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(…) Il periodo di maggior movimento e di vita più intensa era quello estivo ed iniziava con la mietitura. Quando il fieno era al punto giusto di maturazione, mio padre dava incarico a qualcuno dei nostri inquilini di reclutare i mietitori. Giungeva all'alba una nutrita schiera di braccianti, con scarpitti quasari (pezzi di copertone d'auto, rivettati nella parte anteriore per chiuderle, nei quali si infilavano i piedi avvolti in un pezzo di canapa) e armati di falce e di bummulu; ciascuno era annotato in un registro ed il gruppo veniva accompagnato al posto di lavoro. Al tramonto tornavano alle case per un pasto caldo, prima di spargersi nei fienili dove, quelli che non rientravano al paese vicino, passavano la notte. Il pasto caldo serale, chiamato sustanza, consisteva in pasta e legumi, bolliti nella caldaia da ricotta e versati nella madia che si usava per impastare il pane; attorno ad essa i mietitori si disponevano a turno per mangiare, come in un enorme piatto comune. Sarebbe stato un lusso eccessivo possedere piatti bastanti per tutta quella gente. … Il grano, mietuto a jèmmiti (manipoli), veniva raccolto e legato in gregni (covoni) per essere trasportato - a carico nostro, coi nostri asini o pagando dei trasportatori - ai bordi dell'aia; veniva sistemato in timogni (biche), una per ogni inquilino, contrassegnate da un cartello col nome e non restava che attendere il turno per la trebbia, momento culminante del lavoro di un intero anno. Di solito i contadini venivano con tutta la famiglia e si creava un clima di festa. Al momento della trebbia i covoni di ciascuna partita venivano slegati e disposti su una superficie circolare in una zona dell'aia; coppie di buoi col giogo trascinavano una grossa pietra, in modo da frantumare la paglia e sgretolare le spighe. Di tanto in tanto i buoi si fermavano e i contadini coi tridenti rivoltavano i covoni non ancora sbriciolati (a vutata di l'aria). In alternativa ai buoi, a volte erano i cavalli a trottare in giro accompagnati da canti.
Si procedeva infine alla misura, “rito” culminante che veniva “celebrato” con solennità. I presenti si disponevano attorno al mucchio dichiarando le loro stime sulla quantità, mentre uno degli anziani si faceva avanti col dumundella (cilindro di legno della capacità di circa otto litri e mezzo) e a rasa (la rasiera), procedeva a prelevare il grano dal mucchio, lo riversava in sacchi retti dai più giovani e “bandiva” il numero progressivo con le varianti e le personalizzazioni che il clima d'euforia suggeriva: 'N nomu du Patri, dui, a Santissima Trinità, i quattru vangilisti, cincu, sei, i setti sacramenti, ottu, novi, i deci cumandamenti, undici, i dudici apostuli, sant'Antuninu, quattordici, quindici, sidici, non si cunta, dicerottu, san Giuseppi, vinti, … Oltre all'attività agricola, l'estate era anche caratterizzata dal commercio del bestiame in occasione delle fiere che si svolgevano nei paesi vicini: il 24 giugno a Randazzo la fiera di S. Giovanni, il 26 luglio a Floresta la fiera di S. Anna, il 18 agosto a Cesarò la fiera di S. Calogero e la penultima settimana di settembre la fiera di Moio. L'andamento delle vendite costituiva una grossa incognita nell'economia familiare e mia mamma aspettava con una certa apprensione l'esito. Non esistendo il telefono, chiedeva notizie ai santi dai quali sperava di ricevere le informazioni attraverso i sogni, secondo un codice da lei stessa suggerito nelle preghiere: un giardino in fiore se le vendite andavano bene, dirupi se andavano male. Da parte mia l'interesse era solo per il ritorno di mio padre; indipendentemente dagli esiti, sapevo che ci scappava un giocattolo - solitamente un fucile di latta - o una grossa anguria di cui ero ghiotto. Alla fine dell'estate si saldavano i conti col mugnaio, col maniscalco e col barbiere. L'uso di carta e penna in quell'epoca non era eccessivamente familiare, ma ciò non presentava grossi inconvenienti. Serviva egregiamente allo scopo la tagghia, un pezzo di ferla, lunga un palmo, per buona parte della sua lunghezza tranciato a metà; su di essa, oltre alla sigla o un segno convenzionale riguardante il cliente, s'incidevano delle tacche corrispondenti alle utenze. Si teneva abitualmente infilata in uno spago e quando il conto era saldato si consegnava al cliente a cui si riferiva. Per il barbiere, il problema era semplificato perché si pagava un fisso in frumento per tutta la famiglia, indipendentemente dal numero delle prestazioni. (Tratto da La testa in Bronzo - Ricordi sbiaditi nel tempo, di Luigi Minio) |
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