Nel 1535 si ebbe un nuovo movimento provocato
questa volta da una disposizione dell’imperatore Carlo V.
In una sua visita a
Randazzo, costatando le difficoltà incontrate dai magistrati locali per
amministrare la giustizia su una popolazione frazionata in tanti piccoli centri
abitati, ordinò che tutti gli abitanti dei casali esistenti nel territorio già
appartenente all’abbazia di Maniace si trasferissero a Bronte(11).
Il decreto di Carlo V segnò per Bronte l’inizio di un nuovo
sviluppo, come testimoniano i documenti che ci apprestiamo a prendere in esame:
le relazioni ad limina inviate a Roma dai vescovi di Monreale, diocesi alla
quale Bronte è appartenuta fino al 1802.
Questi documenti, che troviamo
nell’Archivio Vaticano a partire dalla fine del Cinquecento, costituiscono una
preziosa fonte storica, che ci offre in sintesi un gran numero di dati utili per
seguire le diverse fasi dello sviluppo di un centro abitato o di una
istituzione(12). Incominciamo così a percorrere la terza pista della nostra ricerca.
3. Ordinamento civile e religioso
Per comprendere i dati riferiti nelle relazioni è necessario
descrivere brevemente l’ordinamento di Bronte. Questo centro abitato non ha dato
il proprio nome a un feudo. A Bronte non c’è mai stato un castello, sede e segno
della potestà feudale(13).
Il territorio in cui Bronte è sorto, dal punto di vista
amministrativo faceva parte dell’abbazia di Maniace e per l’esercizio della
giustizia civile e criminale era soggetto al Duca di Randazzo; dal punto di
vista religioso con tutto il Valdemone apparteneva alla diocesi di Messina.
Questa condizione giuridica cambiò con il mutare delle sorti dell’abbazia di
Maniace che nel 1183, quando Monreale fu eretta diocesi, entrò a far parte con
tutto il suo territorio della nuova circoscrizione diocesana(14).
Si trattò di una
decisione politica che mirava più agli interessi della corona che al bene delle
popolazioni dipendenti dall’abbazia di Maniace.
Un vescovo residente a Monreale
non poteva prendersi cura di una popolazione dimorante in un territorio posto a
più di 150 Km di distanza, raggiungibile attraversando le impervie zone interne
della Sicilia.
Nel corso dei secoli le proprietà dell’abbazia cominciarono a
far gola ai potenti e iniziò la prassi deprecabile della commenda.
Se il re e il
papa avevano un debito di gratitudine verso un nobile o un loro parente lo
nominavano abate commendatario di un’abbazia o di un ricco beneficio. Egli in
tal modo poteva disporre liberamente delle rendite dell’abbazia con il solo
obbligo di assicurare il servizio religioso.
Ben presto l’abbazia di Maniace
cessò di essere un fiorente centro di vita monastica per diventare uno dei tanti
feudi concessi a dei nobili che si preoccupavano di riscuotere le rendite, senza
neppure risiedervi(15). I benedettini non furono più in grado di prestare il loro
servizio e furono sostituiti da altri ordini religiosi, che svolgevano il loro
ministero alle condizioni imposte dall’abate commendatario.
Nel 1491 per decisione di re Ferdinando II e con
l’approvazione di papa Innocenzo VIII, l’abbazia con i suoi beni fu concessa
all’Ospedale Grande di Palermo, che ne divenne feudatario(16). Si trattò di una
decisione sciagurata, che impedì a Bronte ogni possibilità di sviluppo e pose i
suoi cittadini nella condizione degli antichi servi della gleba con molti doveri
e pochi diritti.
Bronte, a conclusione di questo lungo e tortuoso percorso, si
trovò in una condizione di grave disagio dal punto di vista dell’ordinamento
civile e religioso. Nelle relazioni che i vescovi di Monreale presentavano a
Roma troviamo due rilievi costanti sul suo stato: a) l’eccessiva distanza del
centro abitato e i pericoli derivanti dalle strade scoscese, infestate dai
briganti, non permettevano ai vescovi di visitarlo con regolarità; b) la povertà
dei suoi abitanti condizionava anche le istituzioni.
Per la visita pastorale i vescovi solitamente inviavano un
delegato che, non essendo vescovo, non poteva amministrare il sacramento della
cresima e conferire gli ordini sacri. Per assicurare ai cittadini di Bronte
questi servizi era necessario rivolgersi ai vescovi vicini.
Nel 1640 Cosmo de
Torres invitò il vescovo di Patti. Nel 1680 Giovanni Roano invitò il vescovo di
Messina, che cresimò oltre 4.000 fedeli. Nel 1663 Ludovico de los Cameros, quasi
per farsene un vanto, scriveva a Roma che aveva visitato personalmente le zone
più remote della sua diocesi (Bronte e San Marco), che da oltre cinquant’anni
non vedevano il volto del loro pastore.
La distanza non creava difficoltà solo al vescovo, ma anche
al clero e ai fedeli di Bronte, che si trovavano nella impossibilità di esporre
i propri problemi e di sperare che il vescovo li affrontasse e risolvesse in
tempi ragionevoli. Il governo pastorale era affidato a persone più illuminate
del clero locale, formate nel seminario di Monreale, alle quali il vescovo
conferiva le opportune facoltà.
Ludovico Torres, nella prima relazione del 1591, informa il
papa che dopo la sua nomina si era affrettato a istituire il seminario. Seguendo
le norme del Concilio di Trento, aveva imposto a tutti gli enti ecclesiastici
della diocesi un tributo per il suo mantenimento.
L’ospedale di Palermo si
rifiutava di versare la quota stabilita, nonostante la presenza in seminario di
tre giovani di Bronte. In seguito ad una sua formale richiesta alla
Congregazione, il vescovo ottenne che gli amministratori dell’ospedale si
assumessero le proprie responsabilità per il bene del centro abitato di cui
erano feudatari. Nella relazione del vescovo leggiamo i nomi dei tre
seminaristi: Filippo Giangreco, Vincenzo Saccullo, Antonio Stancanella, che
negli anni successivi ricoprirono nella comunità di Bronte uffici di
responsabilità.
Nel regime feudale di solito era il feudatario a farsi carico
delle principali necessità dei propri sudditi, fra le quali era compreso il
mantenimento dei sacerdoti destinati alla cura delle anime.
Nel 1653 il vescovo
Francesco Poretto scrive che l’ospedale di Palermo non provvedeva al servizio
prestato dal clero nella chiesa madre per la cura delle anime; ogni famiglia
versava annualmente 3 tarì alla cassa della comunìa per assicurarsi i servizi
funebri; altri modesti introiti provenivano dai legati di messe; nel 1734 Alvaro Cienfuegos riferisce che a Bronte le chiese non avevano benefici; i sacerdoti
svolgevano il loro servizio non per interesse ma per devozione.
Nonostante le condizioni di povertà, i vescovi esprimono
giudizi positivi sul ministero svolto dai sacerdoti e sullo stato delle chiese.
Nel 1597 Ludovico Torres faceva notare che nel servizio dell’abbazia di Maniace
i frati di S. Francesco di Paola lasciavano molto a desiderare e propose che
fossero sostituiti da due sacerdoti del clero di Bronte, che avevano ricevuto
nel seminario di Monreale una buona formazione, ma avevano proventi modesti.
Inoltre propose che le somme versate dall’ospedale di Palermo ai frati, come
distribuzione quotidiana, fossero date ai sacerdoti di Bronte, che recitavano
nella chiesa madre le ore canoniche. Nel 1706 il vescovo Francesco Del Giudice
scriveva che a Bronte le chiese, anche se poverissime, profumavano di un
dignitoso splendore.
Le condizioni disagiate della popolazione di Bronte non
impedirono la sua crescita. Nella relazione del 1591 il vescovo scriveva che
Bronte aveva una popolazione di 3.000 abitanti. Tre anni dopo gli abitanti
diventarono 4.468; un aumento che si può spiegare solo con l’immigrazione di
famiglie da altri centri abitati.
Dopo circa cinquant’anni, nel 1640, la
popolazione raggiunse i 13.000 abitanti: il numero più elevato che troviamo in
queste fonti storiche. Ma negli anni 1651-1654 una disastrosa eruzione dell’Etna
devastò il territorio di Bronte, alla quale si aggiunse una pestilenza, e la
popolazione subì un notevole ridimensionamento: il vescovo nella sua relazione
scrive che gli abitanti si erano ridotti a 7.000. Solo nel 1734 raggiungeranno
un’altra volta i 12.000 per scendere negli anni successivi intorno ai 10.000.
Queste oscillazioni del numero degli abitanti sono strettamente collegate ai
cambiamenti che si verificavano nell’economia e nelle condizioni ambientali:
bastava un’eruzione dell’Etna, un’epidemia, una crisi nelle produzioni agricole
per obbligare gli abitanti a spostarsi nei luoghi in cui potevano sperare in
migliori condizioni di vita.
Dai dati riferiti dai vescovi nelle relazioni siamo in grado
di descrivere l’ordinamento religioso di questo popolo. Le autorità religiose
che avevano cura della popolazione di Bronte erano due: il vicario foraneo che
faceva le veci del vescovo, e l’arciprete o parroco che esercitava la cura delle
anime. Il vicario disponeva di una piccola curia con il personale idoneo per
governare la comunità cristiana di Bronte e per amministrare la giustizia sui
chierici e sui laici relativamente ai reati di competenza del vescovo. Infatti
le trasgressioni riguardanti la pubblica moralità erano perseguite dal vescovo,
che conferiva al vicario i necessari poteri per individuare e punire i
colpevoli(17).
L’arciprete o parroco esercitava la cura delle anime
coadiuvato da una comunìa, cioè da un collegio di sacerdoti che a turno
amministravano i sacramenti nella chiesa madre, assistevano i malati e i
moribondi e recitavano le ore canoniche in chiesa(18).
Il numero dei membri di
questa comunìa nelle relazioni dei vescovi oscilla fra i 34 del 1653 e i 24 del
1734 e 1738. Contrariamente a quanto avvenne in altri centri abitati, a Bronte
questa comunìa non si trasformò in collegiata e i suoi membri non furono mai
chiamati canonici.
A partire dalla relazione del 1738 risulta che la cura delle
anime veniva anche esercitata da due coadiutori dell’arciprete nella chiesa
filiale del Rosario, che tuttavia non aveva il fonte battesimale.
Altri sacerdoti svolgevano il ministero nelle numerose chiese
urbane e rurali. Il numero totale dei sacerdoti e dei chierici era molto elevato
rispetto agli abitanti: nel 1681 il vescovo scriveva che c’erano
complessivamente 90 ecclesiastici (cioè sessanta sacerdoti e 30 chierici).
A
questi bisognava aggiungere i 20 sacerdoti dei due conventi dei Frati minori e
dei Cappuccini e i 3 dell’Oratorio di S. Filippo Neri nella casa attigua alla
chiesa S. Maria della Catena.
Nella relazione del 1706 il vescovo Francesco Del
Giudice informava che dopo il terremoto del 1693 da Maniace si era trasferita a
Bronte la comunità religiosa dei Basiliani in un edificio attiguo alla
chiesa di
S. Blandano.
Oltre la chiesa madre, all’interno del centro abitato
sorgevano altre chiese aperte al culto: l’Annunziata, S. Giovanni Evangelista.
S. Maria del Soccorso, S. Maria dell’Astinenza (successivamente sarà chiamata S.
Maria del Rosario), S. Sebastiano, S. Rocco (nel sito dell’attuale chiesa del S.
Cuore), S. Silvestro, S. Blandano, S. Caterina, S. Maria della Catena e le due
chiese annesse ai conventi francescani: S. Felice da Cantalice e S. Vito.
La chiesa dell’Annunziata potrebbe costituire un ulteriore
legame fra gli abitanti di Bronte e di Longi. Infatti anche in questo comune dei Nebrodi esiste un gruppo marmoreo dell’Annunziata della scuola di Antonello
Gagini(19). A Longi giunse nel 1536, a Bronte nel 1543(20). Si può formulare l’ipotesi
di una iniziativa parallela, nata dalla devozione all’Annunziata di popolazioni
consapevoli dei vincoli che le univano.
Le dieci chiese rurali sparse nelle diverse contrade
costituivano gli ultimi resti degli antichi casali, i cui abitanti si erano
trasferiti man mano a Bronte(21).
Nel
casale di Placa Baiana, ancora abitato fino al
1756, c’era la chiesa di S. Michele, officiata da un sacerdote di Bronte. Il
vescovo Francesco Testa scriveva che nel villaggio erano rimasti solo 9
abitanti; gli altri si erano trasferiti a Bronte a causa dell’aria malsana o
malaria.
Questa notizia è interessante, perché ci informa che fino alla metà del
Settecento le persone che vivevano vicino al fiume avvertivano ancora la
necessità di trasferirsi a Bronte per allontanarsi dalle zone malariche.
Nell’ordinamento religioso di un centro abitato avevano un
posto di rilievo le confraternite laicali, che costituivano un importate luogo
di formazione e di aggregazione(22).
I soci si riunivano di frequente per essere
istruiti e per celebrare il culto; inoltre prestavano il mutuo soccorso secondo
le modalità previste dagli statuti. Nella relazione del 1653 troviamo il loro
elenco: SS. Sacramento alla chiesa madre, S. Maria dell’Astinenza (poi del
Rosario), S. Maria della Catena, S. Giovanni Evangelista, S. Maria del Soccorso.
A queste bisognava aggiungere altre associazioni minori e i terzi ordini
operanti nelle due chiese francescane.
Nella relazione scritta dal vescovo
Alvaro Cienfuegos nel 1734 si aggiunge a queste la confraternita della
Misericordia nella chiesa di S. Rocco e viene riferita una notizia interessante:
la confraternita che aveva sede alla chiesa di S. Maria dell’Astinenza era stata
fondata dal p. Luigi La Nuza, un gesuita vissuto nella prima metà del Seicento,
conosciuto in tutta la Sicilia come promotore delle missioni popolari(23). Da questo
dato possiamo dedurre che anche a Bronte si tenevano con regolarità le missioni
popolari, una pratica che durava anche settimane e coinvolgeva tutta la
popolazione del paese.
Bronte, nonostante la povertà dei suoi abitanti, non senza
difficoltà si era date alcune strutture considerate necessarie per la società
del tempo: l’ospedale, i legati di maritaggio per le ragazze povere, una casa
che ospitava donne senza dote, un monastero femminile.
Di queste quatto
istituzioni, l’ospedale riguardava tutti i cittadini, le altre tre avevano per
oggetto solo le donne. Data la condizione di dipendenza in cui si trovava la
donna nella società del tempo, si avvertiva il bisogno di creare degli antidoti
sociali per alleviare in qualche modo il suo disagio.
L’inserimento nella
società passava attraverso il matrimonio, per il quale era richiesta la dote. Si
comprende allora l’istituzione dei legati di maritaggio per aiutare le ragazze
senza dote a raggiungere questa meta. Se la via del matrimonio era preclusa si
offriva la possibilità del monastero o di una convivenza esclusiva più aperta.
Nella prima relazione del 1591 il vescovo scriveva che si era
incominciato a costruire l’ospedale; di esso per tutto il Seicento non abbiamo
altre notizie.
A distanza di oltre un secolo, nella relazione del 1706, il
vescovo Francesco Del Giudice scrive che era stato fondato un nuovo ospedale e
quanto prima sarebbe stato portato a compimento. Lo troviamo funzionante nella
relazione del 1734 e leggiamo che era intitolato alla Madonna della Scala(24).
Ai legati di maritaggio si accenna per la prima volta nel
1653, nella relazione del vescovo Francesco Poretto. L’eruzione dell’Etna di
quegli anni aveva distrutto i terreni dai quali si ricavavano le rendite per
costituire le doti. Il vescovo si era adoperato per verificare se qualcosa si
era salvato.
La notizia che leggiamo nella relazione del 1734 sembra riferirsi
ad una iniziativa successiva. Un certo Giuseppe Papotto aveva lasciato per
testamento la somma di 1.000 ducati d’oro per costituire legati di maritaggio in
favore delle ragazze orfane. Per la poca diligenza nell’eseguire le disposizioni
testamentarie del donatore si rischiava di perdere tutto, ma il vescovo era
riuscito a recuperare le somme necessarie per costituire 12 legati di
venticinque ducati d’oro ciascuno e conferirli ad alcune parenti del
benefattore.
La costruzione del monastero benedettino femminile, che
sarebbe stato intitolato a Santa Scolastica, sembra fosse iniziata intorno al
1623. Infatti il vescovo Ludovico de los Cameros, scrive nel 1663 che da circa
quarant’anni si era iniziato a costruire un edificio destinato a diventare un
monastero femminile.
Il vescovo si apprestava a chiedere il nulla osta per la
sua istituzione dopo aver verificato la funzionalità dell’edificio, ospitando
per qualche tempo alcune ragazze orfane. Quattro anni dopo lo stesso vescovo
scrive che il monastero era stato eretto e inaugurato.
Nel 1734 ospitava 29 monache professe, 4 novizie, 3 educande e 3 converse. Nel
1738 le monache erano 25 e le converse 3; tre anni più tardi il numero delle
monache era sceso a 20, quello delle converse era salito a 5. Il monastero sorgeva a fianco della chiesa
di S. Silvestro(25).
Nel 1681 il vescovo Giovanni Roano scriveva che a Bronte
c’era una casa per accogliere ragazze prive di dote, che preferivano la vita
comune ai pericoli del mondo. Poiché non si hanno altre notizie su questa
istituzione, si può avanzare l’ipotesi che si trattasse di una iniziativa
temporanea.
Le relazioni ad limina presentate dai vescovi di Monreale come fonte storica di Bronte si chiudono con quelle del vescovo
Francesco Testa, che morì nel 1773.
Infatti nel 1775 i Borboni, per poter
disporre del ricco patrimonio della chiesa di Monreale, chiesero e ottennero dal
papa che la diocesi fosse unita a quella di Palermo(26).
Bronte nella prima metà dell’Ottocento appartenne a quattro diocesi diverse:
dopo essere stata distaccata dalla diocesi di Monreale rientrò nei confini della
diocesi di Messina (1802), poi passò a Nicosia (1818) e infine a Catania (1844). Questa
circostanza spiega la difficoltà di ricorrere alle relazioni ad limina
per avere notizie su alcune istituzioni sorte dopo il 1775: il Collegio Capizzi
e il Collegio di Maria. Mi limito a fare qualche considerazione generale su
queste istituzioni, che hanno contribuito in modo rilevante per formare
l’identità del popolo di Bronte.
Nella Sicilia borbonica solo alla fine del Settecento si
incominciò a porre il problema dell’istruzione pubblica per tutti i cittadini.
Le prime iniziative non portarono a grandi risultati se si considera la bassa
percentuale delle persone che sapevano leggere e scrivere(27).
Alle carenze delle
istituzioni pubbliche supplivano i privati. A volte nelle chiese o nella case
dei religiosi si impartiva l’istruzione primaria a gruppi di ragazzi, nella
prospettiva di avviarli al sacerdozio o alla vita religiosa. A Bronte una di
queste scuole era tenuta dai sacerdoti dell’Oratorio nei locali attigui alla
chiesa S. Maria della Catena. Questa scuola nel 1718 fu frequentata dal giovane
Ignazio Capizzi, che aspirava a diventare sacerdote.
Quando, dopo molte
traversie, realizzò questa sua vocazione e avviò un fecondo ministero a Palermo,
p. Capizzi non dimenticò il suo paese di origine e nel 1759 decise di erigere un
collegio per offrire ai giovani di Bronte l’opportunità di istruirsi(28). Si
trattava di una iniziativa privata, come era privata quella dei fratelli Scafiti
e dell’arciprete Vincenzo Uccellatore, che nel 1778 decisero di fondare
il
Collegio di Maria per l’istruzione delle ragazze(29).
L’iniziativa dei fratelli Scafiti e dell’arciprete
Uccellatore faceva seguito a quella avviata nella Sicilia occidentale molti anni
prima da vescovi e feudatari. Il primo Collegio di Maria siciliano era stato
fondato a Palermo nel 1721. A partire da quella data ne erano sorti tanti altri
nelle diverse città della Sicilia. Si trattava di una istituzione che assicurava
gratuitamente alle ragazze povere l’istruzione di base e l’insegnamento delle
arti femminili (taglio, cucito, ricamo)(30).
Questa istituzione, che per oltre un secolo aveva svolto in
Sicilia un servizio meritorio di supplenza, entrò in crisi dopo l’unità
d’Italia, quando lo Stato decise di istituire le scuole pubbliche in tutti i
comuni e avviò una politica vessatoria nei confronti dei Collegi di Maria,
considerati un relitto dell’antico regime, perché promotori di una scuola
privata e confessionale; volendo affermare un modello di scuola pubblica e laica
decise di sopprimere queste istituzioni(31).
A Bronte il Collegio di Maria, per
l’azione determinante del vescovo Giuseppe Benedetto Dusmet, riuscì ad evitare
la soppressione e ad avviare la propria attività nel 1881, quando il modello
originario era stato ormai superato e si cercava una nuova identità per
adeguarsi alle nuove leggi dello Stato. Questa nuova identità fu data dalle
Figlie di Maria Ausiliatrice, chiamate dallo stesso vescovo Dusmet, come informa
nella sua relazione presentata a Roma nel 1881(32).
Conclusione
A conclusione di questa indagine necessariamente generale e
sintetica potremmo interrogarci sull’utilità di ripercorrere all’indietro la
nostra storia, in un arido elenco di avvenimenti, di personaggi e di date. Il
mondo che abbiamo rievocato potrebbe essere considerato lontano dalle nostre
persone e dalla nostra sensibilità, del tutto ininfluente sui problemi del
nostro tempo.
A ben riflettere, invece, tutti siamo il frutto di questo
passato che rimane scritto in modo indelebile in ognuno di noi. I limiti della
conoscenza e della memoria non possono mettere in discussione l’incidenza che ha
nella formazione della nostra personale identità il patrimonio genetico,
antropologico e storico; è proprio la storia che ci aiuta a superare questi
limiti.
Abbiamo visto che Bronte si è formato per il progressivo
accrescimento di una popolazione di diversa provenienza. Dobbiamo considerare
questa diversità una fonte di ricchezza. Le persone provenienti da Longi,
Tortorici, Maniace e da altri centri abitati dei Nebrodi avevano una propria
identità, ma nel corso dei secoli formarono man mano il popolo di Bronte. Questa
nuova identità fu costituita attorno alla chiesa madre, che simbolicamente
rappresenta tutte le istituzioni nella loro opera di aggregazione e di
formazione.
Le condizioni ambientali e il particolare ordinamento in cui
venne a trovarsi questa popolazione, ne determinarono la natura e il
temperamento: le eruzioni dell’Etna, le epidemie, la povertà dovuta anche al
rapporto oppressivo con l’Ospedale Grande di Palermo, l’eccessiva lontananza
dalla città capoluogo della diocesi hanno influito a creare un carattere allo
stesso tempo forte, autonomo e operoso.
Se nel passato la popolazione di Bronte fu costretta a vivere in una sorta di
autarchia e in condizione di forzato isolamento, oggi può far valere le
particolari doti della sua indole in un confronto rispettoso e arricchente con
le altre popolazioni del territorio. È l’augurio che da brontese faccio ai miei
concittadini a conclusione di questo nostro incontro.
Adolfo Longhitano |