Suor Francesca (1583 - 1640) di Bruno Spedalieri È con disappunto che scrivo di questa donna, per noi eminente, senza poterne conoscere il pensiero e le sue opere. Sull’identità di Suor Francesca Spitaleri Bertino abbiamo versioni diverse. Il Radice la chiama una volta Suor Francesca Spitaleri Bertino (Memorie Storiche di Bronte, edizione 1983, pag. 310), ed un’altra volta Suor Francesca Spitaleri Bonina (Memorie Storiche di Bronte, edizione 1983, pag. 530). Di lei non possiamo che riportare le notizie smilze che gli storici ci hanno tramandato. I suoi scritti, infatti, a motivo della condanna dell'Inquisizione, sono stati bruciati in quanto considerati eretici e tutto è stato operato in modo che la memoria di lei non fosse ricordata ai posteri. Ed è con disappunto che scrivo di questa donna, per noi eminente, senza poterne conoscere il pensiero e le sue opere. Suor Francesca era nata Angela Spitaleri il 13 settembre 1583 da Antonino Spitaleri e da Angela Bertino. Fra altri fratelli e sorelle, aveva un fratello di nome Placido Spitaleri, nato nel 1598 e che sposó Paola Bonina. Furono il cognome della madre e quello della cognata a creare confusione. Angela molto giovane si fece monaca fra le Terziarie di San Francesco e prese il nome di Suor Francesca. Era donna di grande ingegno e scrisse opere religiose. Si dice che abbia ricevuto il dono delle stimmate. E furono le sue esperienze mistiche ad attirare su di lei l’attenzione del Santo Ufficio. Nei suoi scritti gli inquisitori trovarono qualcosa di eretico. Nell’Auto da Fé celebratosi in Piazza Bologni a Palermo il 12 dicembre 1621, Suor Francesca, allora trentottenne, comparve nella lista degli indiziati insieme ad altri 33 eretici. Essa abiurò gli errori di cui era accusata e fu inviata a servire in un ospedale. Sette anni piú tardi, essendo tornata alle sue convinzioni fu imprigionata nelle carceri dell'Orologio a Palermo in attesa del processo. Rimase rinchiusa in una celletta per dodici anni. Appressandosi il giorno del processo finale e presentendo che sarebbe stata condannata al rogo, per sfuggire a quella morte atroce, la suora cercò scampo calandosi dal tetto con una corda intrecciata da lei stessa, con la lana del suo materasso. Ma la poveretta stramazzò a terra e morì. Contava 57 anni di etá. Il 9 settembre 1640 il suo corpo, fu esposto e processato sulla piazza della Cattedrale; fu poi bruciato e le ceneri furono sotterrate in luogo non sacro. Purtroppo le leggi severe dell’Inquisizione ci hanno impedito di conoscere il pensiero di quella povera Suora e di darne un giudizio. Oggi noi sappiamo, per ammissione dello stesso Pontefice, Papa Giovanni Paolo II, che l'Inquisizione va considerata un tragico errore. D'altronde non ignoriamo che tra le innumerevoli vittime dell'Inquisizione si trovano pure dei Luminari e dei Santi come ad esempio Giordano Bruno e Santa Giovanna d’Arco. La memoria di Suor Francesca, si è tramandata fra il popolo brontese fino ai nostri giorni. Ricordo bene che mia nonna materna Teresa Schiliró me ne parlava quando io ero ancora ragazzetto. Non riuscivo peró a determinarne l’epoca storica. Non sappiamo molto di Suor Francesca Spitaleri Bertino, ma di certo sappiamo che è esistita e che merita un ricordo ed una preghiera. Bruno Spedalieri Dicembre 2013. | Suor Francesca di Pasquale Spanò La tragica vicenda di Suor Francesca è ripresa anche dal poeta e saggista brontese Pasquale Spanò (1918-2010) nel suo libro "C’era qui una volta il Rizzonito - Bronte nella storia d’Europa" (Torino, 1993). Alla sventurata suora ("vittima innocente offerta a Dio come olocausto a suprema espiazione"), Pasquale Spanò nel libro “Etnei” (Torino, 1963) dedica anche una sua poesia (“Francesca”). | Francesca | Era chiamata Inquisizione Santa chè riforniva, in un tempo di magra, di Santi il Paradiso, ove gli arrivi divenuti eran proprio peregrini: diabòlica correva per il mondo frenètica una Furia che scovava temìbili nemici nei meandri persino d'un devoto monastero. Del poverello d'Assisi la regola seguita avea, ancora giovanetta, Francesca, la suorina a Gesù cara ed alle anime semplici nel cuore: portata a Dio l'avean gli studi, i colloqui nelle éstasi divine e le piaghe del Cristo a lei concesse a pegno d'una vita immacolata. | Il suo farneticar celeste grato non era all'alta Sfera che vedeva in lei di Sàtana la destra orrenda brandire il gladio devastante il mondo: il primo emesso «auto da fè» le diede profondo quel dolor, che contrassegna la vittima innocente offerta a Dio come olocausto a suprema espiazione. Ma novelli presunti errori tosto a più severo giudizio la condusser ed a carcere crudo precorrente l'implacàbile rogo nei tormenti: un folle orrore la sconvolse tutta e tentar le fece l'impossìbil fuga, che gli Angeli mutàro premurosi in trionfo eterno lassù nel Cielo. |
| Françisca Spitaleri di M. S. Messana Virga La storica Maria Sofia Messana Virga nelle pagg. pagg. 544-545 del suo libro Inquisitori, negromanti e streghe nella Sicilia moderna (1500-1782) (Sellerio, Palermo, 2007, pp. 656), così scrive di Suor Francisca Spitaleri: «Tra le vicende più utili a illuminare molte storie femminili ve n’è una che getta una luce particolarmente inquietante sull'attività inquisitoriale, per la severità con cui viene condotto il processo e la misoginia che traspare dalle carte processuali. L'imputata è Françisca Spitaleri, terziaria di San Francesco, nativa di Bronte in provincia di Catania e residente a Palermo, dove si è trasferita col marito per seguire il processo di uno dei suoi figli, Vincenzo. Questi è stato accusato di stregoneria e catturato nel 1646 dall' arcivescovo di Monreale, da cui Bronte dipende (*) Françisca ha 50 anni, discende da una figlia di ebrei conversos ed è benestante: è una guaritrice, ma per la sua condizione sociale avrebbe dovuto esercitare la medicina, arte trasmessa in famiglia, se, dopo l'editto di espulsione e la conversione forzosa, le donne ebree che esercitavano una tale professione non avessero dovuto celarsi sotto questa attività di rango inferiore per scampare all'Inquisizione. Racconta di rapporti speciali con il soprannaturale, di miracoli, di stimmate ricevute, cosa che, invece di salvarla come lei probabilmente crede, le nuoce presso gli inquisitori i quali la facciano di millantata santità. La denuncia si trasforma in accuse di eresia. Quando il processo sta per concludersi con una condanna, Françisca, che ha capito di essere destinata al rogo come eretica, tenta di fuggire nottetempo, calan dosi da una finestra di Palazzo Steri, ma muore cadendo; il suo cadavere, ritrovato il giorno dopo, è sotterrato in terra sconsacrata. (*) ASP, S. Uff. Ric. vol. 173; le spese segnate per catturare Vincenzo Spitaleri sono: «per una mula per il viaggio t. 20: per mangiare la mula t. 12; per giorni sei per mangiare il carcerato t. 6; per dui giorni chi stetti in Mazzarò per vendere la robba t. 12» | Tu non dici parole di Simona Lo Iacono Dal pietoso caso di suor Francesca Spitaleri trae spunto anche la siracusana Simona Lo Iacono, magistrato presso il Tribunale di Siracusa, per il suo primo romanzo “Tu non dici parole” (Giulio Perrone Editore, Roma, 2008, pp. 204). Ambientato nella Sicilia del 1600, a Bronte, in un periodo di malcontento popolare e di Santa Inquisizione racconta di una ruota degli esposti e di una bambina, Francisca Spitaleri (la protagonista), che ruba… parole e non sa neanche perché. Lo fa con l’istinto di un animale addomesticato a proteggersi, a mettersi in salvo, a mescolarsi ai fumi del destino senza scovarne le ragioni. Eppure, miracolosamente, serve. E le parole saranno il suo scudo, la sua immaginaria protezione ed il suo conforto anche se non reggeranno allo scontro con la violenza e col sopruso perpetrato in nome del potere. Bronte 1638, una donna e la Santa Inquisizione
«Bronte, 1638. Francisca Spitalieri è un’esposta dotata di una peculiare caratteristica: ama le parole belle. Parole liturgiche e dell’offertorio, sentite in convento, che “ruba” e ripete di continuo pur non conoscendone il significato. Parole che re-interpreta, ammaliata dalla loro austerità e musicalità. Questo suo amore, però, viene considerato anormale. Per questo motivo, e per altre circostanze a esso legate, viene messa a giudizio dal Santo Uffizio. Francisca è la protagonista di “Tu non dici parole” (Perrone, 2008), romanzo d’esordio della siracusana Simona Lo Iacono, magistrato e dirigente del Tribunale di Avola. Una storia tragica, dolente; ispirata da personaggi realmente esistiti e caratterizzata da visionarietà artistica e grandissima teatralità; “messa in scena” con un riuscito impasto linguistico imperlato di espressioni in latino, in volgare e in dialetto siciliano. (...)» [Massimo Maugeri, La Sicilia, 27.12.2008] Di Simona Lo Iacono leggi La confessione «Oggi corre l’anno di Dio 1640 e a Bronte gira voce che su Francisca Spitalieri fu fatta sentenza, che infine lo santo tribunale ebbe a emettere verdetto...» | La bolgia delle eretiche di Marinella Fiume Anche la scrittrice Marinella Fiume dedica un capitolo alla vicenda di suor Francesca Spitaleri nel suo libro “La bolgia delle eretiche” (editore A & B, Acireale-Roma 2017, 168 p.), dove delinea figure forti di donne realmente vissute che l'Autrice ricostruisce su fonti inedite come, nel caso della terziaria francescana brontese, i verbali di interrogatorio del Santo Offizio. Nel capitolo che, per gentile concessione dell'Autrice, vi presentiamo è la stessa «soro Francisca», in prima persona, che in un atroce diario racconta «l’orribile farsa del processo», le innumerevoli udienze, gli interrogatori, i testimoni che deponevano “per sentito dire”, la sua difesa, le accuse di essere strega e la stessa condanna «alla damnatio famae et memoriae», perché di lei «non rimanesse traccia alcuna, neanche il ricordo, come persona haeretica, scandalosa, superba, presuntuosa, blasfema e temeraria, impenitens et pertinax in suis erroribus, incorreggibile». Discendente da ebrei conversos che esercitavano l’arte medica, cinquantun anni, «naturale della terra di Bronte», tenace e coraggiosa, si definisce una “santa viva”. Narra che era stata arrestata a Palermo, dove si era trasferita con il marito per seguire il processo di uno dei suoi figli, Vincenzo, accusato di stregoneria e catturato dall’arcivescovo di Monreale. Non si arrese mai e – scrive - «non essendo riuscita a farla franca vincendo in dottrina gli inquisitori e convincendo il tribunale che ero una santa viva, stavo guadagnando altrimenti la libertà» ma «la corda si era spezzata prima che io toccassi terra, non ebbi nemmeno il tempo di accorgermene…». Marinella Fiume ha presentato il libro al Circolo di Cultura E. Cimbali, nel corso di un convegno a tema “La Santa Inquisizione a Bronte”, organizzato anche dalla nostra Associazione. Il mio nome è soro Francisca, la mia storia la racconto io! di Marinella Fiume |
|
|
La Santa Inquisizione Antonino Gorgone Antonino Gorgone inteso Galluzzo, contadino di 52 anni, non era un uomo istruito, colto e dotto come frà Tommaso Schiros o come suor Francesca Spitaleri e, purtroppo per lui, era stato cresciuto ed abituato fin da piccolo a "pane e bestemmie" a più non posso («a santiàri» si dice a Bronte). Ad esempio, edificazione e intimidazione del popolo, arrestato a seguito della solita denuncia e condotto in catene a Palermo, scontò nel 1724 nelle carceri del Sant'Uffizio le sue continue bestemmie. “Egli fu – scrive il Radice - uno dei ventisette penitenti, che nel 6 aprile 1724, in piazza S. Erasmo in Palermo, dopo la sua abiura de levi, assistette al famoso rogo di suora Geltrude, terziaria dell’Ordine di S. Benedetta, e di frate Raimondo degli Agostiniani Scalzi, da Caltanissetta, condannati al rogo, la prima dopo 25 anni, il secondo dopo 18 di carcere, come moltinisti e quietisti. Fu il Gorgone, scrive il Mongitore, contadino della campagna di Bronte, di 52 anni; assolto, ad cantelam uscì nel pubblico spettacolo con mordacchia in bocca». La mordacchia era un sofisticato strumento del Sant'Ufficio col quale si serrava la bocca ai condannati perchè non parlassero, adatta quindi alle cattive abitudini del Gorgone. «Fu condannato - continua il Radice citando l'atto pubblico di fede, celebrato in Palermo il 6 aprile del 1724 dal Tribunale della S. Inquisizione, cap. XIII, pag. 65 - alla vergogna per le pubbliche strade della città, trenta sferzate e allo esilio per tre anni da Bronte».
La Santa Inquisizione Suor Maria D'Angelo Un caso simile a quello di Suor Francesca è riportato da Vincenzo Schilirò nel suo libro "Il venerabile Ignazio Capizzi" (SEI, Torino 1933). La vicenda riguarda un'altra terziaria francescana, suor Maria D'Angelo, come suor Francesca Spitaleri anch'essa "con fama di santità", denunciata da un zelante parroco al Santo Uffizio. Questa volta però la fine fu un pò meno triste: qualcuno, anche il ven. Ignazio Capizzi suo confessore, si interessò della suora ed alla fine il tribunale inquisitorio assolse «la pia giovane». Ma la candida terziaria francescana, ridotta dalle vicende processuali «in pietosissime condizioni di salute», alcuni giorni dopo la sentenza di assoluzione «munita dei conforti religiosi, si spegneva come una santa». «Era la D’Angelo - scrive V. Schilirò - una di quelle religiose cui il decadere della vita monastica e del disciplinato beghinaggio cominciò a far spuntare isolatamente e far vivere, fra chiesa e casa, vita di raccoglimento e di preghiera, libere da voti e da clausura ed orientate verso lo spirito del terz’ordine francescano. Frequentando la chiesa di Sant’Eulalia, essa ebbe occasione di conoscere il Capizzi e se lo scelse immediatamente a maestro spirituale». Ignazio Capizzi, diffidava, per buona norma, delle «pinzochere e delle beghine (a causa della sua rudezza costoro lo chiamavano «patrigno», e lui non cessava di raccomandare ai confratelli che si guardassero bene dalle penitenti che "fanno le divotacce e le spirituali") fu con suor Maria aspro, duro, parco di parole». Ben presto «non ebbe più dubbi intorno alla santità di suor Maria, e non stimò cosa indegna o inopportuna rivolgere sulla pia terziaria una particolare attenzione.» «Ma scoppiò il temporale. Propalatesi delle notizie equivoche o addirittura false sulla vita e sui prodigi della D’Angelo, il parroco del distretto della Kalsa, Giovanni Napoli, si credette in dovere di denunziarla al Santo Uffizio, il quale ordinò senz’altro la cattura della giovane donna. Così, a principio del 1756, essa veniva tradotta al palazzo della Inquisizione e lì sottoposta al più rigido esame e ai più minuti esperimenti. Fu pel Capizzi un aspro cordoglio. Convinto com’era dell’innocenza e della santità della D’Angelo, egli corse da Mons. Schiavo, uno dei membri più autorevoli del Santo Uffizio, e con molto garbo gli fece osservare che, a preferenza di testimoni male informati o sospetti, si sarebbero dovuti sentire, per ben lumeggiare la posizione della detenuta, tutti quei sacerdoti che le erano stati guida spirituale. Ma il grave inquisitore gli troncò in bocca il suggerimento con questa domanda: - Padre mio, chi vi ha chiamato? E venne poi il peggio. Un ordine reciso di Mons. Papiniano Cusani, arcivescovo di Palermo, sospendeva dall’ascoltar confessioni tutti quei preti ch’erano stati maestri di spirito dell’accusata: e ciò fino a quando il tribunale dell’Inquisizione non si fosse pronunciato sul caso di lei. Come sempre, Ignazio chinò il capo, in perfetta rassegnazione; ma il suo animo ribolliva e molto probabilmente il cuore dolorava: ché ingiustizia era quella che metteva a prova immeritata l’innocenza e la virtù. Il decreto del tribunale inquisitorio fu, naturalmente, quale doveva essere: non di piena assoluzione soltanto, ma di autorevole riconoscimento della vita santa e illibata di suor Maria D’Angelo. Ignazio non si era ingannato. Ma quando venne fuori il verdetto - era il tardo autunno del 1756 - la pia giovane era in pietosissime condizioni di salute, tanto che, munita dei conforti religiosi, si spegneva come una santa il 15 di novembre. Iddio non aveva voluto che la sua serva ritornasse, oggetto di curiosità, in mezzo alla cattiveria del mondo. Il tribunale, per rendere più ampia giustizia all’imputata, faceva obbligo al parroco della Kalsa, denunziatore della pia monaca, di venirne a rilevare il corpo al palazzo dell’Inquisizione e portarlo con pompa alla parrocchia per le solenni esequie. Atto di soddisfacente giustizia, senza dubbio: ma nel cuore del Capizzi la piaga era rimasta profonda e sanguinante ...» |