Tradizioni brontesi

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La vita di campagna

di Luigi Minio

La prima infanzia fu tutta all'insegna della spon­taneità: vivevo quasi allo stato brado, come i tanti animali domestici che popolavano i dintorni della masseria.

Sì, anche loro vivevano in una quasi libertà. Ripen­so a galline, oche e tacchini in giro per la campa­gna in cerca di cibo; ritornavano la sera al pollaio dove passavano la notte e al mattino deponevano le uova.

Anche fra loro vi erano le ribelli che la sera non rincasa­vano; si costruivano un nido in una qualche macchia, depo­nevano le uova e diventate chiocce le covavano; ricompa­rivano dopo qualche settimana con una nidiata di pulcini al seguito, se non pagavano la loro ribellione finendo preda delle volpi.

Per il resto, tutta la vita si svolgeva in modo primitivo. Mancavano l’energia elettrica, l’acqua corrente ed i servi­zi igienici; gli elementari bisogni naturali venivano soddisfatti in aperta campagna.

Per tutto il periodo invernale anche il rapporto col resto del mondo era estremamente ridotto. Restavano, oltre alla mia famiglia, i miei zii ed i pochi salariati fissi che accudivano al bestiame.

La vita iniziava alle prime luci dell'alba con la voce da muezzin di mio padre che, ancora dal letto, dava la sveglia alla famiglia e ai dipendenti che dormivano nelle mangiatoie di una stalla accanto, adibita a fienile e separata da un muro dalle stanze in cui abitava­mo noi.

Mia madre si alzava anche lei per iniziare la giornata aggiungendo ceppi al fuoco del camino costantemente acceso. Nei giorni di neve, un dipendente spalava tracciando un sentiero che univa le varie porte per agevolare il cammino agli altri.

La prima operazione era la mungitura delle pecore e delle mucche, seguita dal rito della ricotta, una procedura che si tramandava immutata da secoli. Sebbene semplice, richiedeva una certa perizia per la riuscita della buona qualità del formaggio e veniva affidata al curatolo, il pastore più anziano reputato capace.

Il latte, insieme a quello munto la sera precedente, veniva versato nella caldaia attra­verso il culaturi, un grossolano recipiente di legno nel cui fondo vi era un'apertura protetta da alcuni rami di felce usati come rudimentale filtro; vi si aggiungeva il caglio -fermenti ricavati dal contenuto dello stomaco di agnellini lattanti - e si ricopriva con una pelle di pecora.

Dopo un tempo variabile, secondo la temperatura dell'ambiente, il latte rapprendeva formando la cagliata. ...il momento in cui affiorava la ricotta, ...si recitava la formula che faceva parte del rito:

Santu Raimundu
ricotta finu o' fundu
Setti fiscelli
e un cuppottu tundu
.

La trebbia al «Corvo»

di Pasquale Spanò

La trebbia al «Corvo» era proprio un gioco:
ben ventilata la nostra aia stava
sulla sporgenza congiunta alla roccia
contrapposta al torrente e alla pïena;
al centro d'una serie di colline,
da bianche chiazze si mostrava cinta
e da fuochi loquaci a prima sera.

Esaurita papà ogni faccenda
ci apprestava un giaciglio tra i manìpoli,
frantumati dai ferri delle mule, e
l'ombrellone a ripar dalla rugiada:
si chetavan le voci per i colli,
si smorzavano i fuochi ad uno ad uno,
si diradavano i latrati cupi.

Assente della luna il volto gèlido,
al paese laggiù i lumi accesi
facean coda alla celeste volta
costellata da punti luminosi:
discordi i doppi tocchi delle torri,
del San Giovanni e del Capizzi quindi,
eran per noi un dialogo arcano.

Rapìaci lo spirto allor Morfeo
finchè l'alba troncava i dolci sogni:
a gradi si schiariva il minio in cielo,
si fondevano gli astri al nuovo sole,
si apriva a noi radiosa l'avventura
d'un altro giorno, immersi nella luce,
negli aspri odori di meandri e borri.


La poesia (metro: endecasillabi con cesura libera), tratta da «Etnei» (Torino, 1993) un libro di poesie di Pasquale Spanò, è stata scritta nel 1953. In calce l’autore riporta il seguente com­mento:
«Per i ragazzi la trebbia al «Corvo», che si faceva ancora nel modo primitivo, era un diversivo mera­viglioso nell'afosa calura estiva. Il centro della loro vita era l'aia: intorno, una corona di altre aie; in fondo, la città, le sue luci e le torri del San Giovanni e del Capizzi con i loro orologi, mai unisoni.»

(…) Il periodo di maggior movimento e di vita più intensa era quello estivo ed iniziava con la mietitura.

Quando il fieno era al punto giusto di maturazione, mio padre dava incarico a qualcuno dei nostri inquilini di reclutare i mietitori.

Giungeva all'alba una nutrita schiera di braccianti, con scarpitti quasari (pezzi di copertone d'auto, rivettati nella parte anteriore per chiuderle, nei quali si infilavano i piedi avvolti in un pezzo di canapa) e armati di falce e di bummulu; ciascuno era annotato in un registro ed il gruppo veniva accompagnato al posto di lavoro.

Al tramonto tornavano alle case per un pasto caldo, prima di spargersi nei fienili dove, quelli che non rientravano al paese vicino, passavano la notte.

Il pasto caldo serale, chiamato sustanza, consisteva in pasta e legumi, bolliti nella caldaia da ricotta e versati nella madia che si usava per impastare il pane; attorno ad essa i mietitori si disponevano a turno per mangiare, come in un enorme piatto comune. Sarebbe stato un lusso eccessivo possedere piatti bastanti per tutta quella gente.

… Il grano, mietuto a jèmmiti (manipoli), veniva raccolto e legato in gregni (covoni) per essere trasportato - a carico nostro, coi nostri asini o pagando dei trasportatori - ai bordi dell'aia; veniva sistemato in timogni (biche), una per ogni inquilino, contrassegnate da un cartello col nome e non restava che attendere il turno per la trebbia, momento culminante del lavoro di un intero anno. Di solito i contadini venivano con tutta la famiglia e si creava un clima di festa.

Al momento della trebbia i covoni di ciascuna partita venivano slegati e disposti su una superficie circolare in una zona dell'aia; coppie di buoi col giogo trascinavano una grossa pietra, in modo da frantumare la paglia e sgretolare le spighe.

Di tanto in tanto i buoi si fermavano e i contadini coi tridenti rivoltavano i covoni non ancora sbriciolati (a vutata di l'aria). In alternativa ai buoi, a volte erano i cavalli a trottare in giro accompagnati da canti.

Seguiva la spagghiata, non appena minava u ventu: coi tridenti si buttava in alto la paglia che veniva trascinata poco distante mentre il grano ricadeva sul posto; alla fine, quando la quasi totalità della paglia era andata via, si usava la pala per liberare il grano dalla pula residua e si passava alla cernita.

Si procedeva infine alla misura, “rito” culminante che veniva “celebrato” con solennità.

I presenti si disponevano attorno al mucchio dichiarando le loro stime sulla quantità, mentre uno degli anziani si faceva avanti col dumundella (cilindro di legno della capacità di circa otto litri e mezzo) e a rasa (la rasiera), procedeva a prelevare il grano dal mucchio, lo riversava in sacchi retti dai più giovani e “bandiva” il numero progressivo con le varianti e le personalizzazioni che il clima d'euforia suggeriva:

'N nomu du Patri, dui, a Santissima Trinità, i quattru vangilisti, cincu, sei, i setti sacramenti, ottu, novi, i deci cumandamenti, undici, i dudici apostuli, sant'Antuninu, quattordici, quindici, sidici, non si cunta, dicerottu, san Giuseppi, vinti, …

Oltre all'attività agricola, l'estate era anche caratterizzata dal commercio del bestiame in occasione delle fiere che si svolgevano nei paesi vicini: il 24 giugno a Randazzo la fiera di S. Giovanni, il 26 luglio a Floresta la fiera di S. Anna, il 18 agosto a Cesarò la fiera di S. Calogero e la penultima settimana di settembre la fiera di Moio.

L'andamento delle vendite costituiva una grossa incognita nell'economia familiare e mia mamma aspettava con una certa apprensione l'esito.

Non esistendo il telefono, chiedeva notizie ai santi dai quali sperava di ricevere le informazioni attraverso i sogni, secondo un codice da lei stessa suggerito nelle preghiere: un giardino in fiore se le vendite andavano bene, dirupi se andavano male.

Da parte mia l'interesse era solo per il ritorno di mio padre; indipendentemente dagli esiti, sapevo che ci scappava un giocattolo - solitamente un fucile di latta - o una grossa anguria di cui ero ghiotto.

Alla fine dell'estate si saldavano i conti col mugnaio, col maniscalco e col barbiere. L'uso di carta e penna in quell'epoca non era eccessivamente familiare, ma ciò non presentava grossi inconvenienti.

Serviva egregiamente allo scopo la tagghia, un pezzo di ferla, lunga un palmo, per buona parte della sua lunghezza tranciato a metà; su di essa, oltre alla sigla o un segno convenzionale riguardante il cliente, s'incidevano delle tacche corrispondenti alle utenze.

Si teneva abitualmente infilata in uno spago e quando il conto era saldato si consegnava al cliente a cui si riferiva.

Per il barbiere, il problema era semplificato perché si pagava un fisso in frumento per tutta la famiglia, indipendentemente dal numero delle prestazioni.

(Tratto da La testa in Bronzo - Ricordi sbiaditi nel tempo,  di Luigi Minio)



La trebbiatura

Tradizioni, Pennellate di memoria di Nicola Lupo

Oggi la trebbiatura è tutta meccanizzata, specialmente nei terreni pianeggianti ed estesi.

Ma una volta, in modo particolare nei campi di montagna, tutta l’operazione, dalla mietitura alla trebbiatura vera e propria, in particolare nel territorio di Bronte, era effettuata tutta manualmente e con l’aiuto degli animali da soma: asini, muli, cavalli e anche buoi.

I contadini falciavano il grano e ne facevano dei piccoli mannelli che, dietro, un altro raccoglieva e legava in covoni, mettendoli in piedi in modo che le spighe potessero essere asciugate dal sole, per poi essere trebbiate facilmente.

Arrivato il giorno della trebbiatura: i covoni venivano trasportati, a volte anche con 'a sragura(1), sull'aia dove venivano sciolti e quindi trebbiati facendoli calpestare ripetuta­mente da un cavallo, preso anche in prestito da un agricoltore vicino, che veniva fatto girare sulle spighe al canto propiziatorio del contadino che lo guidava e incitava.(2)

La sera tutti gli uomini consumavano la cena sulla stessa aia o, se c’era, nel casolare adiacente, ed era adeguata alla situazione logistica o all’entità del lavoro svolto: quindi se vicino c’era la masseria i padroni disponevano che qualcuno cucinasse un pasto caldo e nutriente da distribuire a tutti i lavoratori assieme ad una generosa razione di vino; diversamente si mangiava quello che il piccolo agricoltore aveva fatto preparare a casa sua e veniva offerto ai dipendenti giornalieri.

Finita la cena durante la quale si parlava del più e del meno, ma sempre riferito al lavoro e all’ambiente in cui si svolgeva, con qualche immancabile pettegolezzo e barzelletta, tutti a dormire sul grano trebbiato, per custodirlo e in attesa che il primo venticello dell'alba favorisse il lavoro di spagliatura, cioè della separazione del grano dalla paglia e dalla pula.(3)

Io una volta volli dormire con gli altri sull'aia, che era quella comune per le piccole partite da trebbiare, e che era ubicata allo Scialandro(4), dove ora c’è la “Santa Croce”, in quello spiazzo triangolare tra Viale Catania e Via Marconi, ora occupato da un distributore Agip, e da dove, quando c’era il vecchio “quartiere“ che ospitava un distaccamento militare, e che poi fu adibito a pastificio da un certo Valenza, si poteva ammirare una delle più belle vedute dell’Etna, che ora è stata nascosta dal palazzone che è sorto su tutta l’area del vecchio “quartiere”.

Si era coperti da una grande coltre tessuta a mano nei telai antichi che si trovavano in molte case contadine, con lane e cotoni di risulta e di diversi colori, che intrecciati e filati insieme, fanno pensare che Missoni, per i suoi originali tessuti, tanto costosi, si sia ispirato ad essi.

All'alba, al soffiare della prima brezza utile a quel lavoro, fui svegliato e invitato ad andare a casa e continuare a dormire a letto; ma io volli restare ancora un poco per seguire quella fase di quell'interessante lavoro e vedere accumularsi da un lato il grano e dall'altro la paglia e poi anche la pula; dopo, soddisfatto, rientrai infreddolito, ma contento di quella nuova esperienza.

Nicola Lupo
Bari, 13 Maggio 2005

Lo Scialandro, com'era molti anni fà

Lo Scialandro offriva «una delle più belle vedute dell’Etna, che ora è stata nascosta dal palazzone che è sorto su tutta l’area del vecchio “quartiere».




(1) 'A sràgura, mezzo di trasporto a slitta.


(2) Purtroppo non ricordo nessuno dei canti usati per incitare l’animale che trebbiava, ma erano parole propiziatorie o di incitamento oppure anche augurali.

(3) La pula è l’involucro dei chicchi di grano, e può chiamarsi anche lolla o loppa.

(4) Per l’origine di questa parola vedi in questo stesso sito: Nicola Lupo, florilegio da Le Memorie storiche di Bronte: il Mero e misto impero, capitolo 6, nota 3.




 



La vendemmia

Tradizioni, Pennellate di memoria di Nicola Lupo

La vendemmia era un’altra bella e piacevole esperienza della mia fanciullezza, perché era una vera e propria festa che, forse, ricordava gli antichi “Baccanali“.(1)

I piccoli proprietari di vigneti con tutte le loro famiglie e parte della parentela e degli amici, il giorno stabilito per la vendemmia, si recavano nella loro vigna per raccogliere tutti insieme l’uva, che dalle nostre parti era solo uva da vino, e non da tavola.

Naturalmente portavano una ricca colazione al sacco da offrire ai loro ospiti in cambio della spontanea collaborazione alla raccolta.

C’erano sempre uno o più contadini con asini o muli per il trasporto dell’uva al più vicino palmento(2) per la pigiatura, e per il trasporto del mosto(3) ricavato alla cantina o a casa.

Io ricordo ancora almeno due vendemmie: una a Maletto in contrada “Babbotti”, sulla strada per Randazzo, nel grande vigneto dei nostri amici Zappalà; era una meravigliosa giornata di un autunno ancora caldo, sebbene fossimo a quota forse superiore ai 1000 m., e la comitiva era numerosa sia di parenti e amici, che di contadini; la raccolta fu veloce e festosa perché sarebbe stata seguita da una vera e propria scampagnata.

Infatti, portata tutta l’uva al palmento dove, sotto il controllo di un rappresentante dei proprietari, sarebbe stata pigiata il giorno dopo, le donne della comitiva, coadiuvate da alcune contadine, cominciarono a preparare il pranzo che in parte era costituito da vettovaglie portate pronte da casa, mentre altre, come la salsiccia di maiale, confezionata “a punta di coltello” e condita con sale, pepe e semi di finocchio, sarebbe stata cucinata alla brace in modo caratteristico: poste due grosse pietre a trenta cm. l’una dall’altra e poggiate su di esse due tegole, asportate provvisoriamente dal tetto di un capanno vicino, veniva acceso sotto di esse un fuoco di sarmenti(4) che avrebbe infuocato le tegole sulle quali allora sarebbe stata appoggiata la salsiccia che in poco tempo si sarebbe rosolata ben bene spandendo tutt’intorno un odore che avrebbe provocato l’acquolina in bocca a tutti, anche se già appagati di quanto si era mangiato: pane con acciughe salate, che i contadini mangiavano integralmente dopo averle sbattute contro una gamba per farne cadere il sale, formaggio pecorino locale e salumi fatti in casa nell’inverno precedente con le carni del maiale che era stato ucciso nel periodo di Carnevale.

Il tutto innaffiato dal vino della stessa contrada dell’anno precedente.

Una cosa che mi rimase impressa in modo particolare di quella vendemmia fu il caffè fatto per tutti ma non con una grossa caffettiera, ma “alla turca” in un grande paiolo di rame, di quelli che servivano per farci la polenta, che in quelle zone, se mancava il granoturco, si faceva con la farina di ceci che era ugualmente buona.

Dopo il caffè gli uomini vollero fare una specie di gara di tiro al piattello e, fattosi prestare da un contadino un “du’ canni”, in mancanza del piattello, lanciarono in aria la paglietta rigida di mio padre finchè tutti la crivellarono di colpi in modo che la ridussero un colapasta!

Una seconda vendemmia, questa volta con pigiatura, fu quella dell’uva del nostro “rinazzu”, fatta da tutta la mia famiglia affiancata da “papà Ninu”, zio di mio padre e patrigno di mia madre, e quindi con grande scampagnata con ricca colazione al sacco.

Nel primo pomeriggio la poca uva raccolta fu portata al palmento che si trovava dopo “u tundu” (il balcone di Bronte sulla splendida vallata del Simeto!) allo “scialandro”, dove si pigiava l’uva alla vecchia maniera, cioè a piedi nudi, e a quella operazione prendemmo parte anche noi ragazzi che ci divertimmo moltissimo, ma ne uscimmo ubriachi per le forti esalazioni del mosto che assaggiammo pure.

Un ricordo particolare mi evoca il trasporto dei grossi quantitativi di mosto che prove­nivano dai vigneti della “Serra e Gullìa” e che venivano effettuati da carovane di muli che portavano tre otri(5) ciascuno.

Il capo-carovana alle porte del paese, verso i “Cazzerabò”, dava fiato alla “buccina”(6) con suoni prolungati e modulati a seconda della proprietà, per avvisare il cantiniere perché aprisse la cantina e predisponesse le botti in cui travasare il mosto per la prima fermentazione.

All’arrivo della lunga carovana l’odore del mosto si spandeva per le vie donde passava e dalla cantina dove veniva depositato e i paesani facevano i pronostici su quali sarebbero stati i migliori vini e ne pregustavano le generose bevute.

Per analogia devo dire qualcosa del “vinucottu” che, malgrado il nome, non ha nulla a che fare col vino, perché, da noi, si ricava dalla cottura dei fichidindia sbucciati, poi passati al setaccio per eliminare tutti i semi, e fatto cuocere ancora fino a farlo ridurre ad un terzo di quanto era inizialmente.

Con esso si poteva fare, con l’aggiunta di farina, la mostarda che, messa in formette raffiguranti pesci, cuori o altri simboli, ed essiccata al sole, diventava un dolce nutriente che serviva per la colazione o la merenda durante l’inverno; o anche i “mastazzora” che erano un prodotto più raffinato che cosparso di altro vincotto su cui si spargevano confettini multi­colore, si offrivano anche agli amici in visita e venivano chiamati “ mastazzora a’ lìffia”.

In quella stagione si poteva mangiare a colazione anche il vincotto da solo intingendovi fette di pane abbrustolito.

Ma la vera passione per noi ragazzi era mangiare la prima neve appallottolata in una tazza e innaffiata da vincotto: una vera leccornia!

Mi piace chiudere questo argomento con la citazione di due vecchi motti brontesi: il primo che esprime l’essenzialità della vita

“Pani e vinu s’invita u parrinu!”,

e il secondo che stigmatizza l’ingiusta disuguaglianza sociale

“Cu zappa bivi acqua e cu non zappa bivi a’ butti!”

Bari, 19 Maggio 2005
Nicola Lupo

La vendemmia a Bronte

poesia di Filippo Isola, il medico-poeta (1860-1919)

Nella vigna è lo stuolo mattiniero
per vedovarne i tralci: con modesto
coltel l’uva recide e nel paniero
gitta, o l’addenta se appetito è desto;

curvo sotto il panier colmo, il sentiero
prende che mena ove il bel frutto. è pestò;
fra canti e ciance all’operar primierò
torna e ritorna allegramente e lesto.

Cerca il fanciul la chiocciola e la rana.
Sul capofila il mulattier si mette
dei muli carchi d’otri, e s’allontana;

col bùccino, che imbocca qual tritone,
aria sonora a gote gonfie emette
per il mosto annunziar del suo padrone.


[1] I Baccanali erano le antiche feste romane in onore di Bacco che, come tutti sappiano, era il dio dell’ uva e del vino.

[2] Il palmento era costituito da un locale in cui erano state costruite due vasche, sovrapposte una sull’ altra, in modo che su quella superiore si metteva l’uva da pigiare, il cui succo (il mosto) defluiva direttamente in quella inferiore., dalla quale poi veniva prelevato per essere trasportato alle cantine.

[3] Il mosto è il succo dell’uva che, poi, con la fermenta­zione, diventa vino.

[4] I sarmenti sono i tralci delle viti.


Antico pigiatoio per l'uva in Contrada Colla

 

"La raccolta fu veloce e festosa perché sarebbe stata segui­ta da una vera e propria scampagnata"

A destra, un'antica formetta
per mostrarda.

Antica formetta per la mostarda

[5] Otre = recipiente per liquidi (vino o olio) a forma di sacco, ricavato da una intera pelle di capra, conciata e cucita. L’antica mitologia greca racconta che il dio Eolo rinchiuse i venti proprio in un otre che, una volta diede a Ulisse perché propiziasse il suo ritorno nella sua Itaca.

[6] Buccina = conchiglia ritorta di grosse dimensioni, usata come primitivo mezzo di segnalazione acustica. Ne parla il Carducci in una sua poesia che, però, in questo momento non ricordo.




piccolo vocabolario brontese

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