Bronte e l'Etna 'A Muntagna lanciò i primi vagiti 500mila anni fa
L'Etna,
'a Muntagna, è una creatura viva, dinamica, maestosa e irascibile
con la quale i brontesi sono abituati da sempre a convivere e che
nonostante tutto amano. La storia della città di Bronte è perennemente legata a quella di questo vulcano che le ha permesso di estendersi
ed ingrandirsi in certe epoche e l'ha ridotta a
più modeste proporzioni in altri periodi, senza mai però distruggerla del tutto. La sua imponente mole, che si eleva maestosa alle spalle dell’abitato,
quasi a sua protezione, ci ricorda che siamo presenti davanti al più
grande vulcano attivo in Europa ed uno dei maggiori dell’intero
pianeta. E' infatti una montagna enorme e isolata, delimitata dai fiumi Simeto e Alcantara. Una montagna, la più elevata d'Italia a sud delle Alpi, che con la sua maestosa altezza domina mezza Sicilia e
offre uno spettacolo di grandiosità, nera di lava pietrificata, bianca di neve sulla cima, verde di boschi lungo le pendici.
La sua nascita va datata, secondo gli esperti, intorno a 500mila anni fa. Caratterizzata da un’attività
vulcanica quasi incessante nei crateri sommitali e da frequenti colate
laviche da crateri e fessure laterali (è
il vulcano più attivo al mondo in termini di frequenza eruttiva), si eleva sopra un basamento di rocce sedimentarie di 1.570
Kmq., per un’altezza di 3.350
mt., una circonferenza di base di circa 250 Km.,
un diametro di 44.
Noi siciliani lo chiamiamo anche Mongibello (unione del latino "mons"
e dell'arabo "gibel", cioè il "monte dei monti").
Secondo gli esperti,
nonostante le sue continue eruzioni, tra i vulcani italiani è quello che
rappresenta il pericolo minore.
L'altezza della grande montagna è variabile, a causa delle eruzioni ed
esplosioni di materiale vulcanico che sono originate dal cratere
centrale.
Negli ultimi 50 anni è aumentata di circa 60 metri.
Abbastanza spesso
le eruzioni avvengono, anche contemporaneamente, sui
fianchi del massiccio mettendo a volte in pericolo i centri abitati che
si inerpicano sull'Etna fino oltre un'altitudine di ottocento metri.
Da Bronte offre la sua immagine più maestosa, si muove, brontola, si arrabbia, eruttando fiumi di lava ed ogni volta che succede la sua altezza
varia, si modifica.
Dai suoi crateri si levano lanci di scorie, cenere, lapilli, globi di vapori che raggiungono altezze incredibili (colonne alte oltre
10.000 metri che raggiungono larghezze di oltre cento chilometri).
Nonostante ciò un rapporto articolato e profondo lega gli abitanti che
vivono alle sue pendici e l’Etna ("a muntagna",
come familiarmente la chiamiamo a Bronte).
Più amore e venerazione che odio, più religioso rispetto che avversione.
Invece di fuggire, di scappare i brontesi hanno resistito, e continuato a
coltivare lungo le sue pendici gli agrumeti, i vigneti, i pistacchieti,
tutti quei frutti che proprio la terra, concimata dalle ceneri vulcaniche,
ha sempre reso peculiari nelle loro qualità.
Nella silenziosa lotta tra l’uomo e "a muntagna" sovente
l’ira del vulcano ha devastato il territorio di Bronte e, in
passato, anche i miseri insediamenti dei nostri avi, cancellando per
sempre dalla storia le prime tracce di organizzazione civile delle nostre
genti.
Il territorio brontese e la sua popolazione hanno dovuto subire tutte le
sofferenze e le vicissitudini che
comporta la vicinanza con il vulcano a quale, nei secoli, sono stati
accomunati negli umori e nei destini.
Di questi destini, spesso di distruzione, è impregnata la nostra storia plurisecolare e la
nostra economia.
Molte sono state le eruzioni che nell'ultimo
millennio hanno distrutto gran parte del territorio coltivabile di Bronte e
moltissimi ettari di bosco.
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I due illustri brontesi Placido De Luca e Benedetto Radice
paragonano la fatica dei loro concittadini a quella di Sisifo: «... Appena
essi occupano un terreno che con amoroso e faticoso lavoro spetrano,
dissodano, coltivano; ecco Mongibello, l’eterno nemico, distruggere le
sudate fatiche, cacciare altrove gli arditi colonizzatori del fuoco, che
come polipi attaccati allo scoglio con tenace affetto al suolo natio, vi
si abbarbicano, vi si annidano sopportando disagi, non temendo terremoti,
sfidando l’ira del gigante». |
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L'Etna nei «Ricordi d'un viaggio in Sicilia» di Edmondo De Amicis
«O
mio benevolo lettore, che andrai un giorno a Catania,
ricordati di fare il giro della ferrovia Circumetnea, e
dirai che è il viaggio circolare più incantevole che si
possa fare in sette ore sulla faccia della terra.
Questa ferrovia che, girando intorno al grande Vulcano con un tragitto di più di
cento chilometri allaccia fra di loro tutti i più popolosi Comuni delle sue
falde, parve da principio un'impresa utopistica, fu attraversata da mille
difficoltà, e non condotta a termine che nel 1895.
Ora non si riesce quasi più a capire come non si sia fatta vent'anni prima,
tanti sono i vantaggi che ne ricavano i trent'otto paesi grandi e piccoli fra
cui è distribuita la popolazione dell'Etna; la quale ha una densità superiore a
quella delle parti più popolate della Germania.
È una ferrovia che attraversa un paradiso terrestre, interrotto qua e là da zone
dell'inferno, e che da Catania donde parte fino alla costa dove si congiunge una
strada ferrata del littorale, e da questo punto fino a Catania, è tutta una
successione di vedute meravigliose dell'Etna e del mare, di giardini e di lave,
di piccoli vulcani spenti e di valli lussureggianti di verzura, di graziosi
villaggi e di lembi di foreste, di quelle antiche foreste di quercie, di faggi e
di pini, che fornivano il materiale di costruzione alle flotte di Siracusa, e
che le eruzioni dall'alto e la cultura dal basso hanno in grandissima parte
devastate.
La
strada sale fino ad altitudini oltre mille metri, discende,
risale, passa attraverso a vigneti, a oliveti, a vaste
piantagioni di mandorli, a boschi di castagni; corre per ampi
spazi coperti di detriti delle eruzioni, fra muraglie di lava
alte come case, fra mucchi di materiale vulcanico rabescato,
striato, foggiato in mille strane forme di serpenti e di corpi
umani mostruosi, dove non appare un filo d'erba; fiancheggia
altri spazi dove la natura ricomincia a riprendere i suoi
diritti sulle ceneri e sulle scorie, già disgregate e
decomposte dalla vegetazione nascente; passa sopra eminenze
fiorite da cui si vedono sotto, in conche verdi deliziose,
biancheggiar ville, chiesette, stradicciuole serpeggianti fra
macchie brune d'aranci, di mandarini, di cedri, lungo corsi
d'acqua argentati che paiono striscie di neve scintillante al
sole.
E durante tutto il tragitto è sempre visibile l'Etna ma in
cento aspetti diversi, cangianti secondo la generatrice del
cono che essa ci presenta allo sguardo.
La regolarità della
sua forma conica, quando si vede da Catania, non è che
apparente.
A chi le gira intorno essa mostra
successivamente enormi pareti dirupate,
scalinate immense, piramidi dietro piramidi,
che riescono inaspettate come trasformazioni
istantanee; appare in qualche punto
decapitata del suo cono supremo, in vari
luoghi spezzata, ora tutta bianca di neve,
ora bianca sulla cima soltanto, qualche
volta così diversa dalla immagine fissa che
se n'ha nella mente da far sospettare che
quella che si vede sia un'altra montagna da
cui essa rimanga nascosta!
E quanti mirabili aspetti offre la
sua cima ora colorata di rosa dal sole, ora ravvolta dal fumo, che s'innalza a
vicenda come un gigantesco pennacchio, o s'allunga da un lato come uno smisurato golfalone ondeggiante, o discende e s'allarga sui
fianchi del cono in veli candidi leggerissimi d'una
trasparenza di trina! E verso il termine di questo incanto di viaggio si sbocca in
faccia al mare, donde si vede ancora disegnarsi lassù, sopra
il candore delle nevi etnee, quanto resta dello smisurato
castagneto di Cento Cavalli, e d'altra parte la bellezza
sovrana di Taormina, quasi sospesa nell'azzurro. Ed ecco
infine la più meravigliosa costa dell'isola, sede dei suoi
primi abitatori; maravigliosa per la pompa della vegetazione e
per la poesia delle leggende: ecco il vago lido dove fu
sbattuto il naviglio d'Ulisse, dove approdò Enea, e pascolò le
capre Polifemo; ed ultimo l'arcipelago dei Ciclopi, le sette
strane isolette rocciose, quella fantastica fuga di coniche
teste nere decrescenti d'altezza, che sorgono dalle acque,
come teste di una famiglia. di giganti sommersi, che rialzino
la fronte per dare all'«Isola del sole» l'ultimo addio. O divina Sicilia! Quanti Italiani, che hanno corso il mondo
per diletto, morirono o moriranno senza averti veduta!» (Edmondo De Amicis, Ricordi di un viaggio in Sicilia, Giannotta
Catania, 1908)
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Una spettacolare attività eruttiva dell'Etna. La foto sopra è
stata scattata nel 2004 dalla zona periferica di
Bronte di contrada Sciarotta (foto ArchVale).
Quella sotto è del Dicembre 2018.
L'ambiente naturale che caratterizza la parte
elevata de grande vulcano costituisce il «Parco dell'Etna»
istituito dalla Regione Siciliana con una legge del
1987. La gestione è affidata all'Ente Parco dell'Etna.
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Una delle ultime colate laviche che ha interessato il
versante di Bronte distruggendo qualche ettaro di
bosco. In primo piano, illuminata, la
Chiesa di San Vito. (foto
Currenti) |

La colata lavica ha raggiunto un bosco ai piedi
dell'Etna distruggendolo parzialmente.
Dovranno
trascorrere alcuni secoli prima che un filo d'erba
attecchisca nuovamente sulla lava. |

«Eruzione dell'Etna
la notte del 31 Ottobre 1832 - La di cui lava diretta
per Bronte distruggeva terreni coltivati».
Il dipinto,
dell'epoca, è di Giuseppe Politi. In basso a destra, la
Città di Bronte (vedi) |
«(Vecchia colata di lava) Monte Etna vicino a Bronte,
Sicilia, febbraio 1933», litografia di M. C. Escher
(artista grafico olandese 1898 - 1972). |
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