Nella Grangia della Ricchisgia esisteva un mulino ad acqua, la fabbrica della carta paglia ed una struttura (il "paratore") per fare il drappo di lana (ruvido tessuto dal filato irregolare simile all’orbace, di storica memoria fascista) la cui rifinitura facciale veniva fatta a mano dai telai esistenti allora a Bronte. I drappi erano venduti anche a Palermo e nei paesi circostanti, trasportati nell'autunno di ogni anno coi carretti o a dorso di carovane di muli, attraversando la Reggia trazzera che passava dal Feudo Cattaino e attraversando i boschi giungeva alla spiaggia della Capitale siciliana. «Il viaggio - scrive Antonino Cimbali in Ricordi e Lettere ai figli - non durò meno di dieci giorni, sia perchè i carri erano stracarichi sia perchè le continue pioggie ci impedivano di proseguire regolarmente». Il Cimbali, futuro sindaco di Bronte, per recarsi a Palermo aveva trovato posto su uno dei numerosi carri carichi di drappo che nell'autunno del 1843 partivano da Bronte alla volta della capitale siciliana. A Bronte, la lavorazione di questa grossa stoffa di lana da contadini, il drappo, aveva tradizioni molto antiche legate all’esercizio della pastorizia. Si produceva fin dalla riunione dei Casali voluta da Carlo V nel 1535 come vuole una leggenda che narra del baratto della statua della nostra Patrona, l’Annunziata, con varie pezze di drappo di lana; la continuità di questa tradizione laniera è poi confermata dai riveli del 1714. Tale attività non riuscì tuttavia a evolversi in una vera produzione industriale. E’ indicativo il fatto che nella Grangia della Ricchisgia tale arte manifatturiera non fosse praticata in modo esclusivo, ma insieme ad altre attività, come la fabbricazione della carta o la produzione della seta e del lino. Limitrofo al convento dei monaci della Ricchisgia, nella tenuta di Marotta, tutta coltivata a melograni, i Baroni di Pisciagrò (feudo in quel di Randazzo) fecero costruire pure un palmento (le cui rovine ancora esistono) che, con la preziosa collaborazione dei vicini frati contadini, estraeva dai frutti un vino liquoroso che era pure esportato. Un po di storia
La Grangia della Ricchisgia dipendeva dall’Abbazia benedettina di Santa Maria di Maniace, e ne seguì nei secoli tutte le ingiuste e travagliate sorti: nel 1494, Papa Innocenzo VIII la diede in dotazione a titolo gratuito all’erigendo "Ospedale Grande e Nuovo dei Poveri" di Palermo. Tre secoli dopo, nel 1799, l’Abbazia subì un secondo illecito trasferimento (questa volta sotto forma di donativo regale) ad opera del sovrano borbonico del momento, re Ferdinando I delle Due Sicilie, a favore di Horatio Nelson quale premio per aver soffocato nel sangue la nascente "Repubblica Partenopea". Il convento fu eretto, su una struttura esistente di probabile origine araba, a spese dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, che era proprietario in Bronte, oltre dell'abbazia di Maniace, di ben 13.963 ettari di terreni, dei beni dell’abbazia di S. Filippo di Fragalà, come pure dei feudi di Grappidà, Gollia, Masseria di S. Giovanni ed altri, tutti nel territorio di Bronte. Nel tempo la tenuta Ricchisgia l’ebbe in gabella il barone di Pisciagrò, don Vincenzo Meli Papotto, il quale vantando anche lui secolari diritti di proprietà, si rifiutò di pagare il canone (gabella) sia all’Ospedale di Palermo come pure alla Ducea Nelson che - come scrive il V° Duca nel suo "The Duchy of Bronte" - vi aveva piantato circa 23.000 piante di arance. Ne nacque così una lunga lite che finì con la vittoria dei Nelson, i quali espropriarono agli eredi pure i beni del "mafioso" Barone (la definizione è del Duca): l’agrumeto nel feudo Marotta, il palazzo baronale in via Scafiti, il palazzo di via Manzoni (un tempo sede della Caserma dei Carabinieri) costruito nel 1642, altre case urbane, un esteso vigneto in contrada Serra-Stivala, molti feudi di cui uno alle falde dell’Etna. La causa, come risulta dalle centinaia di atti giudiziari raccolti in decine di faldoni dell'archivio Nelson, si trascinò per quasi un secolo ma i Nelson alla fine, principalmente per la firma del Re borbone nella donazione del 1799 ad Horatio Nelson, l'ebbero vinta. Il povero barone di Pisciagrò, ed anche i suoi discendenti compresi i pronipoti, lottarono strenuamente ma, ora assolti ora condannati nei vari gradi di giudizio, alla fine furono ridotti in miseria. Il Barone Don Vincenzo era ben conosciuto a Bronte dove, fra l'altro, faceva anche parte della Deputazione che reggeva le sorti del Real Collegio Capizzi. Dall'aspetto signorile, portava baffi e pizzetto ed amava vestire con giacca di pelle, stivali fino alla coscia, cilindro e guanti. Così è stato ritrovato quando, nel Convento dei pp. Cappuccini, è stata rimossa nel 1960 la sua tomba. Giova, infine, ricordare, con le parole del compianto studioso e amante della storia brontese Francesco Longhitano Checco (morto nel 1984, negli anni '50 sovrintendente onorario delle biblioteche brontesi), che l'antica cartiera sul fiume Simeto di contrada Ricchisgia oggi è di proprietà del sig. Giuseppe Carastro, "il quale con tanta passione cerca di strappare, dall’oblio del tempo, tutto ciò che in quel pio e laborioso luogo, posto sulle rive dello scrosciante Simeto, fra il fruscio degli annosi salici, è ancora testimone della storia del passato". L’ultima fabbrica della carta
La fabbrica della carta di Contrada Ricchisgia o Malpertuso fu ripresa, nella vecchia cartiera araba, attorno al secondo decennio del 1800. Il processo di lavorazione iniziava attraverso il riciclaggio di stracci (o cenci di cotono, lino, canapa) che venivano gettati entro capienti recipienti, perlopiù scavati nella roccia lavica, o appositamente costruiti e incorniciati con cemento, malta e altri leganti atti ad impermeabilizzare le pareti come pure le basi. Le vasche, o tini, erano riempiti d’acqua che aveva la funzione di far macerare il tutto grazie al moto assicurato dai folloni (specie di grossi martelli lignei) che battevano in continuazione con movimenti cadenzati e rendevano il tutto una pasta omogenea, completamente sbriciolata, pronta per la successiva lavorazione. A questo punto veniva aggiunto del collante che dava all’impasto un certo grado di consistenza ed impermeabilità. L’impasto così ottenuto, nella giusta consistenza, era posto dentro crivelli finemente bucherellati ed aventi lo scopo di fare colare i liquidi, e formare uno strato (un foglio) di spessore e dimensioni variabili. Per ottenere lo spessore voluto i fogli venivano pressati e successivamente messi ad essiccare, allo stesso modo del bucato steso al sole. Per l’imbiancatura degli stracci potevano usare calce o "liscivia" di cenere. Spesso per una carta più corposa e ruvida si aggiungeva la paglia che le dava un colore giallino (la cosiddetta cartapaglia, utilizzata ancora fino agli anni cinquanta dai negozianti brontesi ("i buticari") per avvolgere carne, pasta, conserve varie, ecc.). Naturalmente il processo sopra descritto, assieme alle altre fasi di lavorazione, erano veri e propri "segreti industriali" celati ai più, tramandati da padre in figlio e da non divulgare, assolutamente ad altri. Com'è oggi
Negli ultimi decenni, metà del primo piano ed il loggiato (dove veniva messa ad asciugare la carta) è andato in rovina e sono rimaste una decina di cellette, alcune trasformate in servizi igienici. Nello spiazzale antistante è stata costruita una tettoia (collegata al tetto dell'antica chiesetta) e, accanto, una rimessa. Le finestre delle celle sono state trasformate in porte. L'antica grangia basiliana ha poi subito continui furti, devastazioni e veri atti vandalici e si era ridotta in stato di quasi completo abbandono. Si deve alla dedizione ed al lavoro dell'ing. Mario, figlio di Giuseppe Carastro, che ha continuato «con tanta passione» il lavoro del padre cercando anche lui di «strappare, dall’oblio del tempo, tutto ciò che in quel pio e laborioso luogo, è ancora testimone della storia del passato». Il luogo, che i frati trasformarono nella prima zona agricola-industriale di Bronte, conserva infatti ancora un grande fascino. Facilmente il ricordo va agli umili, laboriosi, fraticelli, salmodianti in quella chiesetta, immersa nel verde, ed in quelle or vuote cellette, che vivevano accanto allo scrosciare del Simeto delle loro multiformi attività. (Nino Liuzzo, Marzo 2004)
Così era alcuni decenni fa
(Il brano è tratto da Artigianato e industria a Catania dal Settecento al Novecento, di Giuseppe Arcidiacono, pagg. 75-89, Manifatture ed industrie miste; edito dall’Amministrazione provinciale di Catania) «La Cartiera Nelson era un’antica grangia dipendente dal vicino Monastero di S. Maria di Maniace, nella quale i monaci benedettini esercitavano accanto all’agricoltura anche piccole attività artigianali. Il complesso risulta composto da una chiesa e da un convento, un tempo separati. Il convento è un edificio a sviluppo longitudinale: costituito da una serie di stanze giustapposte, talvolta in comunicazione tra di loro, secondo una tradizione costruttiva frequente nel territorio di Bronte. Al piano terra trovavano posto la grande cucina, separata dal refettorio per mezzo di una scala che conduceva alle celle del piano superiore, ed una serie di stanze di lavoro attraversate da due grandi vasche sotterranee comunicanti. Ricostruire l’organizzazione produttiva di questa struttura pre-industriale è molto difficile, a causa della trasformazione in mulino avvenuta nel 1902, che ha notevolmente alterato lo stato delle stanze e la disposizione delle vasche; questi cambiamenti costituiscono quelli più radicali, ma non gli unici, subiti dalla struttura architettonica e produttiva, in una lunga storia che va dalla fine del XVII secolo al nostro e che ha visto coesistere e talvolta privilegiare occupazioni diverse: dalla fabbricazione della carta bombicina(1), alla lavorazione del drappo di lana, alla produzione di vino liquoroso, alla macinazione del grano. Nel 1799 la grangia passò, con la Ducea di Bronte, in proprietà di Orazio Nelson, acquistando l’appellativo di Cartiera Nelson: segno che in essa venne privilegiata la produzione della carta; produzione ancora attiva nel 1858, quando, in occasione del restauro di una diga sul Simeto(2), si menziona la «Cartiera» del Barone Meli che teneva in gabella la Ricchisgia(3). Proprio al Barone Meli, proprietario della tenuta limitrofa di Marotta, coltivata a melograni, si deve la costruzione dentro la Cartiera di un palmento, per produrre da quei frutti un vino liquoroso ottenuto con la speciale acqua di Malpertuso ricca di zolfo. Tutte queste trasformazioni rendono oggi difficile capire i metodi della produzione del panno di lana e della fabbricazione della carta. All’esterno dell’edificio si trovano vasche di pietra lavica piuttosto grandi, delle quali non si conosce l’antica ubicazione; all’interno, altre vasche, poste nei tre locali di lavoro del piano terra, rimandano ad un intricato sovrapporsi di funzioni. Nella prima stanza troviamo, a sinistra una serie di piccole vasche con sezione “a caduta” (il palmento, probabilmente), e a destra una grande vasca interrata che si spinge, tagliando la muratura, fino alla seconda stanza; in quest’altro ambiente, che è molto piccolo, troviamo sulla parete sinistra un gocciolatoio in pietra lavica e, in fondo, la ruota verticale del mulino, azionata dalle acque di Malpertuso condotte per caduta dall’acquedotto esterno; nella terza stanza, infine, scopriamo una seconda grande vasca interrata, con sistema di scarico al fiume, attualmente coperta da una botola e da un banco in muratura su quale è inserita una macina di pietra. Al primo piano si accede attraverso una scala esterna e un ballatoio di recente costruzione; ma anticamente l’elemento di collegamento verticale usato era la piccola scala, ancora esistente, tra la cucina e il refettorio. |