[…] Settantatré anni prima,
apparentemente ragionando sulle sue entusiastiche scoperte di
natura mineraria, Johann Wolfgang Goethe annotava quello che può
essere considerato una sorta di vaticinio, una straordinaria
intuizione che oggi suona addirittura banale: «Senza vedere la
Sicilia, non ci si può fare un’idea dell’Italia. È in Sicilia
che si trova la chiave di tutto».
L’uso di questa «chiave» mi
suggerisce ora di spingermi laggiù, alle falde dell’Etna,
seguendo un filo che porta a Bronte, alla ricerca di quanto oggi
rimasto di un possedimento inglese, appartenuto a dei «principi
sotto il vulcano» che la rivoluzione garibaldina, dagli affamati
popolani locali presa alla lettera, parve minacciare.
Il torrente Saracena, fresco e sonoro, scorre (quando non appare
di pietra, come in questa torrida estate) sotto le mura brune
del castello di Maniace, fino a una ventina d’anni fa proprietà
di un’aristocratica famiglia britannica.
Si chiamano così, il
castello e il torrente, perché qui il bizantino Giorgio Maniace,
in un cruento scontro, sconfisse i nemici saraceni, e tanti ne
furono uccisi di quei mori che il loro sangue imporporò le acque
del ruscello.
È uno strano castello, questo, un po’ masseria e un po’
villa di campagna, con residue tracce dell’antica abbazia che ne
fu l’originaria struttura. Nel cortile interno, cui quel che
rimane dei locali monastici conferisce un aspetto raccolto e
dimesso, severa ed estranea s’impone alla vista una
croce celtica. «Heroi
Immortali Nili» (All’eroe immortale del Nilo) dice un’ancor
più estranea scritta incisa nel basamento.
L’eroe cui viene reso perenne onore è
Horatio Nelson, il
vincitore di Trafalgar, cui Ferdinando di Borbone, quarto re di
Napoli, terzo di Sicilia, nel 1799,
assieme al titolo di
duca, donò questo pezzo di Etna - con tutto dentro: abbazia,
terreni circostanti, uomini e animali - come concreta ricompensa
per avergli salvato la vita e il trono.
In quei giorni di rivoluzione giacobina, il sovrano delle Due
Sicilie a tal punto si era sentito in pericolo che era fuggito
da Napoli a Palermo, dove con l’aiuto di Nelson era poi riuscito
a riacquistare forza e a riprendersi il potere. Nacque così questa ducea che rende gloria al trionfatore delle
battaglie navali di Abukir e di Trafalgar, offuscatrici della
buona stella di Napoleone.
Un angolo d’Inghilterra venuto
inopinatamente a incastonarsi su un fianco del vulcano, dove la
lava disseccata crea subbugli da paesaggio lunare. Un contrasto
che sconcerta e disorienta; e procedendo nella visita, tra
languidi giardini e quadrerie marinaresche, sconcerto e
disorientamento virano verso un senso di tristezza, suggerito da
ciò che questo castello tende a nascondere nel mentre esalta i
meriti antinapoleonici del suo antico signore.
Il
brano è tratto dal libro di Matteo Collura "In
Sicilia" (Longanesi & C., Milano 2004).
Un viaggio nei sentimenti in una regione dai mille volti e dai feroci contrasti,
un itinerario, insieme “fisico” e immaginario, che lo
scrittore percorre guidato dalla nostalgia ma anche dal desiderio di indagare su fatti, personaggi e luoghi, noti o meno sconosciuti.
Fra questi Bronte e due personaggi che hanno inciso
profondamente nella storia della città di Bronte: Nelson e
Bixio.
Matteo Collura (Agrigento 1945) ha, citando solo
alcuni libri, pubblicato: Il Maestro
di Regalpetra - Vita di Leonardo Sciascia (Longanesi
1996, quattro edizioni; Tea 2000); Eventi - Il
racconto dell’Italia del Novecento (Longanesi 1999, Tea
2001); Alfabeto eretico (Longanesi 2002); In
Sicilia (Longanesi 2004, tre edizioni, Tea 2006),
tradotto anche il polacco con il titolo “Na Sycylii” (2015),
Qualcuno ha ucciso il generale (romanzo, Longanesi,
2006).
E’
autore inoltre di Associazione indigenti (Einaudi
1979, Tea 2001), Baltico (Reverdito 1988),
del best seller Sicilia sconosciuta (Rizzoli
1984/1997) e di Sicilia-La fabbrica del mito (Longanesi, Milano, 2013).
Biografo di Leonardo Sciascia, di cui è stato intimo amico,
ha ottenuto diversi premi letterari e giornalistici con il libro incentrato sulla sua vita.
Scrive articoli di cultura per il Corriere
della Sera e vive a Milano.
Leggi nel nostro sito web
i capitoli (in versione Pdf) di Risorgimento perduto, che
lo storico Antonino Radice dedica ai Fatti di Bronte
Ma non tanto in ricordo del genio militare del suo beneficiario
questa ducea viene tramandata, quanto di un crimine di guerra
che in quel finire di secolo rischiarato dai bagliori della
rivoluzione soffocò in Sicilia ogni speranza.
Restaurata, a
Napoli, la monarchia col determinante contributo delle forze
britanniche e delle sanguinarie bande del cardinale Ruffo, fu
Horatio Nelson a decidere della sorte dello sconfitto Francesco
Caracciolo, suo omologo divenuto per brevissimo tempo ammiraglio
della marina della Repubblica Partenopea.
Condannato a morte, il
«liberale» Caracciolo - a lui, sì, e alle sue idee la Sicilia
avrebbe dovuto dedicare, in memoria, una qualche «ducea» - aveva
chiesto di essere fucilato, ma non gli fu risparmiata
l’ignominia della forca: Nelson lo fece impiccare all’albero
maestro della sua nave. Sarà forse per questo crudele e ingeneroso gesto che il duca di
Bronte diventerà il protagonista di
un’inquietante leggenda che
la gente dell’Etna si tramanda e che enigmaticamente è venuta a
mescolarsi con l’impresa di Garibaldi?
Mi è stata raccontata, questa leggenda, da un albergatore di
Taormina, il quale non perde occasione per ricordare ai
forestieri con cui entra in contatto che lo strapiombante verde
di cui gode questo magnifico promontorio (che, tuttavia, di anno
in anno viene sempre più eroso e sfregiato dal dilagare del
cemento) si deve agli stranieri che qui abitarono, soprattutto
nell’Ottocento. Inglesi, la maggior parte.
Tante le loro
decantate residenze, tappe esclusive di una tradizione che si è
fatta mito. Villa Nelson, tra queste, lascia indovinare
le delizie del suo ben protetto giardino.
Non sono riuscito a
sapere se essa abbia a che vedere con la vicina ducea di Bronte
o se si tratti di un caso di omonimia di cui si è perduta
traccia, il nome rimasto tra i locali per antica abitudine. […]
E
ora la leggenda. Essa racconta che il corpo di Elisabetta I, la grande
sovrana d’Inghilterra e d’Irlanda, dopo la sua morte fu rapito da una
schiera di diavoli e in volo, attraverso la Manica e la Francia,
trasportato in Sicilia, dove fu gettato nel cratere dell’Etna.
Nel
precipitare, da un piede del cadavere si sarebbe staccata una scarpetta
che, rotolando tra le lave, si sarebbe arrestata ai piedi di una
rocca
chiamata Calanna, tra Maletto e Bronte.
Così mi racconta l’amico
albergatore, rifacendosi forse alla versione che, nella seconda metà del XVIII secolo, contribuì a diffondere Patrick Brydone, il quale però
credeva che il corpo precipitato nel cratere fosse quello della madre
della regina Elisabetta, la sfortunata Anna Bolena.
Comunque sia, resta un’oscura diceria, questa; e ancor più lo è il
seguito, in cui compare Nelson. Vuole infatti la leggenda che durante
la
cerimonia in cui fu nominato duca di Bronte, nel Palazzo Reale di
Palermo, l’ammiraglio sia stato avvicinato da una misteriosa donna, la
quale gli avrebbe donato un cofanetto. «Lo apra in segreto», gli avrebbe
detto la sconosciuta, «e lo tenga sempre con sé.»
Comprensibile lo
stupore di Nelson nel constatare che conteneva soltanto una scarpetta da
donna. Lontanissima da lui l’idea che quella scarpetta potesse
appartenere alla regina Elisabetta, ne fece dono alla sua amante, Lady
Emma Hamilton.
E questo, vuole la leggenda, gli sarebbe stato fatale.
Poco prima della battaglia di Trafalgar, infatti, l’enigmatica donna che
nella reggia di Palermo gli aveva fatto dono del cofanetto, gli sarebbe
riapparsa, rimproverandogli di non avere rispettato il patto e
annunciandogli l’ormai prossima fine. Il resto è noto.
Horatio Nelson, il duro ufficiale che in precedenti battaglie aveva
perso un occhio e un braccio; lui, l’ammiraglio che sembrava trarre
forza dalle sue stesse mutilazioni, nelle acque di Trafalgar trovò la
morte. Raggiunto alla schiena da una fucilata, spirò dopo aver appreso
della propria vittoria a conclusione dello scontro con la flotta
franco-spagnola; trionfo navale britannico, quello - era il 1805 -, che
pose fine alle mire francesi di dominio sul mare.
Leggo ancora una volta la scritta ai piedi della croce celtica e mi
appare improvvisamente chiaro perché, in giro per la Sicilia, mi viene
detto continuamente che quest’isola è un «deposito di misteri».
Ora non
mi è più estranea questa scritta, e mi dico che è giusto sia ricordato
anche qui, Nelson, lontano dalla sua patria e dal luogo della sua ultima
battaglia. La storia ha una sua logica, anche se, a volte,
apparentemente irrazionale.
Questa ducea a ragione porta il nome di Horatio Nelson anche se lui non
vi mise mai piede. Di questo suo possedimento usufruirono gli eredi
che legittimamente ne fecero occasione di rendita e meta di esotiche
vacanze.
Alla morte dell’ammiraglio la proprietà passò al fratello
Guglielmo, pastore anglicano; poi fu trasmessa alla figlia di questi,
Carlotta, sposa del visconte di Bridport.
Erano i Bridport signori della ducea quando Bronte divenne
teatro,
nell’agosto 1860 di atroci fatti di sangue, cui seguì una repressione
altrettanto dura e cieca, il garibaldino Nino Bixio a sovrintenderne.
Incoraggiata dalla promessa di riscatto che lo sbarco dei Mille a
Marsala sembrava aver portato ai siciliani prigionieri dei feudi, a
Bronte la popolazione si sollevò contro i notabili e in un crescendo
di violenze, tra saccheggi e incendi, ne trucidò otto (i
morti furono 16, NdR).
Dopo un processo
sommario, Bixio fece fucilare cinque brontesi, tra i quali un avvocato
che con la rivolta e gli eccidi aveva pochissimo a che fare, e un povero
pazzo la cui colpa era stata quella di aver girato per il paese con la
testa fasciata da pezze messe insieme a formare un approssimativo
tricolore.
Anche in altre zone dell’isola, dopo le vittorie garibaldine di Calatafimi e di Palermo, si erano avuti disordinicon eccidi per
vendette e per antichi odi tra servì e padroni, ma qui, tra le lave del
vulcano, vi era una proprietà inglese da tutelare.
E gli inglesi -
questo ormai non sorprende più nessuno – finanziariamente avevano
contribuito all’impresa garibaldina in Sicilia. [...]
Nel piccolo cimitero della ducea, ombreggiato dai cipressi e dai
platani, una tomba, sormontata anch’essa da una croce celtica, mostra
incisi questi versi:
«Addio allora a quel che è conosciuto ed esaurito /
benvenuto a quel che è sconosciuto ed inesplorato».
Sono del poeta
scozzese William Sharp, che qui a lungo soggiornò e nel 1905 morì, dopo
aver pubblicato le sue opere sotto lo pseudonimo di Fiona MacLeod.
Fingendomi incoraggiato dal benvenuto che il poeta dà allo «sconosciuto»
e all’«inesplorato», altre tombe scopro, con incisi nomi stranieri. Ecco
quelle dei Thovez, di cui in uno scritto dedicato a questi luoghi
parla Sciascia.
È per aver letto questo scritto che sono giunto qui, di fronte a queste
sepolture che, assieme al loro ormai impalpabile contenuto, sembrano
onorare il vincolo del silenzio che la gloriosa storia dell’Unità
d’Italia a esse ha imposto.
La Ducea di Bronte ed i Fatti del 1860
LA DUCEA «MALEDETTA»
di
Michele Pantaleone
«A Bronte non fu una guerra
contro i Borboni ma era una lotta degli oppressi contro gli oppressori e gli
oppressori, grandi e piccoli, erano i notabili paesani al servizio della Ducea
"maledetta"».
«L'aspetto più
sconcertante della storiografia del tempo sta nella totale assenza dai «Fatti di Bronte» della Ducea, come se fosse stata estranea...»
Intervento di Michele Pantaleone al convegno sul
film di Florestano Vancini "Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non
hanno raccontato" (Bronte, 1983)
«... E ad entrare nel castello, che è poi
l’antica abbazia di Santa Maria di Maniace, la suggestione si fa più
profonda: nel cortile è una croce di pietra lavica, ma di forma da noi
inconsueta, borchiata, in memoria di Nelson; nella chiesa sono sepolti
gli amministratori inglesi del feudo e i loro familiari: e chi sappia
qualcosa dei fatti del 1860 è colpito dal nome Thovez, ché
Guglielmo
e Franco Thovez erano allora gli amministratori.
E si può dire che come essi, e i loro predecessori e successori
nell’amministrazione del feudo, sono riusciti a ricreare un paesaggio
inglese intorno al castello, la realtà siciliana è riuscita a fare di
loro dei siciliani della peggiore estrazione: gretti, furbi, tortuosi,
abilissimi nel gioco delle parti.
Qui dove il greco Giorgio Maniace sconfisse nel 1040 i saraceni, nel
feudo chiamato appunto della Saracina, la gloria di Horatio Nelson e di
Nino Bixio scende nel sangue e nell’ingiustizia: Nelson ha accettato
questa terra come compenso di un tradimento e di un massacro, Bixio si è
fatto apostolo del terrore invece che della giustizia.»
Furono i Thovez, per difendere la minacciata proprietà della duchessa
che in quel tempo se ne stava nella sua Inghilterra, a chiedere soccorso
al console britannico a Catania, e questi a rivolgersi a Garibaldi, il
quale comandò scrupolosa fermezza nel reprimere quello che Verga
definisce il «furibondo carnevale del mese di luglio».
E fu davvero furibonda quell’ubriacatura di sangue, a Bronte, in cui
uomini da sempre assoggettati come pecore si trasformarono in lupi,
facendo orribile strazio dei primi «padroni» che trovarono sulla loro
strada. Tutto in nome di quel proclama che da Marsala aveva chiamato il
popolo siciliano a insorgere con le armi contro chiunque rappresentasse
un nemico della rivoluzione.
Ma da quegli eccessi la rivoluzione rischiava di essere sporcata e ancor
più si sarebbe imbrattata le mani se i rivoltosi avessero sfogato la
loro rabbia sull’appartata ducea. […]
In un giardinetto ai
piedi della scalinata che immette sul piazzale della
chiesa di San Vito,
dove il 10 agosto 1860 furono fucilati i cinque brontesi considerati da
Bixio i caporioni della rivolta, un monumento in ferro battuto, fatto
erigere dal Comune in anni recenti, ricorda il tragico episodio.
Ma
questo, che Alberto Savinio chiamerebbe «monumento casereccio»,
nonostante i contorcimenti e gli spasimi tra corde e lame di un corpo
umano legato a una sorta di cippo sacrifìcale, non ha la solenne
retorica dei monumenti quando era tempo che si costruissero.
E questa specie di stento orticello più che un giardinetto, che gli sta
intorno ne accentua la modestia, come di cosa fatta in famiglia per
tramandare memoria di un avvenimento rimasto nel chiuso di una piccola,
insignificante comunità. E, del resto, come si sarebbe potuto erigere un
vero monumento in ricordo di una nera pagina di storia in cui non
figurano né colpevoli né innocenti, né vincitori né vinti?
Dopo estenuanti arringhe si giunse al verdetto, che fu di
assoluzione sia per il generale garibaldino sia per i rivoltosi, essendo
stata ogni responsabilità addossata alle «circostanze che davano ragione
sia ai massacratori sia a Bixio, il quale li fece fucilare senza
distinzioni pur di non essere intralciato», così si espressero i
«giudici», «nella marcia trionfale dei garibaldini verso l’Unità
d’Italia».
La marcia trionfale dei garibaldini verso l’Unità d’Italia, quella degli
Alleati, ottantatré anni dopo, per liberare l’Italia da nazisti e
fascisti; e anche questa volta la proprietà inglese, a Bronte, sarebbe
stata difesa e risarcita.
Un villaggio simbolicamente costruito lì, di
fronte al castello dei Nelson, negli anni degli assalti ai latifondi, e
per contrappasso dai capi delle rivolte contadine
intitolato all’ammiraglio Caracciolo, nell’estate del 1943 fu fatto abbattere
dalle autorità militari di Sua Maestà britannica, gli assegnatari dei
terreni costretti a firmare un più «ragionevole» atto di rinuncia. (le
imponenti costruzioni del Borgo Caracciolo
furono abbattute dalle ruspe del Duca
nella primavera del 1964, NdR)
Dalla balconata che lo sovrasta, nelle prime ombre della sera, il
monumento si confonde con il grigiore delle case e lo scoscendere rapido
dei tetti, la cui umile geometria è
deturpata da panciuti recipienti
di un vivissimo quanto stravagante colore azzurro (e vien da
chiedersi perché questi utili contenitori d’acqua che in Sicilia
troneggiano ovunque non vengano messi in commercio con un colore che li
renda meno appariscenti).
In quest’ora serena di fine giornata, mentre di quella fucilazione cerco
tracce ormai irrecuperabili, mi accompagnano le voci taglienti dei
bambini del quartiere.
Sprangata e muta, con il bel portale - unica sua attrattiva esteriore -
puntellato da vistose travi, la chiesa di San Vito, in faccia
alla quale i cinque condannati caddero, sembra languire in un abbandono
senza rimedio.
Una tristezza infinita scende, con la sera, su questo paese acquattato
tra buie lave che si perdono a vista d’occhio, incombente ovunque la
massiccia mole del vulcano, come fosse un immenso altare verso cui gli
esseri umani levano sguardi deferenti.
Mi trovai qui, una volta, in inverno, in questa stessa ora, e l’immagine
del vulcano, allora ricoperto dalla neve tutta rosa di tramonto, mi è
rimasta nella memoria come una delle esperienze di viaggio più
straordinarie.
L’Etna innevato a Mario Praz ricordava «quel terribile
bianco di cui parla Melville a proposito di Moby Dick»; e in certi casi
la presenza del vulcano, in questa zona, si fa così ossessiva, assoluta,
incalzante che si è come sopraffatti dall’arcano manifestarsi di una
potenza divina.
Questa sera, no. Inargentato dalla luna, l’Etna è un grosso animale
accovacciato, buono, solo, perduto nel sonno.
Torno a camminare, come i
Brontesi fanno nelle loro attonite passeggiate serali, tra queste lave
che fanno pensare a corsi d’acqua pietrificati d’un colpo, deserti e
apparentemente inospitali.
Quando vi giunsi la prima volta, erano il pendolarismo con Catania e la
coltivazione del pistacchio, qui impiantato dagli arabi, a muovere la
modesta economia del paese. Oggi, un migliaio di brontesi confezionano
jeans per le migliori marche d’abbigliamento.
Allora non c’era il
monumento all’«Olocausto dei cittadini di Bronte », che ora arrugginisce
come un ferro vecchio gettato chissà da chi su un terrapieno dove i
ragazzi, come fosse lo spiazzo di un triste oratorio, sul far della sera
vanno a giocare a palla.
Sembra di essere passati da un continente a un altro se si arriva qui
provenienti dal promontorio di Gibilrossa. Eppure la storia, tra questi
diversi luoghi, ha creato un legame che non si potrà più sciogliere.
Marsala, Calatafimi, Palermo, Bronte, Milazzo segnano le tappe di
un’impresa che rese possibile il formarsi di una nazione, ma che non ha
colmato le distanze tra le varie realtà della Sicilia; distanze
accentuate, prima d’ogni altra cosa, dal repentino mutare della natura
che qui ha condizionato finanche la storia, assoggettandola a esiti che
altrove sarebbero apparsi inconcepibili, le accomodanti lapidi a
documentarne, di volta in volta, l’innegabile eccezionalità. [...]