«Giunto Garibaldi in Palermo, ed evasi dalle carceri i più grandi facinorosi, si appiccò un incendio generale contro i ricchi ed i nobili in ogni mediocre e piccolo popolo»
(…) Alla rivoluzionaria pretesa che la Sicilia costituisse un regno a sè, avesse il suo Re in Palermo, e non si avesse il fastidio ed il dispendio di dipendere da Napoli, aver da cola i suoi medii i ed alti governanti, in ogni grave affare dover valicare per Napoli; successe la foja dell’Italia una, indipendente, forte, e si convenne che la Sicilia, che non volea nel 1848 dipendere da Napoli, fosse la prima ad essere annessa all’Italia una, e dipendere dal lontanissimo Torino. All’alto disegno fu mandato in Sicilia Garibaldi coi famosi mille. Non era Garibaldi ancora arrivato in Palermo, stava ancora in piedi il Governo Borbonico: ed in Petralia Sottana cospirarono dodici audacissimi campagnuoli, fecero disegno d’impadronirsi delle case di dodici primarii signori; ed impazienti uscirono alcuni fuori paese portanti due soli fucili, per disfarsi del sindaco; l’incontrarono, lo distesero a terra. Caricò il nipote, ch’ era a fianco dell’interfetto sindaco, e ne rimase vittima uno degli assassini. Corsero in paese, presero le armi civili e villani congiurati, n’ebbero la peggio i più dei plebei inermi. Accorsero i soldati da Cefalù, fecero degli arresti, tacque il tumulto in Petralìa inferiore. Il Comunismo avea appiccato dapertutto le sue fiammelle, gli emissarii della rivoluzione aveano accumulato grande esca all’odio delle plebi contro l’aristocrazia. Giunto Garibaldi in Palermo, ed evasi dalle carceri i più grandi facinorosi, si appiccò un incendio generale contro i ricchi ed i nobili in ogni mediocre e piccolo popolo. La nobiltà di Cefalù fu ad un pelo di simultaneo e totale eccidio nella sala di conversazione. Avvertita si armò, stette vigile notte e giorno, non risparmiò danaro, salvossi. Similmente i civili di Castelbuono, memori del 1848. Nella stessa guisa furon salvi la massima parte dei civili di tutta la Sicilia. Non cosi, ove questa guardia non si ebbe. Presso alle due Petralia, in Resuttana, ed in Polizzi, e vieppiù in Mistretta le prime crudeli scene di stragi cittadine. Orribile fu il massacro dei civili ed anche dei loro fanciulli fatto in Alcara li Fusi dentro la sala di loro unione. Non meno orribile la strage fattane in Biancavilla ed in Nissoria. Tusa in parte, maggiormente Montemaggiore e Capace ebbero a versare lagrime. Molti altri Comuni deplorarono incendii e stragi. Emissarii di Biancavilla e di Alcara stendevano le fila di una simultanea ribellione per cittadini eccidii in Castiglione, Maletto, Bronte, Cesarò, Adernò, Centorbi, Regalbuto ed altri luoghi. Civili sagaci in Cesarò si stettero sull’avviso; memori del 1848 quei di Adernò e di Regalbuto non vi dormirono sopra. Un fatale torpore ingombrava Bronte. Scappati dall’ ergastolo o dai ferri accendevano gli animi, dando sicura l’immunità da ogni pena sulla parola di Garibaldi. Gli animi dei plebei erano esacerbatissimi contro due infelici Vincenzo Lo Turco e Giovannino Spedalieri; chè dati di guide al Regio Controllore, per ordinare il nuovo catasto fondiario, caddero in mille errori, nell’indicare i possessori e la quantità dei fondi. Da ciò odio implacabile contro questi due infelici. |
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Il
brano è tratto dal libro «Storia della Città di Bronte» (Milano Tipografia di
San Giuseppe, 1883, pagg. 200-212) scritto (Con permissione dei Superiori
dell'Ordine) dal frate cappuccino padre
Gesualdo De Luca (Bronte 1814 - 1892). Il libro ripubblicato in
copia anastatica per la Banca Mutua Popolare nel gennaio 1987, è stato
digitalizzato a nostra cura ed è disponibile gratuitamente per i nostri
visitatori in formato
.
In queste
pagine, tratte dal capitolo "Turbolenze civili nel secolo XIX", il
frate cappuccino, conservatore e filoborbonico, descrive ciò che direttamente vide e visse a quarantasei anni
nei giorni tragici dell'agosto 1860.
Il «Sacerdote cappuccino amico del
Poulet» del quale, non facendone il nome, scrive in queste pagine il buon
padre Gesualdo è proprio lui stesso che cercava di pacificare gli animi e
ristabilire, da buon borbonico e conservatore qual'era, l'ordine.
Benedetto Radice, un altro storico brontese, scrive di lui che era "noto
al mondo ecclesiastico per le sue opere di diritto canonico, per l'amore ai
borboni e per il suo spirito turbolento". Ma per quest'ultimo aspetto forse
fu ingiusto. Padre Gesualdo De Luca fu uno scrittore versatile (pubblicò oltre
100 libri di vario genere), passionale uomo di cultura sempre attento nella
ricerca e nella difesa della verità che patì anche il carcere per le proprie
opinioni ed anche un libro messo all'Indice.
Fu procuratore generale
dell'Ordine dei pp. Cappuccini, Lettore di Teologia Dogmatica e Morale delle
scuole dell'Ordine (dove insegnò per quattro anni) e Professore di Diritto
canonico, Eloquenza e Metafisica al Collegio Capizzi (dove ebbe fra i suoi
allievi Luigi Capuana).
Gli ultimi anni della sua vita li dedicò al paese
natale con la sua "Storia della Città di Bronte" (1883).
Molti giudicano
"fantasiose" le ricostruzioni storiche fatte da padre Gesualdo, scritte più con
amore che con studio; un altro nostro storico, B. Radice, definì "caotico"
il lavoro fatto, anche se, afferma, "di che gli va pur data lode".
Gesualdo De Luca morì a Bronte il 27 febbraio del 1892. E’ sepolto nel cimitero
di Bronte sul pavimento davanti all’altare della Cappella dell’Ordine
Francescano. [aL] |
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Odio vecchio e profondo rancore contro un notajo di asprissimi modi. Profondo rancore avverso gli ufficiali della Ducea e del Comune, per la perdita fatta soffrire ai campagnuoli ed agli armentarii e mandriani, con la privazione dei privilegii e diritti antichi del popolo negli usi di far legno liberamente, verde e secco per qualsiasi uso; e liberamente seminare, innestare alberi selvaggi, e per la violazione delle Difese e dei Parapasceri e simili.
Erano queste materie attissime a divampare in vasto incendio, postavi sopra appena una scintilla di fuoco. Si riaccesero gli odii, i rancori, i partiti e le scissure dei civili non sfogati nel 1848. Gli emissarii da paesi stranieri andavano. e venivano.
Gli scappati dagli ergastoli e dai ferri percorrevano su e giù le aperte campagne, le masserie, i boschi; accendendo e preparando gli animi per la festa dei cinque agosto, che cadeva in giorno di Domenica. Era un vocio pubblico, solenne, che in quel dì avea da farsi la scanna dei gentiluomini, e provvedevansi di armi e munizioni. Abbenchè vi fossero più corpi di guardie cittadine capitanati da buoni civili, non si venne ad una determinazione atta ad impedire si grande tempesta, che addiveniva sempre più minacciosa. Si venne all’arresto di cinque caporioni; sì fecero evadere dal carcere, e fu peggio. Se ne rovesciò la colpa su
quattro fratelli falegnami di cognome Lupo; e la tempesta ingrossò. Si facevano crocchi tra i minacciati, e si conchiudeva a nulla. Dai congiurati si fecero precedere dimostrazioni serotine dei futuri incendii
e di morte sotto i finestroni delle case designate a vittime. L’ultima fu ai 29 luglio da una torma di fanciulli e pochi adulti, con fiaccole accese e spente sotto le case minacciate, ed anche col cataletto e canto del Miserere in vista alla casa del sindaco signor Antonino Leanza. Questi il posdomani, in pieno giorno, alla vista di tutti sen parti con un suo fratello, e si rifugiarono in Randazzo.
Ai trentuno di luglio partirono
pubblicamente per Catania alquanti civili e persone della Ducea. I
congiurati avvedendosi che le loro vittime scappavano, deliberarono di
anticipare l’ordita strage. Era notissimo che la prima loro operazione
dovea essere quella di circondare di armati il paese
sul far della notte, acciò niuna scappasse delle vittime: e questo avea
da farsi in tutti i prenominati Comuni la notte dei quattro agosto. Fu anticipata questa operazione, ed in Maletto tumultuarono ed uccisero
un civile. Tumultuarono in Castiglione e fecero sangue. La sera
dei primo di agosto alle tre di notte si udirono fucilate nella via
rotabile, centrale, accanto al Convento dei Cappuccini; e tosto udivansi
rumori e voci di uomini, che svegliavano pacifici dormienti, e li
costringevano a prendere le i armi ed andare ai posti. In breve furono
collocate pattuglie al primo serro di Salice, a S. Antonio di Padova,
allo Zottofondo, allo Scialandro, ai Fumizzari o Cona della Catena. Verso mezzanotte suonò a stormo la campana della
Chiesa di S. Antonio, e poi quella di Maria SS. del Riparo. Tosto quanti dei civili vollero fuggire, fuggirono; e molti se la svignarono scortati da buoni e pietosi villani; dei quali non tenevano sospetto i congiurati. I caporioni stessi scortarono alquanti raccomandatisi loro con danaro, preghiere e lagrime. Fatto giorno, ci trovammo assediati, moltissimi non credevano ai proprii occhi, riputavano ancora un frullo, un’apparenza l’orribile minaccia pubblica. Di mattina alquanti giovanetti civili, imprudentissimi, si accostarono alla guardia di Salice, e se n’ebbero un salve di fucilate. Niuno fu ferito, fuggirono, e Nunzio Battaglia ne menò grande rumore sulla piazza. Che non l’avesse fatto! Poco stante di mattina fu ucciso Carmelo De Luca Curchiarella, Guardia rurale, per essersi millantato, con tre guardie del posto dei Fumirazzi, di averne ad uccidere cinque. Erano amici dei cinque minacciati le tre guardie. Giovani Preti, buoni artisti, civili si univano qua e là, per prendere una risoluzione amichevole, e armata; non si conchiuse nulla. Il Sacerdote D. Giuseppe Minissale con altri Preti recaronsi al posto dei Fumirazzi: con buone ed alte parole furono fatti tornare indietro.
Giunsero dai boschi i carbonari con le loro grandi accette. Alle ventitre del
giorno si unirono armati sul largo di S. Vito
(la chiesa in alto a destra nel quadro
di G. Politi del 1832, Ndr) i masnadieri ed i costretti da
quelli. Suonarono quella campana a stormo, e tosto divisi in due falangi scesero
nel paese. La più grossa scese a sinistra per la via dei Santi, fermossi più
volte, tremando verga a verga, pel sospetto di aversi scariche di fucilate dalle
case dei ricchi.
Ma quando tra palpiti e furore percorse libere le strade
giunsero al casino di compagnia dei civili, e lo trovarono sgombro; un delirio
febbrile l’invase, guastarono ogni cosa di quel luogo, e corsero agli incendii
ed ai saccheggi. Ad un tempo costrinsero a seguirli armati un centinajo di
onesti e buoni artisti e campagnuoli.
Eravamo presso alla notte, ed innanzi le altre assaltarono la casa dell’avvocato D. Ferdinando Margaglio sotto il Collegio nella strada centrale. Procedevano un trombettiere ed armati da fucile. Giunti alla casa da sacrificare, squillava l’orribile tromba, facevasi una scarica di fucilate: niuno ostacolo provato, si accostavano i carbonari con le grandi accette, manovali con grandi pali di ferro. In un attimo erano atterrate le imposte dei
portoni, delle porte intermedie, delle grandi e piccole finestre.
I caporioni fermavansi dinanzi gli usci coi fucili in mano, i loro fidi entravano e davansi da fare sulle casse e canterami, ove erano deposti oggetti di valore, che portavan via a case determinate. Poi vi entrava un fiume di arrabbiati e di ladri. Tutto guastavano e buttavano dalle finestre, imposte, tavole di letto, casse, sedie, altri mobili, ed anche vesti di poco conto e materassi.
Il meglio ed il buono, frumento, cacio, olio e quanto potevasi era portato via da fanciulli, da femmine, da malvagia gente, che dal vicinato accorreva. I buoni trascinati per forza servirono, a fare risparmiare le case di tutti i Preti e di molti civili degni di pietà e di compassione, pei quali valse la loro intercessione. Fu orribilissima quella notte, e per molto tempo mi risuonava all’orecchio l’orribilissima tromba, pareva di vedere le alte fiamme degli incendii. Dopo la casa del signor Margaglio fu dato fuoco alle case del signor Vincenzo Saitta suo odiatissimo esattore delle regie imposte, della locanda Lupo, di
D. Antonino Cannata e del legname di Lupo e Cannata formato grande rogo: ed alle case di D. Giuseppe Liuzzo avvocato della Ducea, di D. Pietro Sanfilippo buono e ricco signore, di D. Antonino Leanza più volte sindaco, di D. Francesco Aidala cassiere del Comune, di
D. Ignazio Cannata odiatissimo notajo, e di maestro Gaetano Lupo e di molti altri, in tutto nella notte del giorno del venerdì ventidue case, stanti in tutti i quartieri del Comune. La notte era serenissima, splendeva la luna. Il paese sembrava tutto un incendio, quanto parve lunga quella notte! La prima a salvarsi da tanto male fu la casa della signora Vincenza Saitta Pace. Aperta la porta, fece trovare illuminate le stanze, invitò, diede pane, cacio, soppressate, vino in abbondanza. Un grido: Viva la signora Pace, e via. Questo esempio fu imitato, e salvaronsi molti. L’indomani sul far del giorno, eranvi moltissimi ubbriachi sino alla fronte, ed in massa fecero gran passeggiata, gridando: «Viva l’Italia.» Incominciarono gli eccidii. Tra primi andarono uccisi il notajo Cannata, l’infelice Vincenzo Lo Turco, e semivivi buttati su roghi ardenti. Nunzio Battaglia capitò fuori paese, colpito da palle, buttato in un grande veprajo fu arso. Il cassiere signor Francesco Aidala barbaramente fu ucciso. In odio dei parenti e del ceto vennero assassinati i giovani buonissimi Giacomo Battaglia, Giacomo Zappia, Mariano Mauro, ed in campagna nel fuggire Vito Margaglio.
Fecero scempio di Nunzio Lupo caduto nelle loro mani sotto il Collegio Capizzi.
Il fratello Antonino trafitto in campagna.
In tutto il venerdì vi furono sacrificate dieci persone. La mattina del sabbato giunse una squadra di armati spedita dal Governatore di Catania, l’incontrarono gli assassini, lo circondarono di loro persone e scortarono in Collegio con ordine di non ardire cosa contro loro.
Fu arrestato, travestito da pecoraro, e tradotto in Collegio, l’infelice Giovannino Spedalieri. Eransi cola rifugiati altri civili. Tumulto per ucciderli, grido dei buoni per salvarli. Infine fu chiesto al Capitano della squadra catanese il solo Giovannino, per farne scempio sulla piazza: ma per impegno dei buoni non fu consegnato. Fu detto al Capitano di temporeggiare, finchè si radunasse in Collegio una buona mano di cittadini armati, ad oggetto di salvare tutti. Non fu dato tempo. Dopo mezzodì, suonate a stormo le campane, una folla di arrabbiati in Collegio entrarono, trassero fuori l’infelice Giovannino, D. Illuminato Lo Turco padre all’ucciso Vincenzo, D. Giuseppe Martinez catanese usciere, D. Rosario Leotta catanese contabile della Ducea, con ai fianchi il figlio Guglielmo ed i nipoti Giuseppe e Vincenzo Saitta Mo. Apparsi sul portone alle sue lagrime il vecchio Lo Turco, alle preghiere del signor Sebastiano De Luca, il giovane Giuseppe Saitta furono lasciati liberi, e si volle tratto a morte il bravissimo Vincenzo in odio al padre Vincenzo Saitta Mo, di cui portava il nome. Per via fu salvato l’allor fanciullo D. Guglielmo Leotta. Allo Scialandro furono sacrificati l’infelice Giovannino, Leotta, Martinez ed il giovanetto, Vincenzo, che trafitto dalle palle due volte cadde, e si rialzò, chiedendo pietà ed invocando l’ajuto di Maria SS.. Trascinati vicino la Croce erasi dato fuoco ai cadaveri per abbruciarli. Sopraggiunse il Sacerdote
D. Giuseppe Di Bella, pregò di permettere che avessero sepoltura in Chiesa come corpi battezzati, e fu accolta la sua parola. Nel massacro dei quattro fu da un contadino, amico del Leotta, trafitto da palla un giovane villano arrabbiatissimo, che avea attizzato odio contro il buon Leotta; e fu colpito da un amico del Leotta.
Dopo tanto massacro la squadra catanese col suo imbecille Capitano se
ne andò via: e molto paurosa sopraggiunse la notte del sabbato sopra l’atterrito popolo.
In quei giorni, inutilissimi campagnuoli assumevano il titolo di Capitani, ed a rullo di tamburri bandivano al popolo i loro ordini. Sorgeva l’alba della Domenica, e fu dato ordine che suonassero le campane delle chiese, ed a porte aperte si celebrassero le Messe.
Nella Chiesa del Rosario fu celebrata la prima Messa, e vi entrò un massaro col
fucile sulla spalla. |