Cenni storici sulla Città di Bronte L'Epidemia di colera |
DAGLI ALL'UNTORE!
Il linciaggio di Filippo Scoglio
Tu getti il colera e il ce la pagherai
cara
Pregiudizi o gli amici del colera
I Comandamenti del Duca Nelson
Le Regole auree del'Igiene
 Bronte alla fine
ottocento in un disegno di Agostino Attinà, ripreso dalla "Storia della Città di
Bronte" di padre Gesualdo
De Luca (Milano,
Tipografia di San Giuseppe, 1883).
Si distinguono la chiesa ed il
convento di San
Vito (a destra
in alto), la Chiesa della SS.
Trinità (la
Matrice, al centro) e quella dell'Annunziata
(sulla sinistra). |
I morti
Benedetto Radice nelle "Memorie storiche di Bronte", dopo aver
ricordato le carestie e le epidemie che funestarono la Sicilia nel XVI e nella prima metà del XVII secolo e le centinaia di migliaia
di morti scrive che «Negli
anni 1830, 1885, 1887 Bronte fu travagliato dal colera.
Nel 1830
vi morirono pochi; nel 1855 circa una cinquantina. Nel colera del
1887 in Bronte ne perirono quattrocentocinquanta;
scapparono il sindaco
Leotta ed anche gli assessori.
Fu istituita una squadra di soccorso da
Benedetto Radice, scrittore della presente memoria, della quale
facevano patte Serafino Venia, Giuseppe Luca, Sebastiano De Luca e
Luigi Longo.
Il commendatore Sorge, quale commissario regio, ebbe
vigile cura e pubblicò una memoria ove è narrato il terribile
morbo e a nome del municipio donò una pergamena a Benedetto
Radice.
Dal luglio al novembre del 1918 infierì in Bronte la grippe-spagnuola. Vi morirono circa cinquecento». |
E sempre a proposito degli "spargitori di colera" il
medico-poeta brontese Filippo Isola così scriveva
nel 1895 nel suo libro "Prosa rimata" (Adernò, Tipografia
Luigi Longhitano, 1898)
...
Per l'opinione folle che il colera
da birbi indemoniati si dispensa,
come l'ombre distendosi la sera
la gente in casa a ripararsi pensa,
tura d'usci e finestre le fessure
e rinforza ben ben le serrature.
... |
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Dal 28
Agosto del 1887 fino agli inizi del mese di Dicembre dello
stesso anno, come in altre zone dell’Italia, anche a Bronte scoppiò una
violenta epidemia di colera. A causa dell’epidemia colerica, con provvedimento Regio viene
sciolto in tale periodo il consiglio Comunale e nominato, Delegato
Straordinario con
pieni poteri, l’avv. Giuseppe Sorge.
Gli amministratori comunali per
mettersi al sicuro, presero la via dei campi; Benedetto Radice scrive che "scapparono
sindaco e assessori".
Fu costruito allo Scialandro, con tavole di legno, un apposito lazzareto
comunale e istituite cucine economiche, per il ricovero sia
degli ammalati brontesi che non avevano i mezzi per curarsi nelle proprie
abitazioni sia di chi proveniente dai paesi vicini non aveva un alloggio.
Per agevolare il transito notturno nelle strade ai coraggiosi che
assistevano gli ammalati, venne mantenuta l’illuminazione fino all’alba.
Fu aumentato il numero degli spazzini, fu vietato il lasciar vagare nelle
strade maiali e galline, come pure di tenerli nelle proprie abitazioni e
di gettare "materie immonde", che
ammorbavano l’aria, nelle vie.
Bronte, con una popolazione di circa 20.000 abitanti ebbe in quell’anno 552
casi di colera e oltre quattrocento morti.
Tra coloro che, nell’imperversare del morbo, si distinsero nell'aiutare
la popolazione sfidando pericoli e diffidenze dei popolani vanno
ricordati: lo storico Benedetto Radice (che creò una squadra di soccorso), il dott. Filippo Isola, Arcidiacono (commissario all’Igiene), il dott. Miraglia
(direttore dell’Ufficio Sanitario), il dott. Licciardelli (direttore del
Lazzareto), l’assessore avv. De Luca (successivamente sindaco di Bronte
dal 1896 al 1901), Mariano Lo Turco, Serafino
Venia, Giacomo Barnaba, Mons. Dusmet, arcivescovo di Catania, gli
onorevoli Finocchiaro Aprile e De Felice, il Duca Nelson (Alexander Nelson-Bridport, che mise a
disposizione del Comune 10 salme di frumento), il dott. Vincenzo Cervello.
Quest'ultimo, eminente professore di chimica medica, nominato dal governo
durante l’epidemia colerica Direttore sanitario per le province di
Messina e Catania, meritò anche la medaglia d’oro quale benemerito
della pubblica salute (a lui è intitolato un Ospedale di Palermo).
In quel
"luttuoso" fine anno 1887 era da poco cessata la terribile
epidemia colerica e di già iniziavano i primi
focolai di vaiolo e di febbri malariche.
La cause, oltre ai fattori naturali, erano da attribuire soprattutto alla
carenza di igiene ed all'inquinamento delle falde acquifere:
«Infatti - scriveva
il Regio
delegato straordinario avv. Giuseppe Sorge nella sua relazione al
Consiglio di Bronte letta nella tornata del 26.11.1887 - la popolazione beve l’acqua dei
pozzi che spesso si trovano accanto a pozzi neri permeabili; ha l’abitudine
di gettare le "immondezze" nelle strade con la conseguenza di
procurare l’inquinamento delle falde acquifere sotterranee, causa
principale di tutte le malattie infettive».
L'EPIDEMIA DEL 1887 Benedetto Radice ringrazia i volontari
catanesi (articolo pubblicato sulla
Gazzetta di Catania del 7 Settembre
1887, pagina Cronaca. Vedi
«Il Radice sconosciuto»,
pag. 47.) «Il ritiro delle Squadre Democratiche dalla Provincia
Bronte, 5 Settembre 1887
Verso le 4 pom. di ieri, una immensa folla plaudente, tutte le
associazioni cittadine con bandiere, le autorità, tra cui delegato
straordinario e la Croce Rossa di qui, accompagnarono,
attraversando la via principale, fino alla piazza ove sorge il
lazzaretto, la valorosa Squadra Democratica catanese, che
tante vittime aveva strappato al morbo fatale e che tanti conforti
aveva portato a Bronte.
Le fatidiche note dell'inno di Garibaldi si spandevano per l’aria
confondendosi con gli evviva che si mandavano alle Squadre
democratiche ed alla democrazia catanese, evviva emessi da mille
voci.
Era la riconoscenza di una intera città che si manifestava
entusiastica, solenne, imponente. |
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Il presidente di questa benemerita
Croce Rossa prese la parola a nome del paese ed espresse
nobili e sentite parole di riconoscenza e di affetto.
Il Capo
squadra de' volontari catanesi, il valoroso Barnaba Giordano,
commosso ringraziò il popolo contraccambiando il saluto.
Nel momento della partenza l'entusiasmo crebbe e le strette di mano
e gli abbracci di quei valorosi giovanotti furono contesi da tutti
con affetto.
Vi comunico, intanto, un indirizzo che questa Croce Rossa ha
deliberato di mandare a codeste benemerite Squadre Democratiche.
Agli amici delle Squadre Democratiche di Catania,
gli amici della Croce Rossa di Bronte.
A voi, o valorosi campioni della carità, che con gentile e
pietoso pensiero, lasciando i vostri cari, veniste tra noi a portare
il vostro aiuto, il vostro conforto, sfidando coraggiosamente e
serenamente la morte colla coscienza di compiere un nobilissimo
dovere verso l'umanità sofferente;
a voi, o strenui volontari della carità che nobilitando il viver
vostro coll'atto del più grande eroismo affermaste solennemente che
la vita ha un gran valore quando viene spesa per la salute
dell'umanità, e che il vero appellativo di eroe spetta non a chi
spegne, ma a chi conserva la vita altrui, sacrificando la propria;
a voi le mille benedizioni dei poveri generosamente e amorosamente
assistiti siano il più nobile compenso.
Voi non sedusse amor di
compre e basse lodi, non venale mercede, ma il sentimento squisito e
gentile della sventura accese i vostri nobili petti; e come perenne
sarà la memoria della fatale sciagura che travagliò il nostro paese,
perenne sarà la riconoscenza e la gratitudine nostra verso di voi.
La vostra abnegazione, il vostro sacrificio spontaneo,
disinteressato afferma vieppiù la santa idea che l’unico e
indissolubile vincolo col quale la democrazia è unita ai popoli è un
sincero, profondo e smisurato affetto verso di loro, e che l’unico,
vero e sacro retaggio che la democrazia lascia ai popoli è il
ricordo di questo sincero, profondo e smisurato affetto.
A voi, o veri seguaci del Nazareno gli amici della Croce Rossa
affratellati nella comune sventura mandano il più caldo saluto
dell'anima.
Benedetto Radice, Presidente
Giuseppe De Luca,
Sebastiano De Luca,
Luigi Longo,
Serafino Venia».
L'epidemia di colera del 1855
«Nel 1855 - scrive G. De Luca nella sua
Storia della Città di Bronte
- molti Comuni circonvicini soggiacquero al micidiale colera. In Bronte non brillava la fiducia del 1837,
(quando in un'altra epidemia di colera in Bronte si ebbe un solo
decesso, ndr) ma si udiva un mesto susurro, un freddo timore: ne saremo colpiti.
Mi faceva rammarico il confronto del primo fervore con tanta freddezza; e più il crescere delle voci:
ne saremo colpiti; ed un tal quale designarsi tempo e quartiere.
L’ultima Domenica di agosto solenne festa, sacra a Maria SS. Annunziata in Bronte, successe ai vespri il primo caso del ferale morbo, poi un caso quà, un altro là.
Durò sino a tutto ottobre. Non poterono contarsi che circa un cinquanta di veri colerosi, colpiti da fulminante o quasi fulminante colera, tra vecchi, infermi cronici, e bambini non si ebbero a piangere che poco più di cento morti.
In altre epidemie non pestilenti siamo stati addolorati da numero di morti assai maggiore.
Onde è che per Bronte grazie alla SS. Vergine il colera del 1855 fu un paterno avviso, non un desolante flagello.
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1855, Pregiudizi o Gli amici del colera
A
proposito dell'epidemia di colera del 1855 vogliamo resuscitare dall’oblio quanto narrato da Eduardo
Cimbali nel suo libro "Pregiudizi o gli amici del colera" (Roma, 1912, pagg. 69-70).
Il fatto accadde realmente e lo ricostruiamo
sulla scorta di documenti giudiziari nella pagina seguente. Il
Cimbali così lo descrive sommariamente:
"Un tale popolano, soprannominato Scoglio,
veniva pregiudizialmente considerato dagli stessi compaesani,
spargitore di colera (allo stesso modo degli "untori" di
manzoniana memoria).
Ferocemente perseguitato in tutti i luoghi, egli fece richiesta alle
autorità locali, di venire incarcerato come "volontario
prigioniero" e sfuggire così alla persecuzione. Almeno così
credeva.
Finita l’epidemia, mesi dopo, volle essere rimesso in libertà. Non l’avesse
mai fatto! Un giorno, incontrato casualmente, in una strada di
campagna, da un buon numero di cittadini venne preso a pietrate. Egli,
vistosi perduto, trasse da una borsa che teneva a tracolla (tascapane),
un pezzo di pane che cominciò a sbriciolare, gettare nella loro
direzione ed ad alta voce gridare: "Fuggite che vi avveleno,
fuggite!"
Il gruppo, subitamente spiazzato dal gesto e dalle parole dello
Scoglio, indietreggiò ma ricompattatosi decise all’unisono di
ammazzare un così malvagio e spietato uomo.
Quindi, riavutisi dallo spavento provato sul principio, gli corsero
dietro e a sassate lo fecero stramazzare morto a terra."
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1887 - I 18 Comandamenti del Duca Nelson
1. Rompere e vietare ogni comunicazione coi
paesi vicini.
2. Chiudere e tenere chiuso notte e giorno i portoni del
Castello di Maniace, e non lasciarvi entrare persone stranee ne
maestri, ne gabelloti, ne forestieri, ne amici, ne parenti
d'impiegati.
3. Sotto pena di licenziamento istantaneo sarà vietato agli impiegati di allontanarsi dai loro posti. Il primo che si
allontani sarà sul momento licenziato senza riguardo alla
persona. (...)
5. Agli impiegati sarà consegnata una bottiglia di soluzione di
canfora da prendere nel modo descritto nel foglio stampato. (...)
7. Le lettere e corrispondenza saranno messe ogni mattina nella
casa di Brancatello da una persona della Ducea abitante in
Bronte, da ove saranno prese dopo mezzogiorno da qualcheduno di
Maniace. Comunicazione personale vietata.
8. Il rinnovo di persone al Castello sarà ristrettissimo.
Quelli che si trovano, resteranno senza cambiare. Comunicazione
colle famiglie vietata.
9. Fare provviste di farina, patate e tutto ciò che potrà
abbisognare per non dovere andare altrove.
10. Agli impiegati tutti sarà dato vino. (...)
12. Sospendere la vendita del frumento per non far entrare gente
stranee in tempi pericolosi. (...)
14.Sarà sospesa la messa (...)
15. Il mangiare degli impiegati deve essere buono (...)
16. Una tazza di caffè forte è un buon disinfettante.
17. Ognuno deve portare in sacchetta un pezzo di Canfora.
18. Nel caso di dovere curare qualcheduno attaccato, mangiare
bene e non stare senza cibo.
29 Marzo 1887
A. Nelson Hood |
1887, Dagli all'untore!
Un episodio simile al cruento
omicidio di Filippo Scoglio, ucciso perchè “creduto spacciator di
veleni per propagare il colera”, avvenne anche a Maletto dove un incolpevole vittima,
tale Vincenzo Giangreco, stava per fare la stessa fine. Ecco
come racconta l'episodio Il Corriere di Catania (1887).
La ferocia del pregiudizio
Bisogna dire che la paura è più contagiosa del colera: i fatti
luttuosi di Licodia Eubea porgono la mano a quelli di Leonforte;
questi fecondano alla loro volta, e il mal seme vai a
trapiantarsi nel Comune di Maletto.
Ecco, infatti, una scena selvaggia avvenuta in Maletto il giorno
17 scorso.
Un povero contadino, per nome Vincenzo Giangreco, ad un'ora di
notte ritornava dal bosco, guidando un somaro carico di legna.
Giunte in contrada Borgalli, sente alla distanza di circa 15
passi, uno sparo di fucile, e subito dopo, due individui, armati
di fucile, lo fermano. In men che si dica, il tristo coro
sia accrebbe tanto da formare una masnada.
Dalle vicine macchie sbucavano ceffi irsuti e spaventevoli, a
cui dava un aspetto più tetro il luccichio delle lame dei
coltelli e delle scure ripercorse dai raggi lunari.
Il mal capitato contadino tremava dal capo alle piante,
piangeva, implorava la vita salva, poiché lui nulla avea
commesso.
E quellino:
- Tu getti il colera e il ce la pagherai cara.
Difatti, dalle minacce passarono subito ai fatti, e gli
fecero piovere addosso una grandine fitta di legnate da
lasciarlo mezzo morto.
Poscia lo denudarono, gli bruciarono gl’indumenti, e, scavata
una fossa, lo seppellirono vivo coprendolo di terra fino alla
gola.
Dopo ciò, la vil genia si radunò a consiglio per
decidere se dovevano condannarlo a morte ovvero lasciarlo in
libertà.
V’era chi proponeva di fucilarlo; altri diceva:
- Giacchè è propagginato fino alla gola, mettiamolli sotto anche
la testa e ci sbarazzeremo di questo infame che getta il colera,
sangue di ... (e qui una forte bestemmia).
A un tratto si alza colui che doveva essere il capo e dice:
- No, non si ammazzi; una buona lezione l'ha avuta, o speriamo
che ciò gli faccia mettere senno per l'avvenire.
E difatti, subito dopo, lo estrassero dalla fossa e lo
rimandarono a casa nudo, facendolo accompagnare da uno della
masnada.
Finora due dei manigoldi sono stati arrestati, gli altri si
diedero alla latitanza; ma speriamo che cadano presto in mano
all'Autorità giudiziaria.
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1910: Le Otto Regole auree del'Igiene
Per
dare un'idea delle condizioni igienico-sanitarie nelle quali si
trovava a vivere la popolazione brontese in quegli anni, riportiamo
di seguito un articolo dal titolo "Igiene" de "La
Voce del Popolo - Periodico democratico" (Anno I, numero 3
del 6 Marzo 1910).
Il giornale, un quindicinale diretto da Gaetano Buda e Pace
Nicolò, stampato a Bronte con redazione e amministrazione in
via Imbriani 63, dava ai lettori con un articolo firmato da
Sanitas otto regole auree per «ottenere la purezza
dell'aria, del suolo e dell’acqua».
Igiene «Una
fognatura eseguita con tutte le esatte norme tecniche è la più
essenziale opera di risanamento dei centri abitati.
Noi però in Bronte non possiamo risolvere il problema della
nettezza pubblica in termini generali, ma dobbiamo invece,
tenendo conto delle speciali condizioni topografiche ed
economiche del paese, della mancanza d'acqua e della nessuna
manutenzione delle vie, ricorrere a rimedi più idonei e più
consentanei allo stato attuale, in cui ci troviamo. C’è pel Comune di Bronte un Regolamento di Polizia Urbana e
nel primo capitolo abbiamo 39 articoli, che riflettono la
conservazione e la nettezza dei luoghi pubblici.
Noi non abbiamo visto osservato alcuno dei 39 articoli e ciò
per la completa trascuraggine del Sindaco e dell'assessore del
ramo. […] 1. Proibisca severamente il Sindaco lo
getto di materie fecali e immondezza date in ogni ora e in ogni
momento del giorno nelle pubbliche vie, ai pasto dei maiali,
come suol farsi. Non è giusto ripetere ancora «Così han fatto i
nostri nonni, così faremo noi ».
2. Ordini che tutte le materie fecali vengano da tutti quelli
che mancano di buone latrine conservate in casa, per tutto il
giorno in appositi recipienti di legno o di metallo. La stessa
igiene, la polizia sanitaria ci insegna che basta riversarvi
un po' di latte di calce, o cospargervi sopra uno strato di
cenere o gesso o polvere di carbone o terra, tutte sostanze
deodoranti, per sprigionarsi non alcun fetore.
3. Ordini alle guardie urbane di muoversi anzichè starsene al
sole o a gozzovigliare nelle bettole, di girare pel paese e
sorvegliare a che gli ordini non si trasgrediscano.
4. Obblighi l'appaltatore della spazzatura a tenere, quel
numero di carri, carrettelle che é necessario allo
smaltimento di tutte le sostanze, raccolte nelle singole case
e quel tanto d'immondizie che si possa trovare sulle vie.
5. Obblighi l'appaltatore ad avere carri e carrettelle
impermeabili, che non espandano quello che deve arrivare al
letamaio. 6. Obblighi
l'appaltatore di mandare in giro pel paese nelle prime ore del
mattino e nelle ultime della sera, i suoi uomini coi loro carri
e colle loro carrettelle perchè la gente possa riversarvi tutto
quanto ha raccolto durante il giorno.
7. Stabilisca diverse località per letamai, per facilitare
l'opera di smaltimento all'appaltatore.
8. Provveda a che i letamai siano possibilmente a fondo
impermeabile e a che il letame venga coperto di terra per
evitare che le pioggie lo diluiscano facendogli perdere molto
del suo valore, dovendosi utilizzare a scopo agricolo.
Così solo ogni singolo cittadino contribuirà a rispettare le
ordinanze della polizia sanitaria e ad usufruire della nettezza
pubblica, e così solo possiamo, ottenere la purezza dell'aria,
del suolo e dell’acqua, tanto necessaria alla salute di tutti.
[Sanitas]» |
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Il colera del 1887 a Maletto di Giorgio M. Luca
L’epidemia di colera nel 1887 colpì
l’intera provincia di Catania e parte della Sicilia provocando
migliaia di morti e gravi disagi alle popolazioni.
A Catania, da dove partì l’infezione, i casi di colera furono 2500 con
732 morti; a Bronte si ebbero 450 morti.
Tuttavia a Maletto, in
rapporto alla popolazione i casi furono più numerosi.
Infatti su una
popolazione presente di circa 3.100 unità, i decessi durante l’intero
anno 1887 furono 235, di cui almeno 110 causati dal colera e
concentrati nell’arco di tempo che va dal 9 agosto al 15 settembre,
periodo di massima intensità del contagio. Se si eccettua l’anno 1876, quando a Maletto per una precedente
epidemia i morti erano stati 262, in massima parte bambini, il 1887
rappresenta l’anno con il maggior numero di decessi di tutta la storia
della comunità malettese, nonché la più grave epidemia colerica
rispetto alle precedenti del 1855 e del 1837. Ai primi di marzo a Catania si erano avute le prime avvisaglie del
morbo. A fine giugno il colera si intensificò espandendosi in tutta la
provincia.
A Maletto l’amministrazione comunale del Sindaco Notaio Antonino
Putrino non sembrò eccessivamente preoccupata fino al 18 luglio,
quando riconobbe nella seduta straordinaria del consiglio che «nelle
attuali circostanze è in grave pericolo la pubblica salute» e
deliberò la nomina di una sottocommissione sanitaria composta dai Sigg.ri: don Biagio Palermo, don Mariano Sgro, dott. Savoca Carmelo,
Antonino Bonina, Saverio Battaglia e Francesco Luca «...per
studiare come conservare la pubblica salute ed adottare quelle misure
che crederà necessarie...».
La Commissione però non ebbe modo di fornire un concreto
contributo perché superata dall’incalzare del contagio e
dall’immobilismo dell’amministrazione.
Infatti come in molti altri
centri,la maggiore parte degli amministratori fuggirono dal centro
abitato per paura della malattia.
Il consiglio comunale tenne l’ultima
seduta il 30 luglio, sotto la presidenza di don Filippo Fiorini.
Pochi
i consiglieri presenti: Antonino Fiorini, Paolo La Piana, Giuseppe Calì, Antonino Putrino, Vincenzo Saitta, Luigi Grupposo, Giuseppe
Gangi, Giuseppe Spatafora. La seduta, essendo insufficienti il numero
dei consiglieri, venne dichiarata deserta.
Scappò anche l’unico medico
presente nel paese, il dott. Carmelo Savoca di Malvagna,
“vigliaccamente assentato”, che per questo sarà condannato dal
Pretore a L. 100 di multa e a tre mesi di sospensione dalla
professione.
Così come era successo per Catania un mese prima, il 14 agosto il
Prefetto Colmayer sciolse il consiglio comunale e nominò Regio
Delegato Straordinario l’Avv. Francesco Meoli che giunse a Maletto
qualche giorno dopo.
Vi trovò una situazione disperata: assente ogni forma di autorità, i
numerosi cadaveri giacevano insepolti nelle loro misere case, infatti
il cimitero della Chiesa di S. Antonio era ormai incapace a contenerli
e peraltro non c’era nessuno che si occupasse di tale dolorosa
incombenza.
La popolazione terrorizzata, in preda alla malattia che
non risparmiava nessuna famiglia e in preda alla fame, con la poca
acqua disponibile inquinata sotto una calura estiva insopportabile si
era allontanata in massima parte dal paese.
«...Triste episodio di un’altra epoca triste, in cui la
superstizione e la sventura avevano spento la carità e l’umanità
insieme.» Come scrisse il Verga.
Infatti l’ignoranza e la superstizione induceva a ritenere, come era
accaduto in epoche precedenti, che il colera “u quàrere”, fosse
opera di fantomatici untori che spargevano sostanze misteriose per
diffondere il contagio.
La credulità popolare riteneva che tali untori
misteriosi fossero o i preti che all’epoca erano il Sac. Antonino
Schilirò, Vicario Foraneo, il Sac. Antonino Portale e il Sac. Giuseppe
Calì o addirittura i medici, detentori di una scienza inaccessibile
alla stragrande maggioranza dei cittadini,completamente analfabeti.
Tale circostanza si ripeterà anche durante l’epidemia di grippe
spagnola del 1917, quando verrà ritenuto responsabile il medico
condotto dott. Foti di somministrare, a seconda delle simpatie o
antipatie personali, un farmaco oppure un’altro, per fare vivere o
morire i colpiti dall’epidemia.
Le condizioni igieniche pubbliche e private spaventose: esseri umani
ridotti a spettri che si aggiravano senza meta per le case e le vie,
ricolme di rifiuti e di escrementi umani ed animali, in preda alla
disperazione.
Non c’era tempo da perdere per l’Avv. Meoli, che si
dimostrò all’altezza della situazione.
Nominò
subito il dott. Leopoldo Zappia da Bronte medico condotto
straordinario;
stante le urgenti circostanze adibì il terreno circostante alla
Chiesa del Carmine a cimitero provvisorio, dividendolo in due parti:
una per i morti di colera e l’altra per le malattie comuni.
Fece
circondare l’intera zona con apposita recinzione onde impedire
l’avvicinamento di persone ed il transito di animali. Il lavoro fu
prontamente eseguito dal falegname Antonino Antonuccio;
istituì un lazzaretto per i colerosi, ove lui personalmente ed altri
volontari prestarono la propria opera, a rischio della vita;
istituì, altresì, una cucina economica nella quale vennero
distribuite gratuitamente razioni di pane, carne e brodo per gli
ammalati ed i convalescenti;
incaricò per il trasporto dei cadaveri al cimitero provvisorio il
carrettiere Antonino Errigo, detto “pernice”, i becchini Angelo
Pettina e Giuseppe Adornetto ed altri operai straordinari per
l’escavazione delle fosse ed i sotterramenti che per oltre un mese di
susseguirono al ritmo di tre, quattro al giorno;
elargì contributi e sussidi
comunali ai poveri ed agli ammalati, dando anche elemosine personali
per sollevare le condizioni materiali e morali dei superstiti.
Da Catania il Prefetto inviò squadre di disinfettatori e due medici
straordinari per i colerosi: il dott. Licciandello e Citilli.
Giunsero anche contributi in denaro da parte di numerose autorità: il
re Umberto L. 1.700, il Prefetto L. 500, la Camera di Commercio L.
100, l’On. Camillo Finocchiaro Aprile, R. Delegato Straordinario del
Comune di Catania, L. 100, l’Arcivescovo Dusmet L. 100, l’On. Nicolosi
L.100.
Il futuro Card. Dusmet che molto si era prodigato per aiutare la
popolazione di Catania e provincia colpita dal colera, sarà decorato
con la medaglia d’oro per benemerenza della salute pubblica.
In questi frangenti, sotto la spinta e l’esempio dell’Avv. Meoli,
numerosi cittadini prestarono la loro opera volontaria, fra i quali
vengono ricordati:
- il vice segretario del Comune don Giuseppe Petrina che prestando
assiduo servizio negli uffici del Comune e principalmente allo Stato
Civile, consentì la puntuale iscrizione di tutti gli atti di morte;
- il giovane Mariano Petrina che diede una pubblica prova di
abnegazione e di coraggio sia nello apprestare ai colerosi i soccorsi
prescritti dal medico sia facendo anche da infermiere. agli ammalati
pia gravi, senza curarsi del pericolo di contagio; per la sua opera
sarà espressa dal nuovo consiglio comunale una pubblica lode che lo
segnalerà alla pubblica ammirazione od esempio;
- la guardia municipale Vincenzo Caruso e campestre Antonino Cali, che
prestarono servizi straordinari per le inumazioni dei cadaveri e nella
vigilanza per l’esecuzione dei provvedimenti per la pubblica igiene;
- diversi altri cittadini che diedero la loro opera per fare ritornare
Maletto alla normalità.
A metà settembre la virulenza del vibriòne colerigeno sembrò placarsi,
per cui i cittadini incominciarono a rientrare nelle proprie case.
A fine mese la vita sembrò tornare alla normalità.
Però col ritorno
della gente in paese “si sviluppano immense e pericolose malattie
per le quali era compromessa la vita della massima parte della
popolazione”, come è scritto in un rapporto del tempo che vennero
denominate “febbri palustri”.
Si temette una ricomparsa del colera o di altre epidemie;
probabilmente erano infezioni che con facilità attecchivano in
organismi già debilitati, denutriti che sopravvivevano in precarie
condizioni igieniche.
Tuttavia, ciò indusse, come ultimo suo provvedimento, il R. Delegato
Avv. Meoli, ad istituire il posto di medico condotto comunale, che
sarà il Dott. Zappia, già medico straordinario per il colera.
Da
allora Maletto avrà ininterrottamente l’assistenza medica assicurata
dalla condotta comunale.
Il 23 ottobre si tennero le elezioni amministrative e il 28 il nuovo
consiglio comunale venne insediato.
Dopo l’elezione della nuova Giunta
Municipale, formata da don Filippo Fiorini, don Rosario Palermo,
Luigi Grupposo e Giuseppe Spadafora, il consiglio comunale esprimette
in pubblica seduta una lode al delegato straordinario che cessava
dall’incarico, per il suo operato durante il colera, deliberando di «dichiararsi
meritevole dei più sentiti encomi e della più sincera deferenza l’avv.
Francesco Meoli, la cui memoria resterà scolpita nel cuore di questi
cittadini».
Riprese così, dalla fine di ottobre di quel terribile anno
1887, la normale vita dei malettesi, alle prese con le proprie misere
condizioni economiche e l’indigenza della massima parte di essi, che
tuttavia, superato il triste episodio del colera, continueranno ad
andare avanti
Giorgio M. Luca
Maletto, ottobre 1993 P.S.: In occasione del censimento della popolazione del 2001,
a Maletto è stata
intitolata una strada all’Avv. Francesco Meoli. |
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