Credo che molti ragazzi di oggi sappiano poco o nulla
del pane, anche perché esso è poco consumato in quanto è
stato in parte sostituito da tante “merendine” ed altri surrogati, come patatine “et
similia”. Una volta in quasi tutte le famiglie, specialmente nei
paesi ad economia agricola, all’epoca della mietitura e della
trebbiatura[2], si comprava il grano sufficiente per un anno;
esso poi, un poco alla volta, si mandava al molino (ce n’era
uno ad acqua sul Simeto vicino a Maniace e al Castello Nelson)
meccanico, dove veniva macinato e diventava farina. Questa,
allo stato naturale era chiamata integrale e veniva usata
dalla gente più povera che non voleva perdere nulla;
setacciata con diversi tipi di crivelli, invece, dava o la
farina 0, o quella 00, oppure la semola; da queste operazioni
si ottenevano degli scarti che erano la crusca[3] e il
cruschello, che servivano per alimentare gli animali, galline
e maiali, mentre oggi sono usati anche per curare certi
disturbi causati dalla vita sedentaria o dallo stress, e sono
venduti a caro prezzo in farmacia o in erboristeria.
La farina così ottenuta e setacciata
veniva usata in casa o per il pane, o per la pasta o per i
dolci.
Il pane veniva fatto in casa, e andare a comprare il
pane al panificio era considerato una anomalia che deponeva
male nella considerazione della famiglia. In casa si faceva il
pane ogni settimana e gli arnesi per la sua confezione erano,
oltre “u crivu”, già nominato come crivello, “a
mailla”, la madia, dove la farina veniva impastata con
acqua tiepida, sale e lievito naturale[4].
Lavorato bene questo impasto con le mani e con i pugni per
circa mezz’ora, si passava a fare le forme di circa un chilo
ciascuna e si mettevano su un tavolo di legno coperto da una
tovaglia bianca; quando si era esaurita questa operazione, con
i rimasugli di pasta che si ottenevano raschiando bene “‘a
mailla“, si faceva “‘a minnitta”, un panino che,
dal modo di rigirarlo con la mano, assumeva la forma di un
piccolo seno, donde il nome in dialetto.
Finita quest’ultima
operazione con una certa sveltezza, per non fare raffreddare i
pani, si coprivano prima con un’altra tovaglia bianca e poi
con una “butana “, una di quelle coperte di lana,
tessute in casa con i cascami di vecchie lane di diversi
colori.
Il calore, in circa un’ora, a seconda della
temperatura esterna dovuta alle stagioni, faceva lievitare il
pane.
Nel frattempo la massaia aveva acceso il forno di casa
che generalmente si trovava in un angolo della grande cucina,
bruciando legna o gusci di mandorle o anche sansa.
Quando il
forno era caldo al punto giusto, allora non c’erano i
termometri per misurare quelle temperature, e si regolava in
base al colore che avevano assunto i mattoni che
costituivano
la bocca del forno, e il pane era lievitato al punto giusto, e
ciò si vedeva dal modo e da quanto esso era cresciuto, la
massaia tirava fuori, con un rastrello (rrastrilluzzu) ed una paletta di
ferro (parittuni), tutto il fuoco che, messo in un grande recipiente di
ferro con relativo coperchio “u stutafocu”, diventava
carbonella che poi si metteva nella “conca“, cioè il
braciere che serviva per riscaldarci mettendoci intorno al
“cunchèri”[5].
Pulito, sempre con grande sveltezza, con uno
straccio inzuppato di acqua, il piano di cottura, in modo che
il pane non potesse avere pezzetti di carbone, con una lunga
pala di legno infornava ad uno ad uno i pani e poi,
benedicendo con un segno di croce e recitando la preghiera di
rito: “Santa Rosa e Santa Maggarita, russu ri crusta e
chinu ri mullica!”, chiudeva, con una lamiera a misura, la
bocca del forno in modo che il calore non si disperdesse.
La
lunga e faticosa operazione era finita e a questo punto
la massaia, asciugandosi il sudore causato dalla fatica e dal
calore, si sedeva, (finalmente!), attendendo la cottura del
pane.
Anche il tempo della cottura era misurato dall’esperienza e
guardando di tanto in tanto, con una rapida apertura dello
sportello, perché con esistevano le “istruzioni per l’uso”,
e quando il lavoro era riuscito e il profumo del pane si
spandeva per la casa e si sentiva anche fuori, la massaia era
felice e innalzava una muta preghiera a Dio o alla Sua dolce
Madre. Se in casa in quel momento c’erano ragazzi o bambini,
essi accorrevano, attratti da quel profumo di cui abbiamo
perduto il ricordo, chiedendo a gran voce: “‘a minnitta, ‘a
minnitta“; e la mamma, amorevolmente, tagliava
orizzontalmente a metà quel dolce e profumato panino, che
ricordava il seno materno, e, conditolo con olio e sale, lo
divideva ai suoi bambini che ne erano ghiotti e felici. Ancora a proposito della sacralità del pane, ricordata, del
resto, nel Padre Nostro, esso veniva utilizzato fino
all’ultimo “tozzo”, o per i poveri o per gli animali. Durava in genere anche otto giorni, proprio perché era a
lievitazione naturale; mentre oggi che si usa, anche per i
tipi di pane più raffinati e sofisticati, il lievito di birra,
il pane della mattina può risultare immangiabile la sera
stessa, immaginiamo il giorno dopo. Ora si usa metterlo nel
freezer ed è mangiabile appena scongelato e riscaldato, ma
subito dopo si sfalda e si pietrifica di nuovo. Siccome spesso
era scarso o mancava del tutto il companatico[6], ai bambini, per
consolarli, si diceva “mangia il pane asciutto
(appunto, senza null’altro), che ti vengono gli occhi più
belli!”; e i contadini o anche qualche operaio, quando
venivano richiesti cosa avevano mangiato, spesso,
rispondevano: “pani e cutellu”, per significare col
termine coltello, che serviva per tagliare il pane, la
mancanza di companatico. La colazione di mio nonno, e credo di molti artigiani,
consumata in bottega verso le 10, consisteva in pane,
formaggio e qualche ortaggio di stagione (acci, rapanelli,
lattuca) o altro, seguiti da un quartino di vino. Invece
l’aperitivo (ma allora non si usava questo termine, ma “u
biccheri”), della sera, dopo il lavoro e prima di
rincasare, definitivamente, per la cena, consisteva
nell’andare a bere un bicchiere di vino, accompagnato dai
“luppini “ o dai “cacucciuricchi”, in una delle
cantine delle migliori famiglie, con gli amici, generalmente dello stesso mestiere o parenti, con i quali si discorreva dei
fatti del giorno e della politica, che il più delle volte
riguardava l’amministrazione comunale o il lavoro. La cena serale era dedicata a raccogliere tutta la famiglia
attorno alla “conca” prima, se era inverno, e attorno
alla grande tavola rotonda dove si sostava anche dopo aver
finito; la tavola veniva sparecchiata, ma non si toglievano né
il pane né il vino, forse per un inconsapevole ricordo
dell’Ultima Cena, in cui fu istituita l’ Eucaristia,
rappresentata, appunto, dal pane e dal vino[7]. Quando, poi, si
mettevano via questi due alimenti, chi eseguiva l’operazione
baciava il pane toccandolo con le dita che poi portava alle
labbra. Infine ci si fermava ancora un poco per ascoltare la
lettura di qualche libro da parte di mia zia Ciccia, la quale
amava i classici dell’ ‘800, anche stranieri, che poi
provocavano accesi commenti fra i familiari. Bari, 21 gennaio 2005
Nicola Lupo |