I Fatti del 1860

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Reportage / Sulle orme dei garibaldini - L’Isola in camicia rossa

L’epilogo dell’impresa dei Mille in Sicilia è amaro e la cittadina catanese lo ricorda ancora: il nome di Nino Bixio è stato cancellato dalla toponomastica

Bronte, la strage insensata

I MILLE A BRONTE NELL'ILLUSTRAZIONE DI GIANNI ALLEGRAL’accusa: Il fedelissimo del generale accusò i brontesi di lesa umanità. E l’insulto dicono in paese che brucia ancora - Lo storico: Nessuno oggi avrebbe interesse a riesumare quei fatti. Nemmeno la scuola

Niente si è saputo a Bronte del proces­so a Bixio celebrato il 5 febbraio dell’anno scorso a Milano, trent’anni dopo quello tenuto al collegio Capizzi.

Padre Giuseppe Zingale (già rettore dell’istituto nel quale il luogotenente di Garibaldi avrebbe pernottato), costretto a 97 anni su una sedia a rotelle, ama lasciarsi condurre, unico inquilino, tra i lunghissimi corridoi ormai semideserti e sempre torna a sostare nel vasto audi­torium che rivede gremito come nell’ot­tobre 1985, quando una giuria di storici e giuristi assolse Bixio del massacro di cinque rivoltosi, così come un anno fa ha sentenziato l’altrettanto autorevole tribunale milanese.

Non poteva finire diversamente: nell’una e nell’altra assise l’imputato è stato quello sbagliato, perché Bixio non applicò che il codice di guerra e non obbedì che a una precisa disposizione.

Il vero accusato avrebbe dovuto essere semmai Garibaldi, che l’ordine di una punizione immediata ed esemplare impartì senza scrupoli ubbidendo a sua volta a una perentoria imposizione del consolato inglese cui si rivolsero i proprietari della britannica Ducea di Nelson nel timore che le terre rivendicate dai “villici” fossero anche le loro.

Don Zingale ricorda bene i giorni del “processo”, che fu appassionato, clamoroso e dagli echi nazionali.

A ricordarglielo dopotutto, all’ingresso dell’auditorium, campeggiano ancora i poster a muro dell’evento insieme con l’avviso e il proclama che Bixio fece affiggere in paese e i cui originali biancheggiano a bella vista nella Biblioteca borbonica annessa al collegio.

Se non bastassero, troneggia anche un pezzo unico in Sicilia: il ritratto gigante di Ferdinando II che mani sicuramente borboniche portarono da Palermo a Bronte e che qualche anno fa seguaci duosiciliani sono venuti religiosamente a visitare celebrando pure un rito.

«Tanta gente ci fu allora qua dentro» ricorda don Zingale. La stessa gente che in verità, se processo doveva essere, non poteva che salire essa stessa sul banco degli imputati raggiungendo Garibaldi, perché fu il notabilato di Bronte a consegnare a Bixio i capi della rivolta, né supposti né sospettati, ma scelti tra i reprobi, fra cui l’avvocato liberale Nicolò Lombardo e lo scemo del paese, reo di dileggiare tutti, galantuomini compresi.

Grazie a loro, a perpetuo monito contro nuove jacquerie, venne intestata a Bixio una via, non a caso proprio di fronte la chiesa di San Vito, sul cui piano i presunti rivoltosi furono fucilati. Naturalmente anche Garibaldi ebbe la sua via, ben più centrale, nonché re Umberto che intitola addirittura il corso principale.

Una parte di Bronte scagionò dunque Bixio già 125 anni prima che venisse sottoposto al giudizio della storia.

Ma l’altra metà lo ha ritenuto, a ragione, colpevole quantomeno di lesa umanità, la stes­sa accusa che Bixio mosse al paese e che «brucia ancora», a dire del giovane presidente della Proloco Dario Longhitano, per il quale il processo a Bixio non è mai finito.

Un po’ anche per questo, permanendo la divisione delle coscienze, via Nino Bixio - isti­tuita per puntiglio proprio lì, nel luogo del martirio e della sepoltura in via Campo dei fiori - non poteva durare.

E così quattro anni fa l’allora sindaco Pino Firra­rello l’ha fatta rinomi­nare (ancorché nella zona venga ancora chiamata come prima) mettendo fine a un af­fronto diretto anche al monumento in ferro inaugurato nel 1985 in concomitanza del “processo” e posto ai piedi della collina di San Vito, in faccia alla via stretta e famigerata.

Opera dell’artista locale Domenico Girbino, il mo­nu­mento raffigura in uno stato di totale abban­dono, di ruggine e in mezzo alle erbacce, un uomo cadente appena fucilato, chiuso in una gabbia di cerchi, metafora della libertà mancata.

Libertà è una parola chiave a Bronte.

Nel film del 1972 di Vancini “Bronte, Cronaca di un massacro”, l’avvocato Lombardo spiega a un ufficiale garibaldino che in Sicilia è sinonimo di pane e di giustizia: «Quando voi “dite di portare la libertà, la gente intende la terra».

In nome della terra promessa da Garibaldi i brontesi massacrarono infatti sedici “sorci”: pensarono di ribellarsi ai loro oppressori e di meritare senz’altro l’elogio del dittatore, ma non capirono che, al pari della libertà, anche il concetto di oppressione si prestava a significati divergenti, come quello di rivoluzione.

Furono certamente le interpretazioni date alle parole a segnare “i fatti di Bronte”, delibera­ta­mente mai meglio definiti perché rimanessero nel generico.

L’equivoco non è cessato. La vecchia via Bixio è stata infatti capziosa­mente chiamata “via Libertà”: a perpetuo fraintendimento dunque - come del resto suonano le epigrafi del monumento ferreo e delle lapidi murate nel 2010 a San Vito.

In una delle due i nomi di “cappelli” e “berretti” sono riportati insieme perché riconosciuti tutti «vittime del cruento eccidio», dando perciò pure alla parola “eccidio” un ulteriore duplice riferimento: salvo nell’altra lapide specificare che «vittime di una giustizia som­maria, applicata in guerra in nome di una presunta ragione di Stato», furono i cinque brontesi fucilati.

Che in sovrappiù sono ricordati nel cippo monumentale con parole altret­tanto ambigue ed enigmatiche: «Ad perpetuam rei memoriam, che nel­l’agosto 1860 donò di cittadini brontesi la vita in olocausto».

Parole dettate dall’intento di non irritare la vecchia classe “ducale” con­trapposta a quella detta “comunista”, le due anime storiche di una città che ha avuto allo stesso tempo vittime e carnefici con i cui spettri non ha smesso di confrontarsi.

Ma per Franco Cimbali, storico del Risorgimento e ultimo erede di una cospicua famiglia di fede regia, «nessuno oggi ha interesse a riesumare quei fatti. Nemmeno la scuola».

Se ne è occupato invece uno studioso revisionista catanese, Placido Altimari, che quest’anno ha pubblicato un libro, Bronte, dove riconduce “i fatti” alle multireiterate ragioni di una crudele guerra di sopraffazione della Sicilia.

Per un altro aspetto se ne è occupato anche Leonardo Sciascia che ha letto in una nuova luce la novella intitolata in maniera antifrastica giustappunto “Libertà” di Giovanni Verga.

Lo scrittore etneo spacciò lo scemo passato per le armi per un nano e ignorò del tutto Nicolò Lombardo: due colpe gravi, secondo Sciascia, mistificazioni intenzionali montate a tutto vantaggio del suo ceto di appartenenza, perché parlare di nano e non di pazzo significava, «dissimulando in una menomazione fisica una menomazione mentale», incolpare un «essere pieno di malizia e di cattiveria» e non chi è «investito di sacertà» e perché tacere di Lombardo significava tenere all’oscuro i catanesi che ben lo conoscevano come fervente antiborbonico, a differenza dei suoi delatori tutti legati ai nemici di Garibaldi.

Dopo 156 anni rimane dell’eccidio l’opinione condivisa che, conquistata ormai la Sicilia e sul punto di lasciarla, Garibaldi avrebbe ben potuto mostrarsi indulgente con i siciliani non solo di Bronte ma di molti altri Comuni etnei che si erano sollevati usando i suoi mezzi e confidando sui suoi decreti.

Quando due anni dopo il generale tornerà in Sicilia, il processo ai veri rivoltosi (che diede apertamente al primo il senso di una decimazione) sarà in pieno svolgimento e si concluderà l’anno dopo con 37 condanne anche all’ergastolo.

Naturalmente Garibaldi si guarderà bene dal passare da Bronte e dagli altri paesi normalizzati dà Bixio, forse perché consapevole o forse no di aver posto la sua firma alla prima strage di Stato della nuova Italia.

 

GIANNI BONINAL'articolo a firma del giornalista e scrit­tore Gianni Bonina (Adrano, 1953), è tratto dal quo­tidiano La Re­pubblica (Palermo, do­me­nica 11 Set­tembre 2016).

Gianni Bonina, autore di libri-inchiesta, testi teatrali, roman­zi e sag­gi letterari, è stato colla­bo­ratore di diver­se testate regionali e nazio­nali, oggi scrive su “La Repub­blica” di Palermo.

Vive a Catania; per la sua attività di giorna­li­sta è stato insignito di numerosi riconoscimenti.

 

La storia
Quel processo sommario e l’altro volto del dittatore

Allo sbarco dei Mille la popolazione di Bronte era di­vi­sa in due fazioni: da un lato i “Comu­nisti” o Comu­nali (capeggiati dall’avvocato Ni­colò Lom­bar­do), dall’altro i i «Civili» o Ducali amici del Duca Nelson e difensori delle sue prerogative.

Con decreto del 2 giugno Garibaldi aveva pro­mes­so la divisione delle terre, il 14 Maggio aveva ordinato lo scioglimento e la ricostitu­zione dei Consigli civici e la formazione della Guardia Na­zionale e con un altro de­creto del 17 giugno esclu­deva dai consigli tutti i favo­reg­giatori diretti e indiretti della restau­razione borbonica.

Speranze deluse e malcontenti antichi e nuovi si era­no accumulati senza sosta e si trasforma­vano ora in in­gre­dienti esplosivi, pronti a pro­durre defla­gra­zioni e guasti. I contadini, male inter­pretando lo spirito che ani­ma­va la spedi­zione garibaldina in Sicilia, sce­sero in piazza ar­mati fomentando disordini e creando un cli­ma di terrore per diversi giorni.
Sedici le vittime della rivolta.

Tra il 4 e il 5 agosto arri­varono a Bronte i mili­tari della Guardia nazionale e un battaglione di artiglie­ria. Gli animi si placarono.

Il 6 agosto vi giunse Nino Bixio, inviato da Ga­ri­bal­di, che diede vita a un processo sommario per il quale vennero condan­nati a morte Nicolò Lombardo, Nun­zio Spitaleri Nunno, Nunzio Sam­peri Spiridione, Nun­zio Lon­ghi­tano Longi e Nunzio Ciraldo Fraiunco addi­tati come i pro­vo­catori dei saccheggi e delle uccisioni.

La sentenza di morte venne eseguita all’alba del 10 agosto 1860: i cinque venivano fucilati in pre­senza di tutta la popolazione nella piaz­zet­ta anti­stante la Chiesa di San Vito.

 

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I Fatti di Bronte
Dopo il 1848 il Comune non distribuì le terre

L'opinione dello storico Salvatore Lupo

La mancata distri­buzione delle terre portò ad un'enorme ac­centuazione di ten­sioni sociali che esplosero nel 1860 quan­do con lo sbar­co di Garibaldi in Sicilia la restaura­zione bor­bonica finisce.

Salvatore Lupo (Siena, 7 luglio 1951), professore ordina­rio di storia con­tem­poranea all'Università di Palermo e pre­ce­den­temente docen­te di Storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Catania, è tra i maggiori sto­rici attuali. E' presidente del­l’IMES, vice­diret­tore della rivi­sta Meridiana, nonché autore di nume­rose pub­bli­cazioni sul feno­meno crimi­noso e di storia contemporanea.

Gianni Bonina


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