazione grande. Avrebbero voluto rifare il baratto e maledivano
l'occasione che li aveva distolti dal loro traffico solito. Dinanzi a quelle
imagini di paradiso non lasciavano nemmeno di far sentire imprecazioni e
bestemmie perfide.
E la Vergine e l'Angelo che sorridevano sempre di questo
imbarazzo dei mercanti, delle loro imprecazioni e delle loro bestemmie, con un
sorriso tutto candore, tutto bontà.
Piangendo e delirando notte e giorno, quelli s'erano decisi finalmente di
abbandonar tutto e di tornare in patria poveri e derelitti.
Era stata una vera
sciagura. Avrebbero detto che erano stati derubati da' briganti.
Veramente, partirono imprecando e bestemmiando più a lungo.
Giunti una mattina, in sulla prima alba, in una selva foltissima, videro sbucare
di tra le macchie impenetrabili un'infinità di buoi selvaggi, che avrebbero
potuto portare addosso lo stesso Mongibello.
Mentre gli altri fuggirono
dileguando come baleno nella boscaglia, due di essi, pieni di mansuetudine
nuova, restarono a guardare con benevolenza i mercanti desolati, in
atteggiamento di dir loro, che erano pronti a mettersi a loro disposizione.
A' mercanti tornò improvvisamente nell'animo la speranza perduta.
Guidati da una
inspirazione sovrumana, si avvicinarono a quella coppia di buoi selvaggi; con
letizia somma poterono legarli con un pezzo di corda al collo e tornarono
indietro, là donde erano partiti.
La Vergine e l'Angelo in sul carro, che si disegnavano con purezza ineffabile in
quello sfondo azzurro e lucente di cielo e di mare, sorridevano sempre col loro
sorriso tutto candore, tutto bontà!
I buoi, giunti colà, come ci avessero avuto il giudizio, fecero riverenza alla
Vergine ed all'Angelo compagno, inginocchiandosi.
Poi si lasciarono legare al
carro umilmente e si misero in cammino, tirandolo come niente fosse.
Non c'erano strade, non c'erano sentieri; e pure, il carro procedeva
liberamente.
Durante quel passaggio, le selve diradavano gli alberi, i precipizii
scomparivano e gli abissi si colmavano!
I mercanti, pentiti profondamente per avere osato di dubitare un istante,
dinanzi a tanto prodigio parlante, andavano versando lacrime caldissime.
La Vergine, così, giunse presto in Bronte, fermandosi nella parte estrema del
paese che allora cominciava a sorgere, di fronte a Mongibello, che s'innalzava
gigante e minaccioso lassù, in fondo. |
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La Leggenda
L’Annunziata di Bronte
A mia madre Illuminata Carastro
Poesia di Filippo
Isola (6-7 Dicembre 1894) |
Ei vi fu nella Grecia un gran maestro,
che, o per desio di popolo devoto,
o per provvido impulso di sant’estro,
o per altro motivo a lui sol noto,
volle scolpir la Vergine beata
nell’atto ch’è dall’Angelo annunziata.
Seco studiava un giovine avvenente,
un discepolo fiore d’intelletto,
che, nell’idee leggendo immantinente,
al maestro rubato avea il concetto;
ei dell’Angelo il viso e il vestimento
immagina e disegna in un momento.
Non ha un masso di marmo, onde connette
i pezzi che il maestro butta via;
tacito e occulto all’opera si mette,
pregando il Cielo che favor gli dia;
ed è nel lavor suo molto inoltrato quando
quando quell’altro è bell’e terminato!
Ora il maestro aveva stabilito
di dar principio a l’Angelo il dì dopo;
ma, avuto dal discepolo un invito,
a casa va di lui, dove lo scopo
d’un tal invito manifesto trova,
e del giovine l’opra ammira e approva.
Ma tosto ammutolisce e atteggia il ciglio
sì che rivela il cor d’invidia pieno;
indi ratto a un martello dà di piglio
e il bel giovine fredda in un baleno! ...
In quel dì stesso l’invido omicida
è giustiziato tra plaudenti grida.
Incompleto così l’Angelo resta
sol con un’ala, come ancor si vede.
Improvvisa quel popolo una festa
e, con fervido brio di viva fede,
porta que’ simulacri in un gran tempio
parato sì che pria non ebbe esempio.
Nell’impero oriental dop’anni ed anni
del fatto esposto, un ordine apparisce,
che, seminando orror lacrime affanni,
il culto delle immagini abolisce.
Celatamente studiansi i Cristiani
che i simulacri lor rimangan sani.
Ed una notte, a malincore poste
le statue nostre in larga navicella,
al mar le danno da rimote coste:
quand’ecco scatenarsi una procella,
che, contro ogni più lieto presagirè,
repente il caro legno fa sparire.
Verso l’alba, sul mar, che da levante
gode i sorrisi del sicano lito,
la navicella appare sfolgorante:
è lo strano fenomeno avvertito
da poveri solerti pescatori,
usi di notte ai lor magri lavori.
Guardan fermi e stupiti i paurosi;
ma quei, che sono attratti da rapina,
s’avanzano nell’acqua ardimentosi:
più lor la navicella si avvicina,
più perde a poco a poco la sua luce,
fin che, toccata, oscura si riduce.
Trovate in fondo al cavo pin distese
le vaghe statue, dolce ammirazione
e ad un tempo timor sacro li prese;
han di rizzarle poi l’ispirazione,
perchè presto si vegga da la riva
la cosa molto singolar che arriva.
Sorto non era il sol: pel puro cielo
tutta gioconda distendea l’aurora
il suo rosato risplendente velo,
come più bel non s’era visto ancora;
e in quel leggiadro sfondo luminoso
si disegnava il legno portentoso.
De’ Brontesi trovandosi in cammino,
per vendere l’albagio lor speciale,
di lì passano proprio quel mattino,
e s’arrestano ad un prodigio tale.
La navicella intanto adagio approda
e la gente affollata è in su la proda.
Scoppia prima un gridìo di gioia intensa,
indi un alterco. La case meschine
vi son prive di chiesa; onde si pensa
dove posar le statue peregrine,
e chi di possederle n’abbia il dritto.
E’ si prevede facile un conflitto!
Allor s’inoltra e parla un pio Brontese:
« Tutto l’albagio nostro offriamo a voi,
se le statue ci date; e le contese
intendiamo così troncarvi noi».
S’accoglie da ciascun quant’è proposto,
e il fortunato scambio si fa tosto.
Cercano i nostri un carro e un par di bovi,
per portar via quell’onorato peso;
ma nessun di lor v’è che li trovi;
uno però sull’imbrunire ha inteso,
che due tori fortissimi vi sono,
di cui certo il padron farebbe dono. |
La mattina di poi s’alzano presto,
e a l’indicato loco se ne vanno;
vi trovan il padron da un’ora desto,
e subito da lui que’ tori s’hanno,
i quali son feroci, errano intorno,
e nessun loro ha mai toccato un corno. Tosto ch’ebbero i nostri quel permesso,
come agnello festante e mansueto
accorre ciascun toro da se stesso,
quasi a chiedere un giogo consueto:
è questo, pel padron, celeste indizio,
e un carro novo ei pone a lor servizio. Quando tai bestie trovansi davanti
ai sacri marmi, danno de’ muggiti
e cadono in ginocchio; onde gli astanti
rimangono a mirarle sbalorditi,
e i nostri fan la prima lor gridata:
Viva Maria santissima Annunziata! Posti sul carro i simulacri ritti,
s’alzano i tori e, senza verun cenno,
per Bronte s’incamminano diritti,
quali viaggiator d’esperto senno;
e allor più fragorosa è la gridata:
Vita Maria santissima Annunziata! La strada non è sempre aperta e piana,
pel bosco è duro del carro il passaggio;
ma l’un alber da l’altro s’allontana,
mentre s’infiora il suol più che di maggio,
sì che spesso risuona la gridata:
Viva Maria santissima Annunziata! Quei tori, che non sentono comando,
giunti qua, sull’entrar del paesello
da la parte di giù, ristan guardando
il torbido e fumante Mongibello;
smuover niun li può, s’alza un vociare:
« Qui, la Madonna qui vuole un altare!» Inteso ciò, gli immobili animali
si movon gravemente in certo giro,
e tanti e tanti fanno giri eguali,
che alfin lo scopo tutti ben capiro:
passando è ripassando restò un segno,
che d’un tempio era artistico disegno. S’erige il tempio che da noi s’ammira;
ogni lustro decretasi un festino
nel caldo mese, quando un po’ respira
da l’improbe fatiche il contadino;
l’Annunziata s’intitola Patrona,
e d’oro le si fa manto e corona. Ma un dì l’Etna si sveglia: il suol si move
con tremendi sussulti, il ciel s’oscura,
e bruna rena chetamente piove;
d’un subito s’accresce la paura,
la tenebrìa s’arrossa e si distende
e verso Bronte accesa lava scende. La gente nostra credesi perduta,
chè a tal periglio non può nulla opporre;
a le sue colpe il gran flagello imputa,
e, con vivida fede, al tempio accorre:
indi la statua di Maria in un loco
porta, che guardi l’invadente foco. Pregano tutti e non v’è asciutto un occhio;
la scena è spaventevole e pietosa;
quando quell’alma statua, ch’è in ginocchio,
in pìè tosto si leva e imperiosa
comanda all’ìgneo fiume mutar corso:
apparve pronto il sovruman soccorso! La Vergine, com’è, rimase ritta,
sì che non pare nel solenne istante,
che il fiat cede a l’ansia terra afflitta;
ma il fedel, che s’inchina a lei dinante,
più sensibile vede la divina
maestà della sua Madre e Regina.

LEGGI PURE
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L'Annunziata, Patrona di Bronte
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Bronte e la devozione alla
Annunziata |
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I mercanti volevano che proseguisse tuttavia il viaggio per giungere almeno a
Catania, dove l'avrebbero rivenduta a caro prezzo; ma i loro sforzi furono
inutili.
Ella volle rimanere quivi; ed Ella stessa fece fare un giretto a' buoi
per segnare i confini della chiesa che avrebbe voluto edificata.
Tutto il paese si prosternò a' piedi della Vergine, che gli si offriva per
protettrice; colmò d'oro i mercanti perchè gliela lasciassero, e le fondò in
quel punto la bella chiesa dell'Annunziata, che guarda di fronte l'Etna.
Sin da quel tempo Bronte non teme più i furori di Mongibello; perchè Maria
Vergine, dal suo stesso altare benedetto, non perde un momento di vista il
terribile mostro. [Da “Terra di Fuoco – Leggende siciliane”, di Giuseppe Cimbali, Euseo Molino
Editore, Roma 1887. Dello stesso libro vedi pure "L'eruzione
del 1843"]
Un importate luogo di formazione e di aggregazione
Le Confraternite Tradizioni, Pennellate di
memoria di Nicola Lupo
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Le confraternite per definizione sono
associazioni di fedeli ufficialmente riconosciute dall’autorità
ecclesiastica, i cui membri, che non sono tenuti a pronunciare voti o a
sottomettersi a una regola, si dedicano a opere di carità. Hanno un posto di
rilievo nell’ordinamento religioso ed un tempo costituivano
un importate luogo di formazione e di aggregazione. I soci
si riunivano di frequente per essere istruiti e per
celebrare il culto; inoltre prestavano il mutuo soccorso
secondo le modalità previste dagli statuti. In Bronte, secondo quanto Benedetto Radice riferisce nelle sue Memorie
storiche di Bronte[1], c’erano cinque
confraternite:
Nella
chiesa Madre quella del SS. Sacramento (con sede nella chiesa di
S. Sebastiano );
dove prima c’era stata quella dei nigri o di
Maria SS. della
Misericordia, passata poi alla chiesa di S. Giovanni, poi a S. Blandano,
quindi a S. Rocco (chiesa che si trovava dove ora sorge la chiesa del Sacro
Cuore), e infine dal 1927, a S. Silvestro presso il monastero di Santa
Scolastica;
all’Annunziata, ma precisamente nell’oratorio annesso, quella di
Gesù e
Maria (sec. XVI)
ai Cappuccini quella del III Ordine di
S. Francesco (voluta dal frate cappuccino
padre Gesualdo De Luca ed istituita
nel 1863 col nome di "Pia Associazione del Terzo Ordine di S. Francesco
D'Assisi")
nella
chiesa di S. Blandano quella dello Scapolare della Beata
Vergine
Addolorata (1749).
ed infine
nell'Oratorio di S. Carlo Borromeo attiguo
alla Chiesa della Catena la Confraternita di Maria SS. della Mercede e di S. Carlo Borromeo
fondata nel 1830. La più importante sembra che fosse proprio quella di Maria SS. della
Misericordia, detta prima Compagnia dell’Orazione e Morte, sotto il titolo
dei Nigri, fondata nel 1616 a somiglianza di quella di Monreale. Aveva sede
iniziale nella chiesa di S. Maria dell’Astinenza (il
Rosario), era stata fondata dal p. Luigi La Nuza, un gesuita
vissuto nella prima metà del Seicento, conosciuto in tutta
la Sicilia come promotore delle missioni popolari. In quei
tempi anche a Bronte si tenevano con regolarità le missioni
popolari, una pratica che durava anche settimane e
coinvolgeva tutta la popolazione del paese. Tutte le
Confraternite avevano un regolamento e dei dirigenti, (il Governatore, il Segretario
e il Cassiere) eletti dai “fratelli” che pagavano un contributo annuo;
inoltre avevano un assistente ecclesiastico, nominato dalla Curia
Arcivescovile.
I compiti dei “fratelli” erano quelli di partecipare alle processioni
religiose e ai funerali dei “fratelli” o dei loro familiari defunti.
Per
partecipare alle processioni dovevano indossare la “cappa”, abito speciale
che consisteva in una lunga tunica di diverso colore a seconda della
Confraternita, legata in vita da un cordone, e fornita di un cappuccio che
copriva tutta la testa e che aveva due buchi all’altezza degli occhi. Col
tempo detto cappuccio venne indossato ma lasciando libero il viso.
Il vantaggio che, oltre alla religiosità dei singoli iscritti, faceva
aderire le persone alle confraternite, era quello che assicurava la gratuità
di tutte le spese dei funerali per sé e per i familiari conviventi, nonché
la sepoltura nelle cappelle che ogni confraternita aveva al Cimitero; perciò
esse erano non solo a scopo caritativo, ma a fine di mutuo soccorso.
Per la celebrazione dei funerali nelle chiese di appartenenza, le
confraternite disponevano di
un catafalco o talamo; famoso era proprio
quello della Misericordia, costruito da mio nonno e scolpito dal maestro Ronsisvalle di Adrano[2].
La tunica della Confraternita della Misericordia, chiamata anche di S. Rocco
e di S. Silvestro, alla quale erano iscritti quasi tutti i Lupo di Bronte e,
quindi, anche mio nonno, mio zio e mio padre, era di colore azzurro con
cordone bianco.
Mio padre fu segretario della confraternita e in quel periodo fu costruito
non solo il talamo ma anche la nuova cappella al Cimitero, dove ora riposa
in pace con tutti gli altri miei familiari morti a Bronte. Oggi le confraternite a Bronte sono sempre cinque: quella di Maria SS. della
Misericordia, della chiesa di S. Silvestro; quella del III° Ordine di S.
Francesco della chiesa dei Cappuccini; quella di Gesù e Maria dell’Oratorio
annesso alla chiesa dell’Annunziata; mentre quella del SS. Sacramento è
passata dalla chiesa di S. Sebastiano alla chiesa Madre o Matrice; e quella
di S. Blandano è scomparsa ed è stata sostituita da quella di S. Carlo
Borromeo della chiesa della Madonna della Catena. |
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I compiti odierni dei “fratelli” sono sostanzialmente due:
accompagnare i confratelli defunti in processione fino all’uscita del paese,
e partecipare alle solenni processioni del Venerdì Santo, del Santo Patrono
(S. Biagio), del Corpus Domini e della Madonna Maria SS. Annunziata,
(seconda protettrice del paese).
I “fratelli“ non indossano più la “cappa”, ma portano al collo solamente un
medaglione che riproduce lo stemma della confraternita. Uno di loro, però,
porta sempre lo stendardo di appartenenza che precede la processione[3].
Nelle processioni serali ai confratelli veniva consegnata una grossa e lunga
torcia, con relativo “coppu“ paravento, che alla fine doveva essere
riconsegnata in chiesa ad un delegato che diceva: - “a man ‘a manu ‘a
toccia a Santu Roccu!” controllando che qualcuno, distratto, non se la
portasse a casa.
Marzo 2005
Nicola Lupo
Note [1] Vedi in questo sito il mio libro,
cap. 9. [2] Vedi Lupo Nicola,
Fantasmi-"U tàramu", pag. 101
[3] Queste ultime notizie mi sono state gentilmente fornite da
mio cugino Vito Lupo fu Tommaso, al quale sono grato e che ringrazio anche
pubblicamente.
“Il terzo
fuochista”
U su Savvaturi, u bumbaràru di Nicola Lupo
La canzone dell’ultimo Sanremo che porta questo titolo e che a me è piaciuta
immensamente perché rappresenta la versione in musica dei giochi
pirotecnici, mi ha riportato ai “jocufocu” di Bronte di tanti anni fa
e al suo terzo fuochista che si chiamava “u su Savvaturi”,
soprannominato “u bumbaràru”, perché fabbricava e gestiva i
fuochi pirotecnici alle feste religiose. Questi era un uomo di mezza
età alto, robusto e dinoccolato, che non si poteva immaginare come facesse a
piegarsi per accendere le micce dei mortai che erano alti non più di 50
centimetri. Il suo colorito era scuro come se avesse preso il colore della
polvere da sparo e i suoi vestiti erano impregnati del suo caratteristico
odore acre e pungente. Ma se egli era il terzo fuochista chi erano i suoi aiutanti?
A quei tempi le
imprese erano quasi sempre a carattere famigliare, quindi i suoi dipendenti
e collaboratori erano i suoi figli e spesso anche la moglie. Essi avevano tutti una mansione particolare che si svolgeva sotto la diretta
direzione del capo famiglia che era padre e datore di lavoro nello stesso
tempo, e tutti lavoravano per la riuscita dei fuochi e per il buon nome del
“bumbaràru”, denominazione che indicava solo lui, senza altre
indicazioni.
La sua piazza di lavoro era limitata a Bronte e Maletto e quindi non era
l’unica fonte di guadagno sufficiente a sfamare una famiglia, allora sempre
numerosa, sia per “scrupoli di coscienza” che per ignoranza di mezzi
contraccettivi. Quindi il lavoro dei fuochi era concentrato nel periodo
delle feste religiose, quasi sempre nelle stagioni di raccolta, mentre il
resto dell’anno si andava in campagna o “al mastro” per i più
giovani, cioè da qualche artigiano per imparare un altro mestiere.
I fuochi più memorabili erano quelli per la festa dell’Annunziata,
protettrice del nostro paese, che si svolgevano allo Scialando dove, allora,
la collina che ora è percorsa dalla circonvallazione nord e in parte è
edificata, rappresentava la grande tribuna naturale del “jocufocu”
che si effettuava a valle, dietro «’a Santa Cruci», poi destinata a
villa comunale.
Si svolgevano la sera tardi, dopo la processione e la cena, la cui frutta,
generalmente anguria, si consumava davanti i fuochi: e si vedeva un
pellegrinaggio di giovani con i “miruni” sottobraccio e vocianti per
l’allegria che provocava l’attesa del più bello spettacolo all’aperto
dell’anno.
Peccato che allora non c’erano le cineprese di oggi, per immortalare quella
gioventù variopinta e spensierata dell’epoca che mangiando meloni esclamava
“oooh! oooh! oooh!” ad ogni sparo, ad ogni “rota” aspettando
quella “pazza” che chiudeva la serata assieme agli ultimi “botti”
che rimbombavano nel petto e lasciavano una specie di rimpianto per la
festa finita.
Ma lasciamo spazio a parte della descrizione che fa dei fuochi il Nostro Don
Benedetto Radice in un articolo, intitolato proprio “Ai
Fuochi”,
(il brano è tratto da
"Il Radice sconosciuto",
racconti, novelle, commemorazioni, epigrafi, scritti vari, pubblicati da
Benedetto Radice su vari giornali dal 1881 al 1924 - a cura di N. Lupo e F.
Cimbali - Collana Editori in proprio, Tipolitografia F.lli Chiesa,
Nicolosi, Agosto 2008) |
«[…] Tutt'un tratto si sente lo sparo d'un mortaio
che lancia all'aria una granata, poi lo schianto e il fruscìo di molti
razzi, che, come saette, van su serpeggiando pel cielo, lasciandosi dietro
una lunga coda di faville. E’ il segnale de' fuochi. Un «oh bello! oh bravo! viva il razzaio!» scoppia da mille bocche unito a
gran batter di mani, mille teste ondeggiano in varii sensi, mille facce si
volgono in su a guardare i razzi che generandosi in altri, rincorrendosi e
incrociandosi, strisciano per l'aria come serpentelli fiammanti, e rivengon
giù scoppiettando e spruzzando una pioggia di scintille rosse, verdi,
violette, argentee, che via via si spengono in mezzo al vasto mormorio che
sale dalla piazza.
Finalmente ci siamo. I canti cessano. Tutti gli occhi son volti alle
girandole. La colombina con uno stoppino al becco, correndo su d'un fil di ferro,
s'accosta per bruciare la prima, che, nell'intenzione dell'artista
pirotecnico vorrebbe dire una corona, la quale appena accesa, si sfascia,
sprizzando da un lato un rocchio sfrusciantedi scintille, e s'avvia
lentamente a girare, poi aprendosi come una melagrana matura sfiamma,
sfavilla, e, al diradarsi della piccola nube che l'avvolge, rotando con
rapidità vertiginosa, appare tutta sfolgorante, fischiettando, strepitando,
sputando fiori a josa che le fanno intorno un ampio cerchio stellato. È una pompa, una festa, una ridda di colori accesi, che nella rapidità del
giro, si mescolano, si confondono in un solo splendore, è una dovizia di
gioie d'un bazar orientale: zaffiri, topazi, smeraldi, birilli, ametiste,
che danno sbarbagli incantevoli. Le fiaccole impallidiscono, i visi degli spettatori si fanno del color della
luce della girandola; e, a quel riflesso, ad ogni mutar di colore, ora
appaiono rossi come lame infocate, ora verdi come ramarri, ora gialli come
cadaveri; onde quell'immensa moltitudine penetrata, trasfigurata, da quella
luce, ti dà l'illusione d'un gran brulichìo di baccanti, di spettri, sbucati
lì per lì da un cimitero, come per andare al Giudizio prima del tempo, che
ridono e si sbeffeggiano, scorgendo ognuno il cambiato aspetto nella faccia
spettrale del vicino: «Oh, tu come se' giallo, mi sembri la morte, mi sembri!» Voci, urli, smanacciate, risuonano per l'aria piena dell'odore acre del
salnitro. La girandola, finalmente, spossata da quel prillo furibondo, allenta il suo
giro, manda oscillando gli ultimi bagliori e si spegne fra le matte risate e
il gridìo della folla. Intanto mentre una margheritina va su frullando e fischiando pel cielo se ne
brucia un’altra, ma questa gli è più grande, e rappresenta un fontanone da
cui fragorosamente sale alla luna un bellissimo zampillo di diamanti che
dividendosi in tanti zampillini, e dolcemente curvandosi a ombrello, con
certo quale chioccolìo come d’una gran cascata, si riversa in una splendida
tazza di malachite. Poi spari di mortaretti, batterie di castagnole, organi giranti che
fischiano, girelline a serpina che cascando in Arno, parevano nell’acqua un
branco di pesciolini, girelline a sfascio, che, non bruciando perchè male
stoppinate nelle guide da passo, o per avere marcio lo stoppino, suscitavano
nella folla becera e festosa urli e fischi da sbalordire. Povero fochista! Si brucia finalmente l'ultima. La fantasia del fochista qui volle
raffigurato il sistema planetario e ci mise tutto il suo ingegno
pirotecnico, tutta la tavolozza magica de' colori, dall'oro all'ambra, alla
porpora, all'azzurro, all'amaranto e via dicendo. Una spera di sole sta immobile raggiante nel mezzo, lampeggiante come un
enorme rubino, tal quale appare la mattina al levarsi, mentre intorno a lui
rapidamente danzano in giro gli altri mondi minori, che con fragoroso sfrigolìo piovono a cerchi, onde di luce d'oro e d'argento. I vetri delle finestre percorse da' raggi vermigli del disco solare
s'incendiano e scintillano come in un tramonto estivo, e le signore nelle
loro fantastiche acconciature, lumeggiate variamente, secondo gli
sbattimenti della luce, paiono fate in sogno che spiccano il volo per
regioni inesplorate del cielo. Una luminosità d'aurora boreale si spande per l'aria, e dalla folla salgono
alle stelle voci d'allegrezza, risa di donne, grida di bambini. È una magnifica scena fiamminga degna del pennello di Rembrandt. In mezzo
agli echeggianti scoppi d'evviva, nel luccichìo delle collane, degli
orecchini, degli anelli di che sono adorne le ragazze, gli occhi estatici
brillano di compiacenza; le cose, le persone circonfuse da quell'atmosfera
di luce, appaiono spiritualizzate, glorificate.
[...]» |
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Questa descrizione del Radice, più che le mie povere parole, rendono l’idea
di come la canzone di cui sopra con la sua musica di organetti, spiritosa ed
allegra,e col canto di Tosca, precipitoso e travolgente, traduce i fuochi in
gioiosa armonia che elettrizza ed incanta.
Nicola Lupo
Bari, 14 marzo 2007 |
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