COLTO, DALL'ANIMO GENEROSO ED ALTRUISTA
Lorenzo Castiglione Pace Fondatore dell'Ospedale dei poveri Don Lorenzo Castiglione Pace, barone di Pietrabianca (il feudo si trovava in territorio di Adernò), ereditò parte della sua fortuna dallo zio sac. D. Giuseppe Pace, per testamento del 25 Aprile 1645. Diventò anche Barone di S. Luigi quando per aiutare il Comune a pagare le rate disposte dal Parlamento “pel donativo a sua Maestà il Re” comprò con il privilegio del 14 luglio 1650 anche quest'altro titolo baronale. Sua Maestà, infatti, - scrive Benedetto Radice - “bisognoso di denaro per la difesa contro l’armata turca” vendeva onori, cariche, titoli nobiliari, tonnare e gabelle e “qualunque villan rifatto poteva divenire barone, conte, marchese”. Don Lorenzo Castiglione lo fece “per fare cosa grata al Comune, chè animo generoso egli ebbe, e rendergli men disagevole il pagamento, comprò la rata delle onze ottantotto, tarì ventinove, grana 22 che doveva Bronte; e sborsando alla Regia Corte il capitale in onze ottocentottantotto, tarì ventiquattro fu investito del titolo di barone di S. Luigi…”. “Gli altri cosidetti baroni di Bronte Papotto, Meli, Minissale, Mancani, D. Francesco Cangemi, D. Placido Artale credo avessero comprato pure il titolo onorifico di barone, ma non se ne trova traccia alcuna negli atti, in Palermo, e forse abusivamente si gabellavano per tali”. Uomo colto, dall’animo generoso ed altruista don Lorenzo (nella foto a destra dipinto da A. Attinà fra gli "Uomini illustri di Bronte") aiutava tutti: il 2 febbraio 1652 fu fra i fondatori della locale Compagnia dei Bianchi che, sotto il titolo di Maria SS. del Rosario, aveva il doloroso e pietoso compito di assistere i condannati a morte; “trasferì un fondaco di sua proprietà, esistente in paese (il fondaco detto Lupo) e terre in contrada Gollìa” alla stessa Compagnia. Negli anni 1664 e 1665 fu nominato Giudice della Corte criminale della Terra di Bronti e in questa veste, su segnalazione dell'Erario fiscale, fu ingiustamente accusato dall’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo di occultamento di cause e censi fiscali. Fu assolto con sentenza dell’11 Ottobre 1666 dal Sindicatore D. Pietro Bonicelli, inviato a Bronte e nominato dallo stesso Ospedale per istruire la causa (vedi faldone dell’Archivio Nelson, vol. 91, pag. 319 e segg.). Prima di morire il dottor don Lorenzo Castiglione, Barone di Pietra Bianca e di S. Luigi, con testamento del 1 Ottobre 1679 presso notar Antonino Spedalieri, “per lenire la miseria e i mali dei poveri”, dotò con metà del suo patrimonio un piccolo ospedale, cadente e privo di rendite sito nei pressi della Chiesa del Rosario: il Nosocomio dei poveri (v. disegno a destra), nei primi anni del 1900 trasferito e trasformato nell’odierno Ospedale Castiglione-Prestianni. Come piacevolmente scrive Filippo Marotta Rizzo nella sua novella, il Barone D. Lorenzo Castiglione non vide esaurire il suo desiderio di "quel figlio maschio che avrebbe continuato la sua stirpe". Nello scrivere il suo testamento potè menzionare solo femmine, nominando - come scrive un altro storico brontese, padre Gesualdo De Luca - «sue eredi universali le sue figlie viventi D.a Rosolia e D.a Giustina; e per le defunte sue figlie D.a Agata la di lui figlia sua nipote D.a Giustina, e per la defunta D.a Dorotea le figlie di lei sue nipoti D.a Beatrice e D.a Girolama. Divise in quattro parti il feudo Pietra Bianca, e ne investi di una parte D.a Rosolia, di un'altra D.a Giustina, della terza la nipote D.a Giustina, della quarta le nipoti D.a Beatrice e D.a Girolama» (cfr. anche l'A.N., vol. 257-C, p. 63). Pensando ai poveri, però, mise una condizione che «avvenendo l'estinzione totale ed assoluta di una o più generazioni di queste sue eredi universali, cosicchè non vi fosse nè maschio, nè femmina: delle porzioni del feudo di Pietra Bianca appartenenti all'estinte generazioni, ne addivenisse erede universale la sua cappella esistente nella Chiesa di Maria SS. del Rosario; come da lui allora per quel tempo istituita, ed alle spente generazioni sostituita per fedecommesso.» Ed in esecuzione del testamento «nominò per suoi fedecommissarii, esecutori testamentarii, e generali amministratori dell'eredità universale da lui lasciata alla sua Cappella, i Governatori e Rettori della V. Congregazione del Rosario, fondata nella medesima Chiesa del Rosario, con assoluta e generale potestà di ingabellare i fondi e fare quel che stimassero più opportuno intorno all'ospedale pubblico, che doveva fondarsi e mantenersi coi beni ereditarii della medesima Cappella, alla stessa da lui legati sul feudo Pietra Bianca». Erede del feudo, investita della Baronia, fu la figlia Rosolia Versa Sottosanti. Don Lorenzo Castiglione per il suo impegno civile andò contro agli interessi dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, al quale in tutti i sensi apparteneva Bronte con tutto il suo territorio, e subì anche un processo criminale ad istanza dei palermitani. Maestri - scrive il Radice - nelle “novelle estorsioni, le sevizie e le torture, per carpire confessioni e false testimonianze”, i “pii rettori dell'Ospedale”, “per disfarsi delle persone che non li secondavano nelle loro mire di usurpazioni” processavano “giudici, giurati, capitani e, fra gli altri, il grande benefattore dei poveri, il barone Don Lorenzo Castiglione”. La casa del barone Castiglione era nel quartiere di S. Rocco (dove in seguito il Ven. Ignazio Capizzi costruì il prestigioso Collegio che porta il suo nome) e confinava con un vicolo, ove era un tempo la Locanda Cesare. Il Castiglione morì il 27 ottobre 1679 e fu sepolto della chiesa del Rosario, in una Cappella (dell'Assunta) della quale aveva la proprietà ed il diritto di patronato, ma un successivo rifacimento della Chiesa che trasformava la cappella in sacrestia fece scomparire definitivamente ogni traccia della sua tomba. Vicino alla chiesa Bronte gli aveva dedicato la piazzetta posta di fronte al Circolo di Cultura e a via Ospedale Vecchio (l'antico Nosocomio), ma il solito becero vezzo di modificare la toponomastica cancellò alcuni decenni fa la targa con il nome del fondatore dell'Ospedale per mettervi quello di un suo amministratore: il sac. Antonino Rubino. Nella foto a destra un altro ritratto del Barone Don Lorenzo Castiglione, dipinto da Agostino Attinà, che è stato sempre di proprietà dell'Ospedale da lui fondato, il Castiglione-Prestianni, ed ivi si conservava. Oggi è scomparso, non si sa come ed a quale titolo è diventato proprietà di un privato, ex dipendente dell'Ospedale, finendo appeso nella sua casa. In basso leggesi questa epigrafe del prof. sac. Vincenzo Leanza: «Utriusque Juris Doctor D. Laurentius Castiglione, splendor atque glaria huius Brontis, civitatis nobilis parlamentarius, Baro Petrae Albae, qui ut patris pauperum nomen non solum quoad vixit, sed etiam post mortem sibi merito vindicaret, xenodochium hoc a fundamentis propriis redditibus pari cum magnificentia ac liberaritate erigi mandavit, in quo infirmi omnes tam cives, quam exteri, quasi in probatica ed corporum et animarum amissam recìperent sanitatem; temporali vita functus anno 1679 a Virginis Puerperio, mense octobris, die 27, per universam vero aeternitatem, quia Deo vixit mercedem elemosinariis promissam percepturus in caelo. Utriusque Juris Doctoris D. Nicolai Leanza, praedicti xenonodocbii praesidis jussu Augustinus Attinà refecit 1864.» Lo stesso pittore Agostino Attinà lo ha dipinto fra gli Uomini illustri di Bronte nell'omonimo quadro conservato nella scalinata d'ingresso del Real Collegio Capizzi. (aL)
Castiglione Pace Barone di Pietrabianca e di S. Luigi “Barunellu, barunellu, n’atra fìmmina!”. di Filippo Marotta Rizzo | Quattru fìgghi fìmmini ci arrivaru quattru voti tintò la sò sorti, lu Distinu cu iddu fu amaru pu sò feudu e u sò nomi fu la Morti. | La levatrice, Nunziatina, una donna sulla quarantina d’anni, alta, bene in carne, che aveva fatto nascere le altre tre figlie a Donna Geronima, non volle perdere altro tempo e spiattellò subito la notizia al marito che stava aspettando con ansia che la moglie sgravasse. L’U. J. Dr. Don Lorenzo Castiglione Pace, primo barone di Pietra Bianca, non riuscì a dissimulare il suo disappunto. “Diavuluni! - disse - Sulu fimmini iè capaci di fari!”. Dopo la primogenita Agata, che portava il nome della madre, erano nate Dorotea e Rosalia ed ora nasceva Giustina. Bonaventura, il nome di suo padre, quella buona nuova tanto aspettata ed agognata, quel figlio maschio che avrebbe continuato la sua stirpe, non arrivava e chissà se sarebbe mai arrivato. E ricordava che dopo la nascita della terzogenita Rosalia, sua moglie Donna Geronima Spitaleri, figlia dell’affittuario dello Stato di Bronte Don Francesco, si era recata di buon mattino presso la sacramentale Chiesa della Santissima Annunziata. Si era fatta accompagnare dalla sorella Francesca che alcuni anni prima aveva sposato l’U. J. Dr. Don Antonino Reale di Adernò. Entrarono in chiesa; fecero visita dapprima alla vetusta cappella del Cristo alla Colonna, o cappella della Disciplina perché i devoti nei giorni di venerdì si flagellavano a sangue. Sull’altare maggiore troneggiava la bellissima statua dell’Annunziata, patrona di Bronte, con a lato l’angelo, fine opera di Antonello Gagini. Donna Geronima si inginocchiò e rivolse alla Madonna questa preghiera: “Madunnuzza, sicuramenti sugnu sfacciata, non sugnu digna di li grazi chi m’aviti fattu dànnumi tri figghi, una cchiù bedda di l’autra; iù vi ringraziu a facci ‘nterra di li vostri favuri, non è ppi mmia, Vi lu giuru, ma ppi mè maritu, non lu pozzu sentiri cchiù, voli un màsculu chi porti avanti la sò razza, diciticillu Vui a Vostru Figghiu si lu pò accuntintari”. “Donna Geronima aviti na priera in particolari da rivolgeri a Maronna?” Il sacerdote Don Biagio Saitta, alto, ieratico, con gli occhi dolci, velati di malinconia uscì dalla sacrestia e si rivolse a lei con queste parole. “Patruzzu - disse Donna Geronima - Vui lu cunusciti a mè maritu, cu lu teni cchiù s’avisissi a nàsciri n’atra fìmmina!”. “Fiat Voluntas Dei” disse il sacerdote e si avviò celermente al confessionale perché c’erano dei fedeli che aspettavano pazientemente la sua opera. Era passato poco più di un anno, Donna Geronima aveva portato a termine la sua quarta gravidanza, ma anche questa volta era nata una femmina e con l’aggravante che il medico di casa, l’Artis Medicinae Doctor Don Giuseppe Ortale, aveva detto al barone che un nuovo parto sarebbe stato molto pericoloso per la salute della puerpera. La speranza di far continuare la famiglia si era ridotta al lumicino; i Castiglione si erano innalzati al titolo baronale con lui e quasi sicuramente con lui sarebbero finiti! Correva l’anno del Signore milleseicentosettantanove. Eravamo nel mese di ottobre, mese della vendemmia. Gli aspri odori dei mosti si spandevano di palmento in palmento; era stata una buona annata e sicuramente un vino di buona qualità avrebbe allietato quell’anno le tavole. Nel palazzo del barone di Pietra bianca fervevano grandi preparativi. Donna Giustina, l’ultima figlia di Don Lorenzo Castiglione, tra una ventina di giorni, il 23 ottobre, avrebbe sposato Don Filippo Romeo e Gioieni di Randazzo, figlio di Don Ruggero Romeo e di Donna Isabella Gioieni. Anche le altre tre figlie avevano fatto dei buoni matrimoni: la primogenita Agata aveva sposato l’U.J. Dr. Don Michelangelo Mendola, Dorotea il cugino l’U.J. Dr. Don Filippo Spitaleri e Rosalia l’altro U. J. Dr. Don Pietro Sottosanti. Quattro buone doti aveva dovuto sborsare Don Lorenzo, ma a lui che era succeduto al suocero Don Francesco Spitaleri come Governatore e arrendatario dello Stato di Bronte non mancavano certo i mezzi. Un unico cruccio gli restava, che quel feudo di Pietra Bianca che aveva acquistato dai Moncada all’ingente prezzo di onze tremilatrecentosessanta, sarebbe stato alla sua morte smembrato e diviso in quattro parti. I quattro generi sarebbero divenuti, maritali nomine, baroni di un quarto di Pietra Bianca! I preparativi per quel quarto matrimonio erano stati febbrili. Il barone Don Lorenzo aveva voluto fare le cose in grande, come sua abitudine; le famiglie più importanti, non soltanto di Bronte ma anche delle terre vicine, Adernò, Randazzo, Biancavilla, Paternò erano state invitate e le dame sfoggiavano i loro abiti più belli e le loro gemme più preziose. Tutto era riuscito a puntino; a tarda sera quando i giovani sposi si erano ritirati nelle loro stanze, Don Lorenzo aveva detto alla moglie che voleva prendere una boccata d’aria prima di andare a letto ed era sceso nel giardino che circondava il suo palazzo. Poteva dirsi soddisfatto, Giustina aveva sposato un esponente della vecchia nobiltà randazzese, quel matrimonio che aveva preparato con tanto sfarzo e con tanti invitati era un’ulteriore prova della sua ricchezza e potenza, ma perché aveva allora un sapore amaro nella bocca, perché si sentiva cosi stanco? “Chiù, chiù, chiù!”. Un cuculo, nascosto nella folta chioma di un castagno centenario, fece sentire la sua triste e lamentosa cantilena. “Malirittu aceddu du malauriu, t’à rumpiri u coddu!”. Don Lorenzo si chinò, raccattò una pietra e gliela lanciò violentemente contro. L’uccello spaventato si levò dall’albero e scomparve nella notte. E gli venne in mente quella fredda mattina del sei di febbraio di due anni prima. Erano finiti i festeggiamenti in onore del Santo Patrono, San Biagio Vescovo e Martire ed ora tutta la comunità era raccolta nella chiesa del Rosario, l’antica chiesa di Santa Maria della Resistenza dove, venticinque anni prima, il 6 febbraio 1652, era stata costituita la compagnia dei Bianchi che aveva lo scopo di assistere i condannati a morte e di promuovere la devozione al Santissimo Rosario. Nei giorni precedenti era caduta un’abbondante nevicata ed ora, dopo un breve intervallo, il cielo si era nuovamente coperto e prometteva altra neve. In quell’anno Don Lorenzo era governatore della Compagnia. All’uscita della chiesa una vecchia con poveri stracci addosso, claudicante si avvicinò al barone. “Ccillenza, ccillenza, fativi leggiri a manu”, disse, guardando con gli occhi spiritati Don Lorenzo. Prima ancora che il barone le potesse rispondere aveva preso la sua mano e ora la stava esaminando attentamente. “Ccillenza - gli disse - assai vvi nnavi fattu favuri ‘u Signuri, ma stati accura a chiddu chi vi ricu. Prima chi passinu tri anni u Vostru cori avrà na gioia ranni, ma Vi raccumannu u misi di nuvembri. vi raccumannu...”. E il mese di ottobre era agli sgoccioli, egli aveva sposato la sua ultima figlia e ora si stava avvicinando pericolosamente il temuto mese di novembre. L’aria si era fatta più fredda, il cielo incominciava a minacciare la neve; Don Lorenzo rientrò nelle sue stanze; senza fare rumore per timore di svegliare la moglie, si avvicinò al letto, fissò i suoi occhi sullo splendido crocifisso d’avorio che era appeso al capezzale e “Fiat Voluntas Tua” disse ed entrò dentro le coperte. [Tratto, per gentile concessione dell'Autore, da Novelle ai piedi del Vulcano, di Filippo Marotta Rizzo, Giuseppe Maimone Editore, Catania 2010] Filippo Marotta Rizzo è nato a Militello Rosmarino (Messina) il 6 Agosto 1947. Laureatosi nel 1971 presso l’Università di Catania in Lettere Moderne, ha esercitato la professione di bancario presso il Banco di Sicilia fino al 1998. È anche Guardia d’Onore al Pantheon e Accademico del Mediterraneo. Ha partecipato a vari concorsi di poesia meritando segnalazioni e una medaglia d’oro per I paracadutisti dell’Hercules. Appassionato cultore di storia regionale, ha pubblicato Canzoni d’amore e di sdegno (1980) presso le Grafiche Editoriali Artistiche Pordenonesi e Militello della Valdemone (1997) presso le Grafiche Centro Stampa di Capo d’Orlando. Ha conseguito nel dicembre 2004 per Lu scavittu e altre novelle il premio speciale per la Critica dall’Associazione Culturale “Vincenzo Paternò-Tedeschi”. Con lo stesso editore ha pubblicato Lu scavittu e altre novelle (2004). Novelle ai piedi del Vulcano, è stato presentato a Bronte a Luglio 2012. |
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