Niente si è
saputo a Bronte del processo a Bixio celebrato il 5 febbraio
dell’anno scorso a Milano, trent’anni dopo quello tenuto
al collegio Capizzi.
Padre Giuseppe Zingale (già rettore
dell’istituto nel quale il luogotenente di Garibaldi avrebbe
pernottato), costretto a 97 anni su una sedia a rotelle, ama
lasciarsi condurre, unico inquilino, tra i lunghissimi corridoi
ormai semideserti e sempre torna a sostare nel vasto auditorium
che rivede gremito come nell’ottobre 1985, quando una giuria di
storici e giuristi assolse Bixio del massacro di cinque rivoltosi,
così come un anno fa ha sentenziato l’altrettanto autorevole
tribunale milanese.
Non poteva finire diversamente: nell’una e nell’altra assise
l’imputato è stato quello sbagliato, perché Bixio non applicò
che il codice di guerra e non obbedì che a una precisa
disposizione.
Il vero accusato avrebbe dovuto essere semmai Garibaldi, che
l’ordine di una punizione immediata ed esemplare impartì senza
scrupoli ubbidendo a sua volta a una
perentoria imposizione del
consolato inglese cui si
rivolsero i proprietari della britannica Ducea di Nelson nel timore che le terre rivendicate dai “villici” fossero anche
le loro.
Don Zingale ricorda bene i giorni del “processo”, che fu
appassionato, clamoroso e dagli echi nazionali.
A ricordarglielo
dopotutto, all’ingresso dell’auditorium, campeggiano ancora i
poster a muro dell’evento insieme con l’avviso e il proclama che
Bixio fece affiggere in paese e i cui originali biancheggiano a
bella vista nella Biblioteca borbonica annessa al collegio.
Se non bastassero, troneggia anche un pezzo unico in Sicilia:
il ritratto gigante di
Ferdinando II che mani sicuramente borboniche portarono
da Palermo a Bronte e che qualche anno fa seguaci
duosiciliani sono venuti religiosamente a visitare
celebrando pure un rito.
«Tanta gente ci fu allora qua dentro» ricorda don Zingale. La
stessa gente che in verità, se processo doveva essere, non
poteva che salire essa stessa sul banco degli imputati
raggiungendo Garibaldi, perché fu il notabilato di Bronte a
consegnare a Bixio i capi della rivolta, né supposti né
sospettati, ma scelti tra i reprobi, fra cui
l’avvocato liberale
Nicolò Lombardo e lo scemo del paese, reo di dileggiare tutti,
galantuomini compresi.
Grazie a loro, a perpetuo monito contro nuove jacquerie, venne
intestata a Bixio una via, non a caso proprio di fronte
la
chiesa di San Vito, sul cui piano i presunti rivoltosi
furono fucilati. Naturalmente anche Garibaldi ebbe la sua via,
ben più centrale, nonché re Umberto che intitola addirittura il
corso principale.
Una parte di Bronte scagionò dunque Bixio già 125 anni prima che
venisse sottoposto al giudizio della storia.
Ma l’altra metà lo
ha ritenuto, a ragione, colpevole quantomeno di lesa umanità, la
stessa accusa che Bixio mosse al paese e che «brucia ancora», a
dire del giovane presidente della Proloco Dario Longhitano, per
il quale il processo a Bixio non è mai finito.
Un po’ anche per
questo, permanendo la divisione delle coscienze, via Nino Bixio
- istituita per puntiglio proprio lì, nel luogo del martirio e
della sepoltura in via Campo dei fiori - non poteva durare.
E
così quattro anni fa l’allora sindaco Pino Firrarello l’ha
fatta rinominare (ancorché nella zona venga ancora chiamata
come prima) mettendo fine a un affronto diretto anche al
monumento in ferro inaugurato nel 1985 in concomitanza del
“processo” e posto ai piedi della collina di San Vito, in faccia
alla via stretta e famigerata.
Opera dell’artista locale
Domenico Girbino, il monumento raffigura in uno stato di totale
abbandono, di ruggine e in mezzo alle erbacce, un uomo cadente
appena fucilato, chiuso in una gabbia di cerchi, metafora della
libertà mancata.
Libertà è una parola chiave a Bronte.
Nel film del 1972 di Vancini “Bronte, Cronaca di un massacro”, l’avvocato Lombardo
spiega a un ufficiale garibaldino che in Sicilia è sinonimo di
pane e di giustizia: «Quando voi “dite di portare la libertà, la
gente intende la terra».
In nome della terra promessa da Garibaldi
i brontesi
massacrarono infatti sedici “sorci”: pensarono di ribellarsi
ai loro oppressori e di meritare senz’altro l’elogio del
dittatore, ma non capirono che, al pari della libertà, anche il
concetto di oppressione si prestava a significati divergenti,
come quello di rivoluzione.
Furono certamente le interpretazioni date alle parole a segnare
“i fatti di Bronte”, deliberatamente mai meglio definiti perché
rimanessero nel generico.
L’equivoco non è cessato. La vecchia via Bixio è stata infatti
capziosamente chiamata “via Libertà”: a perpetuo fraintendimento
dunque - come del resto suonano le epigrafi del monumento
ferreo e delle lapidi murate nel 2010 a San Vito.
In una delle due i nomi di “cappelli” e “berretti” sono
riportati insieme perché riconosciuti tutti «vittime del cruento
eccidio», dando perciò pure alla parola “eccidio” un ulteriore
duplice riferimento: salvo nell’altra lapide specificare che
«vittime di una giustizia sommaria, applicata in guerra in nome
di una presunta ragione di Stato», furono i cinque brontesi
fucilati.
Che in sovrappiù sono ricordati nel cippo monumentale
con parole altrettanto ambigue ed enigmatiche: «Ad perpetuam rei
memoriam, che nell’agosto 1860 donò di cittadini brontesi la
vita in olocausto».
Parole dettate dall’intento di non irritare la vecchia classe
“ducale” contrapposta a quella detta “comunista”, le due anime
storiche di una città che ha avuto allo stesso tempo vittime e
carnefici con i cui spettri non ha smesso di confrontarsi.
Ma per Franco Cimbali, storico del Risorgimento e ultimo erede
di una cospicua famiglia di fede regia, «nessuno oggi ha
interesse a riesumare quei fatti. Nemmeno la scuola».
Se ne è occupato invece uno studioso revisionista catanese,
Placido Altimari, che quest’anno ha pubblicato un libro,
Bronte, dove riconduce “i fatti” alle multireiterate ragioni di
una crudele guerra di sopraffazione della Sicilia.
Per un altro aspetto se ne è occupato anche Leonardo Sciascia
che ha letto in una nuova luce la novella intitolata in maniera
antifrastica giustappunto “Libertà” di Giovanni Verga.
Lo
scrittore etneo spacciò lo scemo passato per le armi per un nano
e ignorò del tutto Nicolò Lombardo: due colpe gravi, secondo
Sciascia, mistificazioni intenzionali montate a tutto vantaggio
del suo ceto di appartenenza, perché parlare di nano e non di
pazzo significava, «dissimulando in una menomazione fisica una
menomazione mentale», incolpare un «essere pieno di malizia e di
cattiveria» e non chi è «investito di sacertà» e perché tacere
di Lombardo significava tenere all’oscuro i catanesi che ben lo
conoscevano come fervente antiborbonico, a differenza dei suoi
delatori tutti legati ai nemici di Garibaldi.
Dopo 156 anni rimane dell’eccidio l’opinione condivisa che,
conquistata ormai la Sicilia e sul punto di lasciarla, Garibaldi
avrebbe ben potuto mostrarsi indulgente con i siciliani non solo
di Bronte ma di molti altri Comuni etnei che si erano sollevati
usando i suoi mezzi e confidando sui suoi decreti.
Quando due anni dopo il generale tornerà in Sicilia, il processo
ai veri rivoltosi (che diede apertamente al primo il senso di
una decimazione) sarà in pieno svolgimento e si concluderà
l’anno dopo con 37 condanne anche all’ergastolo.
Naturalmente
Garibaldi si guarderà bene dal passare da Bronte e dagli altri
paesi normalizzati dà Bixio, forse perché consapevole o forse no
di aver posto la sua firma alla prima strage di Stato della
nuova Italia.
Gianni Bonina |